Roma, 31 ottobre 2016, Nena News – In Iraq gli islamisti sono sulle barricate, ad un passo dal crollo della città-Stato Mosul; ad Aleppo avanzano verso la zona governativa, nei quartieri ovest. In territorio iracheno la battaglia è comune – seppur con obiettivi diversi – contro l’Isis, in Siria ad attaccare indisturbato è l’ex al-Nusra, oggi Fatah al-Sham. Ideologie molto simili, ma nella capitale del nord siriana gli ex qaedisti non sono nel mirino del fronte anti-jihadista. Al contrario, sono strumento di indebolimento dell’asse Mosca-Damasco.
Venerdì Fatah al-Sham ha lanciato un’ampia controffensiva contro i quartieri occidentali con autobomba, camion carichi di esplosivo, kamikaze e una pioggia di missili. Almeno 15 le vittime civili e 100 i feriti in quella che per le opposizioni è un’operazione diretta a rompere l’assedio di Damasco. Non ci sono solo gli islamisti: sotto la guida dell’ex al-Nusra ci sono unità dell’Esercito Libero Siriano, i salafiti di Ahrar al-Sham e le altre fazioni presenti ad Aleppo, una realtà composita che mette in crisi l’asse anti-Assad, con le opposizioni amiche al fianco di un gruppo etichettato come terrorista.
Due giorni fa le opposizioni hanno occupato parte del quartiere Dahiyat al-Assad e attaccato Bustan az-Zakhra, in città vecchia: secondo fonti delle opposizioni potrebbero portarsi sulla Castello Road. Si combatte in strada, tra le case, stessa guerriglia urbana e aerea che da mesi vivono anche i siriani dei quartieri orientali. L’esercito russo ha chiesto di riprendere gli attacchi aerei, interrotti 10 giorni fa dalla tregua unilaterale dichiarata da Mosca e Damasco. Terminato il cessate il fuoco di 11 ore al giorno, i caccia russi non si sono più alzati in volo. Ma il presidente Putin ha negato il via libera definendo la ripresa dei raid «inappropriata» e preferendo «continuare la pausa umanitaria».
Al contrario in Iraq è il fronte sciita a contrattaccare e lo fa con una mossa che avrà riflessi anche nella vicina Siria. L’attacco arriva da ovest: dopo averlo annunciato venerdì, ieri le Unità di Mobilitazione Popolare – le milizie sciite legate all’Iran – hanno aperto un nuovo fronte su Mosul. Stavolta a occidente. Con i peshmerga che premono da nord e l’esercito regolare iracheno da sud e est, i miliziani sciiti chiudono il cerchio sulla città, in cui però dicono di non voler entrare per evitare divisioni settarie già esplose in altre zone.
L’assalto non ha importanza strategica solo sul piano militare, nella controffensiva contro lo Stato Islamico. Ce l’ha anche su quello politico regionale. In primo luogo i gruppi armati sciiti si ritagliano uno spazio nella battaglia per Mosul, che da tempo la Turchia e gli Stati Uniti cercano di arginare per salvaguardare la maggioranza sunnita della provincia di Ninawa (non per tutelare la partecipazione politica della comunità locale, quanto per poter esercitare l’influenza necessaria ad una divisione amministrativa dell’Iraq, che da anni Washington propone).
In secondo luogo, le milizie sciite si portano in un luogo geograficamente strategico. Attaccando l’Isis dal lato occidentale, si posizionano lungo il confine siriano ponendosi come primo obiettivo la città di Tal Afar. E questo avrebbe due effetti: da una parte impedirebbe l’ulteriore fuga di islamisti verso il territorio siriano e verso Raqqa, dove sono già fuggiti i leader del braccio iracheno e migliaia di combattenti, come ripetutamente denunciato da Damasco e Mosca che considerano il transito una palese tattica del fronte anti-Assad; dall’altra aprirebbe al passaggio di quelle stesse milizie sciite in Siria, a combattere al fianco del governo siriano.
Un’eventualità che ieri il loro portavoce, Ahmed al-Assadi, ha lasciato intendere in un’intervista all’Afp: «Dopo aver ripulito la nostra terra, siamo pronti ad andare in qualsiasi luogo rappresenti una minaccia alla sicurezza nazionale».
Tal Afar, da questo punto di vista, è centrale anche per la Turchia. È a 50 km da Sinjar, l’area yazidi liberata un anno fa dai peshmerga. Ma a Sinjar non c’erano solo i combattenti del Kurdistan iracheno: c’erano anche le Ypg kurdo-siriane e gli uomini del Pkk, i primi ad accorrere quando migliaia di yazidi finirono nell’agosto del 2014 sotto assedio dell’Isis sul monte Sinjar. E da lì Ypg e Pkk non se sono mai andati, giocando un ruolo centrale – seppur poco raccontato – nell’operazione del novembre 2015.
Non è dunque un caso che pochi giorni fa il presidente turco Erdogan abbia tuonato contro il Partito Kurdo dei Lavoratori perché si tenga a distanza da Sinjar: non diventerà una nuova Qandil, ha detto Erdogan, il cui timore principale è vedere il confine siriano-iracheno in mano a kurdi nemici (non gli alleati del Krg di Barzani) e milizie sciite. Ovvero a soggetti che porrebbero fine al progetto di un corridoio sotto il controllo di Ankara lungo la frontiera turca con Siria e Iraq.
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