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Presidenziali egiziane: la scure del Comitato elettorale

Le ultime tre esclusioni sancite da una macchina valutativa che oscilla come il pendolo di Allan Poe riguardano nomi pesanti. Il candidato leader della Fratellanza Musulmana Al-Shater eliminato per le passate condanne di “fondamentalismo”, il salafita Ismail accusato di avere una madre con doppia nazionalità, quella americana acquisita di recente. L’ex capo dell’Intelligence Suleiman rifiutato per la vicinanza ai risvolti più lugubri del regime mubarakiano. Certo viene il sospetto che se un gioco pilotato c’è stato è costituito proprio dall’uso dell’uomo dei Servizi, personaggio impresentabile al pari del vecchio raìs, la cui inattesa entrata nell’agone elettorale per il rotto della cuffia rappresentava di per sé una provocazione. Esprimeva il totale diniego del desiderio di cambiamento e sarebbe risultata indigesta ai pur tanti laicisti che contestano la continuità col regime.

L’esclusione di Suleiman può bellamente bilanciare quelle dei due leader islamici che avrebbero potuto infuocare gli animi dei propri sostenitori. Messa così ciascuna bocciatura appare giustificata da un equilibrio che, pur forzato, sembra non escludere colpi verso chicchessia. In queste ore pare che la scure s’abbatterà anche su Shafiq, perché è stato ministro di Mubarak per un decennio. L’efficiente struttura organizzativa della Fratellanza Musulmana è parsa capace di superare gli sgambetti più o meno pilotati del destino proprio grazie alla seconda candidatura presentata, quella di Mohamed Mursi, uno dei capi del Partito della Libertà e Giustizia. Mossa criticata da alcuni commentatori che invece si rivela efficace. Parecchi analisti scuotono tuttora la testa sulla convenienza di puntare anche su questa carica sia perché smentisce una promessa fatta dal movimento di non correre per la presidenza della Repubblica, sia perché un eventuale nuovo successo darebbe al partito di maggioranza tutte le rappresentanze del nuovo Egitto. Comunque Mursi è in corsa e dovrà superare alcuni svantaggi. Per primo l’essere considerato da parte della sua stessa componente un candidato minore, quindi la scelta se far leva sull’elettorato fondamentalista, orfano del suo leader e non rappresentato da nessun’altra figura.

Il voto salafita ha un peso non indifferente ma esporrebbe Mursi ad accelerazioni confessionali che la stessa Fratellanza non si sente di fare. Il suo avvio è stato deciso e nel contempo pacato, ha evitato le spettacolarizzazioni avanzate da Al-Shater con show e filmati itineranti, ha assicurato che non ci sarà nessun iman a decidere dietro le quinte le sorti del Paese, ribadendo di voler essere un presidente per tutti gli egiziani. E pur rassicurando sui rapporti con Israele ha esplicitamente affermato che in politica estera non sarà disponibile a prendere ordini da potenze straniere come faceva Mubarak, perché la continuità con lo spirito del rinnovamento dovrà essere garantita. Dovesse vincere lui i conti con l’apparato militare saranno dietro l’angolo, ma non è detto che segneranno uno scontro. Anzi. I canali di confronto fra le due strutture forti dell’Egitto in costruzione sono già stati avviati; visto l’importante ruolo di rappresentanza raggiunto in questi mesi dalla Fratellanza – il punto più elevato in 84 anni di storia – i due gruppi non riapriranno un conflitto deleterio per entrambi. S’è parlato di una spartizione di competenze sugli affari finanziari interni. E molto pragmaticamente nella prima conferenza pubblica Mursi ha sottolineato l’urgenza dei problemi economici nazionali. Magari partendo da tematiche al contempo minute e populistiche come traffico, inquinamento e igiene delle città, a cominciare da quella capitale. Ma sono questioni che interessano tutti al di là del censo e della fede. Sono sentite dalla gente e con esse dovranno misurarsi anche i candidati più accreditati alla presidenza. Che dopo la cura della mannaia restano il laico Moussa e l’islamista “eretico” Abol Fotouh.

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