"Facciamo appello a tutte le forze militari che sono entrate nella Mezzaluna petrolifera a ritirarsi immediatamente, senza precondizioni". E’ la minacciosa ma per ora impotente e preoccupata ingiunzione inviata dai governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito al generale Haftar e al governo di Tobruk che nelle scorse ore, con un colpo di mano, hanno occupato gli importanti terminali petroliferi di Zueitina, Ras Lanuf, Es Sider e Brega.
"Ribadiamo l'intenzione di applicare la Risoluzione 2259 del Consiglio di Sicurezza – si legge ancora nella dichiarazione -, incluse misure contro l'illecita esportazione di greggio, le attività che potrebbero danneggiare l'integrità e l'unità delle Istituzioni finanziarie libiche e la NOC (National Oil Corporation), e contro individui ed entità impegnate o che sostengono atti che rappresentano una minaccia per l'unità, la pace, la stabilità e la sicurezza della Libia".
Insomma, al di là della formulazione altisonante, le potenze interessate dal difficile rompicapo libico affermano esplicitamente che “il petrolio è nostro e guai a chi lo tocca”. Basta leggere la parte finale del messaggio per capire qual è il reale oggetto della contesa – e il generale Haftar, per un certo tempo uomo dell’Occidente ed ora spina nel fianco della strategia europea e statunitense, lo sa bene: "Ci rivolgiamo a tutte le parti in causa perché evitino ogni azione che potrebbe danneggiare le infrastrutture energetiche libiche o compromettere ulteriormente le esportazioni". "Il greggio libico appartiene al popolo libico. Il Consiglio Presidenziale (PC) é il solo amministratore di queste risorse. Il Consiglio Presidenziale e le altre Istituzioni dell'Esecutivo di Accordo Nazionale hanno l'obbligo di assicurare che i proventi del petrolio siano utilizzati per fornire servizi essenziali per la popolazione libica. Le infrastrutture petrolifere, la produzione e l'esportazione devono rimanere sotto l'esclusivo controllo della National Oil Corporation (NOC) che agisce sotto l'autorità del GNA (Governo di accordo nazionale)”. Chiariscono infine le varie potenze: "I governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito riaffermano il loro sostegno completo al GNA come sola autorità esecutiva della Libia".
I vari paesi firmatari della allarmata dichiarazione si sono prodigati molto negli ultimi anni e mesi, con la copertura delle Nazioni Unite, per creare in Libia un simulacro di ‘governo di unità nazionale’ che permettesse loro di rimettere le mani sul petrolio libico dopo il disastro provocato dall’intervento occidentale contro il governo di Gheddafi nel 2011 che ha letteralmente sfasciato il paese. Sembravano esserci riuscite, paracadutando a Tripoli un loro uomo, Fayez al-Serraj, che nonostante numerosi ostacoli e ritardi, e la necessità di più che espliciti diretti dei suoi sponsor internazionali, è riuscito a mettere su una baracca che permettesse alle multinazionali di spartirsi la torta nascosto nel sottosuolo del paese nordafricano e di dare una parvenza di ‘legalità’ all’intervento delle varie potenze straniere sul suolo libico. La scusa dell’arrivo in Libia dei contingenti di soldati e di agenti delle varie intelligence l’ha fornita la presenza in alcune località libiche dello Stato Islamico, che ha provato a recuperare in Nord Africa ciò che stava perdendo in Siria ed Iraq.
Ma la debolezza estrema del progetto incarnato da al-Serraj sono stati evidenti fin dall’inizio. Due i problemi principali: il ‘governo di unità nazionale’ di Tripoli è tutt’altro che rappresentativo dell’intero paese, visto che deve fare i conti con la ribellione e il boicottaggio di un altro governo, quello di Tobruk; inoltre il cosiddetto ‘governo di unità nazionale’ non può contare su un vero e proprio esercito ma deve rivolgersi alle rissose e pretenziose milizie locali nate dallo smembramento della Libia fomentato da quelle potenze che oggi guardano con preoccupazione all’incancrenirsi della situazione. A combattere per conto di al-Serraj ci sono in particolare le milizie islamiche di Misurata, impiegate finora contro lo Stato Islamico con la collaborazione delle forze speciali di vari paesi. Dall’altra parte invece c’è ciò che rimane dell’esercito libico, comandato da quel generale Haftar che dopo aver collaborato a lungo con Gheddafi passò dalla parte degli americani e che ora rivendica il suo posto al sole, sostenuto da partner che vanno dall’Egitto all’Arabia Saudita agli Emirati Arabi alla Russia fino, a correnti alternate, alla Francia, che utilizza il governo di Tobruk per tentare di minare una ‘unità nazionale’ che evidentemente non soddisfa in pieno le sue mire sulla Libia.
E così, mentre i miliziani dell’Isis perdevano terreno, e mentre infuria la battaglia per riconquistare Sirte agli uomini del Califfato, è proprio il generale Khalifa Haftar ad approfittare della situazione caotica per impossessarsi della cosiddetta ‘Mezzaluna petrolifera’, l’area che va da Agedabia a Sidra a Ras Lanuf fino al porto di al Zuwetina, in Cirenaica. A quanto pare le ‘Guardie petrolifere’ che controllavano le installazioni per conto del governo al-Serraj – anche in quel caso non senza pretendere una esosa contropartita a Tripoli – non hanno opposto quasi nessuna resistenza ai militari di Haftar che ieri si sono impossessati dei pozzi e dei porti. Al-Serraj si ritrova così di nuovo senza una vitale fonte di finanziamento per la sua macchina ‘statale’, e con una produzione petrolifera in calo drastico, equivalente solo al 10% di quella misurata nel 2011, prima dell’intervento militare occidentale.
"Haftar é stato scaltro, perché ha saputo approfittare di un momento di calma", le feste religiose del mondo musulmano, e ora "é in una posizione di forza" per un eventuale negoziato, ammette l'ambasciatore Giorgio Starace, inviato speciale del governo italiano per la Libia. Secondo il quale però la sua offensiva "acuisce le tensioni e le divisioni nel Paese ".
La questione del petrolio è quella cruciale in Libia e ora la battaglia per il controllo dei pozzi e dei terminal petroliferi può sfociare in una vera e propria guerra civile, un confronto militare finora latente tra le milizie fedeli al generale Khalifa Haftar e quelle di Misurata. Infatti oggi al-Serraj, che alterna dichiarazioni bellicose ad altre di tono più conciliante, ha annunciato la controffensiva per la ripresa dei pozzi petroliferi.
"Era uno sviluppo prevedibile perché l'Isis in questi mesi ha fatto da 'cuscinetto'. Sparita – o quasi – la minaccia dell'Isis a Sirte i nodi vengono al pettine” afferma Mattia Toaldo, dell'European Council on Foreign Relations (Ecfr) in un’intervista all'ANSA. "C'è il rischio concreto di un confronto armato: le milizie di Misurata potrebbero avanzare verso est per riconquistare i pozzi. Ma anche Haftar, potrebbe ordinare l'avanzata verso ovest, verso Sirte". Del resto, se è cruciale per le forze di Serraj riconquistare i terminal petroliferi in Cirenaica altrettanto importante per Haftar sarebbe mettere i piedi a Sirte che è "la porta della Tripolitania". Haftar oltretutto è della tribù Ferjani, la seconda più importante in città, e tra le file delle sue truppe ci sono molti ex-gheddafiani: per loro tornare a Sirte significa "tornare a casa". L'avanzata a ovest infine – sottolinea ancora Toaldo – sancirebbe per Haftar "un ruolo da attore nazionale e non più solo da dittatore della Cirenaica".
In attesa di capire se le due fazioni andranno allo scontro diretto, e se veramente la minaccia dello Stato Islamico in Libia è sul punto di essere debellata, il governo italiano torna alla carica manifestando di nuovo la perniciosa intenzione di inviare nel pantano libico alcune centinaia di militari (dopo che ne ha inviati nei mesi scorsi un certo numero senza neanche ammetterlo…). Ovviamente la missione bellica, come da peggiore tradizione, viene spacciata come di tipo umanitario. "Siamo pronti" per realizzare un ospedale da campo a Misurata, presso l'aeroporto. L'operazione, chiamata 'Ippocrate', coinvolgerà 300 militari: 60 tra medici e infermieri, 135 per supporto logistico e 100 unità di 'forze protection'. Presente anche un aereo nell'eventualità di evacuazioni ed una nave al largo delle coste libiche”. E’ questo il piano annunciato dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, nelle sue comunicazioni alle commissioni riunite Esteri e Difesa di Camera e Senato.
La missione, ha spiegato il ministro, "è stata chiamata 'Ippocrate' per le sue evidenti finalità umanitarie. L'ospedale da campo, in grado di andare a regime nel giro di tre settimane, fornirà triage, pronto soccorso, visite ambulatoriali, trasfusioni di sangue e possibilità di ricovero per oltre 40 pazienti".
Sarebbe opportuno che il governo Renzi tenesse fuori il nostro paese – e quindi i nostri militari – da un pericoloso pantano provocato dall’irresponsabile intervento militare del 2011 e dall’altrettanto irresponsabile intromissione negli affari interni del paese di nuovo sull’orlo della guerra civile. E sarebbe quantomeno apprezzabile che Pinotti e soci si assumessero le proprie responsabilità, chiamando le cose col loro nome ed evitando di dare una copertura umanitaria ad una operazione di natura bellica al servizio degli interessi petroliferi italiani in Libia.
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