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Paesi baltici: “democrazia” intermittente tra sfilate di SS e “minaccia russa”

Crescono gli allarmi per le manifestazioni più eclatanti e, in diverse occasioni, sfacciatamente provocatorie, di neofascismo, antisemitismo, neonazismo, revisionismo storico, in vari paesi dell’Europa orientale. La questione ha toccato picchi di aperta esternazione, anche simbolica, con l’apparizione dei battaglioni neonazisti in Ucraina, i cui capimanipolo sono stati a suo tempo addestrati da istruttori USA, quindi usati sul fronte del Donbass, dove hanno terrorizzato la popolazione civile, “istituzionalizzati” dal potere golpista di Kiev e, ovviamente, bellamente ignorati – quando non addirittura romanzescamente riverniciati di buonismo – dalla maggior parte dei media nostrani.
Ma, prima e oltre che in Ucraina, dove l’eroicizzazione di elementi e gruppi a suo tempo al servizio delle SS è frutto della “democratizzazione” degli ultimi anni, l’area di più radicata e stagionata memoria nazista è quella del Baltico. Negli ultimi tempi anche in Polonia e in Moldavia si assiste a un crescendo di distruzione di monumenti dedicati ai soldati sovietici caduti nella Seconda guerra mondiale e alla rimozione dei resti di militari dell’Armata Rossa dai cimiteri e loro trasferimento in località remote. Nel migliore dei casi, i monumenti vengono trasferiti in periferie lontane delle città; in altre occasioni, si recintano aree apposite in cui vengono raccolti busti, monumenti, targhe legati alle gesta dei soldati rossi o che in qualche modo ricordino il periodo sovietico – è stato così, a suo tempo, nella stessa Russia – e, più di recente, in alcuni di quei paesi, è scoppiata la moda dei “musei dell’occupazione sovietica”, a volte semplicemente “musei dell’occupazione”, equiparando il periodo sovietico all’invasione nazista. In Estonia, i veterani russi dell’Armata Rossa, anche i decorati come Eroi dell’Unione Sovietica, sono equiparati per legge agli scagnozzi locali al soldo delle SS naziste: alle parate vengono fatti sfilare insieme come “partecipanti alla Seconda guerra mondiale”! Si demoliscono i monumenti ai caduti sovietici, ma si investono solide cifre in quelli alle Divisioni SS baltiche, i cui reduci possono riunirsi ufficialmente, in uniforme nazista, a differenza dei veterani rossi, cui si vietano le assemblee e persino l’esibizione di decorazioni sovietiche. Il 16 marzo è già dal 1994 pressoché ricorrenza ufficiale in Lettonia, a ricordo dell’ingresso in battaglia delle Divisioni lettoni, contro l’Armata Rossa e nelle file delle SS. E se i membri del Comitato antifascista lettone organizzano controparate con la bandiera dell’Urss, a finire in galera sono proprio loro, per esibizione di “simboli antistatali” e non i nazisti della Legione volontaria SS.
Il sempre più traballante primo ministro ucraino Arsenij Jatsenjuk – costretto ora a inventarsi anche falsi attentati, per cercare di risollevare l’audience intorno alla sua persona – non escogita nulla di nuovo, quando parla di “Untermenschen” a proposito dei russi che vivono in Ucraina o quando, come nel gennaio scorso, nell’intervista alla TV tedesca ARD, aveva parlato di “aggressione dell’Urss alla Germania e all’Ucraina” nel 1941: nei paesi baltici, gli omaggi alle ex SS locali, i pianti contro la “occupazione sovietica”  o l’esclusione dalla categoria dei vivi di chiunque non sia “nativo etnico”, sono da tempo istituzionalizzati.
Per la verità, ogni tanto anche lì sono costretti a fare qualche passo indietro, quando il passato di qualcuno di quegli “eroi” rischia davvero di compromettere il paese agli occhi della comunità internazionale che, se volge la testa o addirittura amplifica gli urli sulla “invasione bolscevica delle piccole repubbliche” baltiche, è costretta a esternare commenti sdegnati a proposito dell’oltraggio ad alcuni “principi fondanti” della democrazia, come è il caso dell’olocausto. E’ così che in Lituania lo scandalo è scoppiato quando si è scoperto che un “eroe nazionale” aveva partecipato, durante la guerra, non solo alle uccisioni di cittadini sovietici – e questo poteva passare: anzi, per questo aveva avuto una medaglia – ma anche alle stragi di ebrei. Dopo quindici anni che Pranas Končius, combattente antisovietico della cosiddetta Unione dei partigiani per la libertà della Lituania (attiva dal 1944 fino a metà anni ’50) era stato insignito dell’ordine della Croce di Vytis, la presidente Dalja Gribauskajte si è vista costretta a cancellare il provvedimento, “in considerazione dell’appello del Centro per il genocidio e la resistenza”, che accusava Končius di aver partecipato ad almeno tre fucilazioni in massa di donne e bambini ebrei lituani. Sottufficiale dell’esercito lituano, con l’occupazione tedesca Končius entrò a far parte della polizia al servizio dei nazisti; nel ’44, con il ritorno del potere sovietico, si dette alla macchia nelle file dei cosiddetti “fratelli dei boschi”. Accerchiate le bande più volte dai reparti del Ministero degli interni, Končius riuscì sempre a sottrarsi alla cattura, fino al 1965, allorché fu ucciso in un ultimo scontro a fuoco con la polizia sovietica.
Proprio a quei “fratelli dei boschi”, che agivano non solo in Lituania, ma in tutti i paesi baltici, è dedicato il monumento inaugurato lo scorso 11 settembre a Ile, in Lettonia, alla presenza di alte cariche militari ed esponenti della repubblica, tra cui lo speaker della Sejm, il parlamento lettone. Attivi dalla fine della guerra fino a buona parte degli anni ’50, i “fratelli dei boschi” erano composti per lo più di ex legionari baltici delle Waffen SS e si resero responsabili dell’uccisione di alcune migliaia di civili sovietici. Di recente, una pubblicazione del Ministero degli esteri di Riga – in Lettonia, nel 1935, gli ebrei costituivano il 5% della popolazione – contiene una perla del tipo: “solo dopo l’indipendenza, nel 1991, si è cominciato a studiare la storia dell’olocausto in Lettonia, durante l’occupazione nazista e sovietica, dal 1940 al 1956” e si sono portati alla luce “aspetti prima distorti dalla propaganda e disinformazione nazista e sovietica”. Bontà sua, si ammette che “alcuni elementi locali” aiutarono i battaglioni di sterminio delle SS anche in Lettonia, per essere poi trasferiti in Russia e Bielorussia; nel massacro di 25mila ebrei del ghetto di Riga, la polizia lettone, secondo la pubblicazione, svolse “solo”(!) il lavoro di sorveglianza, nelle cosiddette “Schutzmannschaften”.
Nei tre paesi baltici, l’odio per le nazionalità diverse si è sempre manifestato sotto forma della loro estraniazione ufficiale dalla vita sociale e pubblica. Se in Estonia, sin dagli anni ’20 si sottoposero a emarginazione, discriminazione e saccheggio quelle decine di migliaia (di quel milione di emigrati bianchi russi dopo la rivoluzione d’Ottobre) di “fratelli di classe” russi fuggiti alla “peste bolscevica”, solo per il fatto di non essere estoni puri, ecco che oggi addirittura il preambolo della Costituzione lettone sancisce ufficialmente il principio per cui chi non è lettone è “non cittadino”, e in tale categoria rientra quasi il 15% della popolazione. Vi si parla infatti esclusivamente di “terre lettoni storiche”, “nazione lettone”, “lingua e cultura lettoni”. Nessuna menzione del 27% di popolazione russa, 3,5% bielorussa, 2,2% ucraina e altrettanto polacca; semplicemente, non esistono: non votano, non hanno lingua propria, insomma, come anticipava 90 anni fa il bulgakoviano Poligraf Poligrafič “alla persona senza documenti è severamente vietato esistere”.
Ma tant’è, in nome della “indipendenza”! Recentemente, Oleg Nazarov, del Club Zinovev, scriveva che “il 10 ottobre 1939 fu firmato il trattato sovietico-lituano di mutua assistenza, secondo cui l’Urss passava alla Lituania la città di Vilna (l’attuale capitale Vilnius) e la regione di Vilna. Su tale conseguenza della cosiddetta “occupazione sovietica” (la cui negazione è punibile per legge) i politici lituani tacciono. Non ricordano che durante “l’occupazione” la popolazione della Lituania era in crescita e ora invece si riduce. Tale silenzio non è un caso. La Lituania, che era nell’Urss la vetrina delle conquiste del socialismo, nei 24 anni dalla sua indipendenza non ha ottenuto prosperità, ma si è trasformata in una colonia dell’UE”. Nel complesso, a partire dal 1920 e durante la guerra civile scatenata dagli eserciti bianchi e dalle potenze straniere contro la giovane Repubblica sovietica russa, la Lituania è passata attraverso l’occupazione polacca di vasti territori, mire bielorusse su altri, dittatura fascista e “lituanizzazione” di territori e popolazione e, infine, invasione nazista. Alla fine della guerra il paese riacquistò i territori persi e inoltre, scrive Nazarov – non certo imputabile di simpatie staliniane – si allargò grazie a Stalin con altre aree, in precedenza tedesche o bielorusse. Nel 1990, in occasione del 50° dei trattati sottoscritti dall’Urss con le repubbliche baltiche, “Meždunarodnaja Žizn”, pubblicava alcuni rapporti inviati nel 1939 a Mosca da fiduciari o plenipotenziari sovietici. In tali rapporti si evidenziava come quei vari patti (di mutua assistenza, commerciali o di non aggressione) facessero sorgere forte apprensione nelle classi dominanti di quei paesi: apprensione per la possibile “bolscevizzazione” che sarebbe seguita all’arrivo di reparti dell’Armata Rossa a difesa delle basi concesse all’Urss e che erano invece salutati con entusiasmo dalle forze rivoluzionarie, convinte della prossima fine dei regimi fascisti locali.
Dunque, ancora una volta, si rileva come il nucleo centrale di ogni contrapposizione – nazionale, culturale, religiosa, ecc. – abbia una radice di classe e come l’odierna canea attorno alla presunta “minaccia russa” o a qualunque tema che abbia a che fare con l’esperienza sovietica, risponda a precisi interessi di classe. Gli atti di contrizione per l’olocausto nazista tacciono di fronte alle odierne sfilate degli ultimi avanzi di quelli che Der Spiegel, nel 2009, definiva “Die Komplizen”, se si tratta di abbattere le frontiere di fronte ai capitali occidentali; le genuflessioni quotidiane dinanzi all’icona della democrazia liberale passano in secondo piano allorché sono in gioco gli interessi del polo imperialista europeo, che ha bisogno di allargare il proprio mercato interno e la propria riserva di forza lavoro. Così che, ben vengano gli eredi delle Waffen SS a irrobustire la UE e a cedere territori alle esigenze dell’Alleanza atlantica contro la “minaccia russa”: dopo tutto, si tratta di repubbliche democratiche, anche se la democrazia è limitata a una fetta sola della popolazione.

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