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“Sorry we missed you”. Bene il primo tempo, poi?

Dopo “Io, Daniel Blake” torna sul grande schermo Ken Loach con “Sorry we missed you”, un film che racconta lo stato di precarietà lavorativa, e quindi di vita, di una famiglia di Newcastle in cui marito e moglie sono impiegati rispettivamente nel settore della logistica (Ricky) e dei servizi alla persona (Abby).

Il film ruota intorno alla figura di Ricky, disoccupato che, dopo aver cambiato molti lavori, accetta un’offerta per diventare facchino nella più grande impresa di consegne della città.

In breve, la storia si sviluppa lungo le crescenti difficoltà della famiglia di trovare un equilibrio tra i problemi della vita quotidiana alle prese con due adolescenti sempre più irrequieti vista la maggiore assenza dei genitori da casa, i ritmi e la qualità del lavoro da XIX secolo, e l’incertezza economica causata sia dalle alte spese necessarie a mantenere gli strumenti de lavoro (nello specifico, il furgone appena acquistato da Ricky, per cui Abby ha dovuto vendere la sua macchina), sia da un mercato immobiliare che non permette alla coppia di comprare una casa e uscire dalla spirale-a-perdere dell’affitto (caro) a vita.

Lo spaccato ritratto da Loach è di grande impatto. Il mondo del lavoro, anzitutto: nel divenire dipendente dell’“Amazon da cinepresa”, il datore di lavoro impone a Ricky una retorica di concertazione (per esempio, «tu lavoro con noi, non per noi») tra imprese e lavoratori che mal si sposa con i profitti generati dai primi e le condizioni in cui operano i secondi. 14 ore di lavoro su sei giorni settimanali, pasti consumati alla guida e bottiglia vuota sempre al seguito per espletare le funzioni elementari senza interrompere il flusso delle consegne, scandito da un beep lanciato da una “macchinetta scanner” che monitora ogni spostamento del facchino, dei pacchi e segna il tempo in cui tutto, ma proprio tutto, deve essere effettuato.

Anche Abby, che assiste a domicilio persone non autosufficienti, si scontra, oltre che con le “normali difficoltà” relative al suo impiego, con una paga a cottimo che non tiene conto dei lunghissimi spostamenti, però necessari all’espletamento della prestazione lavorativa, e che non le permette di sbarcare il lunario.

In questo quadro, le conseguenze forse maggiori le riscontra la gestione famigliare, dove gli adolescenti rispondono ognuno a modo sua all’assenza genitoriale, sia responsabilizzandosi cercando di supplire con la volontà alla nuova condizione, sia marinando la scuola e seguendo un percorso di scontro/denuncia contro l’autorità di casa.

Una casa che, a dispetto degli sforzi, non riesce ad essere acquistata della coppia, costretti loro malgrado a un affitto pesantissimo per le loro tasche. Qui, il leit motif della proprietà e dell’acquisto dell’immobile è denunciato sia come struttura ideologica imperante dei nostri anni, sia come effettiva impossibilità di fare altrimenti nel momento in cui un affitto, in assenza di un’adeguata edilizia pubblica che calmieri i prezzi sul mercato, viene a costare tanto quanto la quota mensile dell’accensione di un mutuo.

In altri termini, Loach riporta tutta la tragedia dello sfruttamento del lavoro e delle conseguenze che questo comporta nella vita, anche più intima, come quella sessuale, che oggigiorno vive chi è impiegato in quei settori cosiddetti a basso valor aggiunto (di base, richiedenti scarse competenze al lavoratore o alla lavoratrice, quindi poco remunerati e facilmente rimpiazzabili) che, per loro caratteristiche, non possono venire esternalizzati in altri paesi.

Eppure, la realtà non si ferma dove si ferma il regista britannico, ossia (segue spoiler dell’ultima scena) alla disperazione più profonda e alla totale impossibilità di prospettiva per un futuro migliore. Loach descrive, a nostro parere, con profonda sensibilità la sofferenza della classe operaia nel XXI secolo, ma questo è solo il primo tempo della storia: quel che manca è il tentativo di organizzazione che metta in discussione la realtà descritta.

Si potrebbe rispondere “non era nelle sue intenzioni”, e questo è legittimo anche da un punto di vista artistico, ma se si ha l’ambizione di andare oltre i limiti che questo modello di sviluppo impone, allora la “critica fraterna” all’impianto loachiano ci sembra giustificata.

In quest’ottica, è esemplare la guerra innescata dal datore di lavoro tra i suoi operai per accaparrarsi un percorse di consegne migliore, ossia più faticoso, ma anche garante di un compenso maggiore – sempre benvisto nei casi di lavoro povero o giù di lì. Seppure non mancano nel film momenti di solidarietà tra colleghi, da una parte, il tutto è espresso in termini individuali, tra singoli lavoratori che mostrano più o meno sensibilità “di campo” verso i propri pari (questo è un tratto tipico della visione del rapporto di lavoro nel mondo anglosassone, incentrato sulla relazione tra singolo lavoratore e dirigente, a discapito di una visione collettiva, e collettivizzante, del rapporto stesso); dall’altra, questi sono puramente difensivi, di aggiustamento per meglio sopravvivere al dettato dell’impresa.

Ecco cosa manca al film di Ken Loach, un “secondo tempo” di (tentativo, almeno) riscatto rispetto alle imposizioni che la struttura dei rapporti sociali impone nei luoghi di lavoro, anche nella fredda Newcastle di questo nuovo decennio.

Forse non è un caso che questo secondo tempo non ci sia, perché se nell’attuale dibattito politico un’alternativa all’attuale società fatica a esprimersi, difficilmente potrà essere rappresentata dai cantori della realtà.

Tuttavia, c’è bisogno che anche artisti e intellettuali vari prendano il coraggio a quattro mani e provino a immaginare un’evoluzione degli odierni rapporti di forza, a raccontare un modello di vita in società che non sia basato sullo sfruttamento di qualcuno o qualcosa, ad aprire una finestra sul domani che non sia la copia intirizzita del grigiore politico-sociale di questo inizio millennio “europeo”.

Per fuggire il Tina (there is no alternative), ci sarà bisogno di tutte le forze, fisiche e intellettuali, ognuna nel suo campo d’azione, tutte protese verso un unico obiettivo.

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3 Commenti


  • premo

    Non sono d’accordo sull’ analisi dove si lamenta la mancanza di un secondo tempo di riscatto.
    Non e’ un falso e funzionale film americano dove si intravede una speranza in un futuro migliore, dove ” arrivano i nostri “, e non vuole assolutamente esserlo.
    Loach magistralmente descrive lo status quo, che determina anche crisi famigliare sia con i figli che tra i coniugi, tutto conseguente alle condizioni lavorative dei coniugi. Perche’ avrebbe dovuto suggerire un futuro migliore se attualmente e’ ben lontano dall’ orizzonte.
    L’ impietosa e veritiera descrizione mostra allo spettatore il rapporto di lavoro nella logistica in un fermo immagine che a molti e’ sconosciuto nonostante tutti usufruiamo di questo servizio e questo, secondo me, e’ il fine che si prefiggeva Loach. Ad ognuno spetta poi fare le proprie considerazioni in merito a cio’ che ha visto e il regista da buon ” maestro ” ha suonato la sveglia nel nostro cervello, ci ha sollecitato alla riflessione su cio’ che e’ giusto e cio’ che e’ sbagliato.


  • giancarlo staffolani

    condivido il commento di Premo, un artista non può inventarsi una alternativa materialistica che nessuna delle forze antagoniste non riescono neanche ad elaborare non solo nel Regno Unito ma in tutto in tutto l’occidente, salvo immaginare improbabili scenari elitario-cosmopoliti .


  • andrea

    Non riesco a dare una funzione politica sistematica ad un regista cinematografico come Loach, in quanto, con tutto il rispetto e l’ammirazione nei suoi confronti, non è certo compito suo avviare una concreta e reale coscienza di classe tra la gente, soprattutto in un contesto come quello attuale. Eppure – e qui interviene la magia, fattore di cui è dotato un certo cinema, tra cui anche alcune opere loachiane – prospettare sulla pellicola una società altra, anche partendo dalle condizioni drammatiche che stiamo attraversando, un mondo libero e egualitario in cui la persona cresce e vive assieme all’altro, non soppiantandolo, può donare ad un film quel granello di speranza cui accennava Gramsci, definendolo il “pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà”.

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