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Le “fortune” dei miliardari russi e dei loro complici politici

Si parla molto in questi giorni in Russia del video diffuso su Youtube dal cosiddetto "Fondo per la lotta alla corruzione", diretto da Aleksej Navalnyj, riguardante “l'impero segreto” – ville, strutture residenziali, yacht, tenute agricole, anche in Toscana, fondi offshore – per miliardi di dollari di proprietà del primo ministro Dmitrij Medvedev, acquistate con denaro generosamente sborsato da oligarchi in testa alle classifiche mondiali.

Ora, se le denunce del blogger-affarista Aleksej Navalnyj all'indirizzo di Medvedev somigliano molto, tanto per fare un paragone italico, a quelle di un Tiziano Renzi qualunque all'indirizzo di un Denis Verdini qualsiasi, la connivenza dei “ministri liberali” con l'oligarchia finanziaria e industriale russa è da anni denunciata dai comunisti di tutte le tendenze, primo fra tutti il PCFR, così fedele d'altro canto alle scelte presidenziali. Qualche osservatore, forse sorvolando sui legami esteri dei liberali russi, nota che una raccolta di materiale così dettagliata come quella mostrata nel film, difficilmente potrebbe essere stata messa insieme dal solo Fondo Navalnyj e ipotizza quindi una “sanzione dall'alto” per dare disco verde allo stesso Navalnyj e mettere in crisi il primo Ministro. In ogni caso, il numero di firme raccolto nei primi cinque giorni dall'uscita del film avrebbe già superato la metà di quelle necessarie alla registrazione della candidatura del blogger alle prossime presidenziali. Si ipotizza che ai massimi vertici del potere si sia voluto dimostrare che, effettivamente, la lotta alla corruzione sta andando avanti, a tutti i livelli; tanto più che, anche senza il film, lo status patrimoniale di Medvedev nemmeno prima era un mistero, per nessuno.

Così come non lo è l'abisso profondo che separa le immense fortune (chissà perché poi si chiamano così, come se fossero dovute al caso!) dai redditi più bassi e che ora, in Russia come nel resto del mondo capitalista, sembrano segnare nuovi record. Secondo dati ufficiali del Centro di analisi governativo, a fine 2016 i redditi del 10% dei russi più poveri sarebbero stati di 14 volte inferiori a quelli del 10% di più ricchi. Un dato, questo, abbastanza ottimistico, dato che, appena qualche mese fa, la rivista teorica del PCFR, Političeskoe Prosveščenie, parlava di oltre 5 milioni ufficiali di lavoratori con salario pari al minimo di sopravvivenza, con stime ufficiose di due terzi di lavoratori con salari di 15mila rubli al mese e l'1% delle famiglie che possiede il 71% della ricchezza; un rapporto tra i redditi del 10% di popolazione benestante e il 10% di lavoratori peggio pagati passato da 3:1 nel 1991 a 30-40:1 intorno al 2000 e stabilizzatosi poi intorno a 26:1 dopo il 2003.

Secondo l'agenzia Bloomberg, agli 86 miliardi $ con cui Bill Gates guida ora la classifica dei più “fortunati” sulla terra, fanno riscontro il 51° posto mondiale del capo di “Norilskij nikel” Vladimir Potanin (16,6 miliardi $), il 54° del presidente di “Severstal” Aleksej Mordašov (16,5), seguiti dal 62° posto di Viktor Vekselberg (gruppo “Renova”: 14,8 miliardi) e dal 70° di uno dei più chiacchierati finanziatori, per l'appunto, di Dmitrij Medvedev, il capo della “USM Holding”, Ališer Usmanov, con 13,9 miliardi di dollari.

In compenso, è allo studio del governo l'istituzione di un elenco regionale in cui registrare tutti coloro che, in età lavorativa, risultino non occupati. Come in Bielorussia, la ragione ufficiale sarebbe il deficit del Servizio sanitario, cui non giungerebbero sufficienti quote; la soluzione, sarebbe dunque o la riduzione del servizio, o i versamenti da parte di chi (ufficiosamente: circa 20 milioni) lavora nell'economia sommersa. Il fatto è che, come nota Svobodnaja Pressa, l'attuale Costituzione russa garantisce il diritto al lavoro, ma non l'obbligo, a fronte, oltretutto, di oltre seimila imprese cessate e oltre 20 milioni di persone che vivono oltre la soglia di povertà (dati del PCFR); se ufficialmente il numero di posti di lavoro liberi è di circa 1,5 milioni e quello dei disoccupati di poco più di mezzo milione, si fa notare che l'80% di quei posti liberi è costituito da lavori con salari inferiori al minimo e che, inoltre, in alcune aree, si registrano 20-30 candidati a un solo posto di lavoro.

In questo quadro, non passa sotto silenzio la notizia pubblicata da Moskovskij Komsomolets secondo cui Žanna Nemtsova, figlia del defunto “oppositore liberale” Boris Nemtsov, assassinato a Mosca a inizio 2015 (dopo le prime solite sparate su “la mano di Putin”, fonti tedesche avevano ipotizzato l'opera della CIA) avrebbe devoluto – tanto per rimarcare per chi batte il cuore dei “poveri” “democratici” russi – 700mila euro alle famiglie dei soldati ucraini morti nel corso della guerra contro il Donbass. Parte della somma sarebbe costituita, per rimanere dalla “parte giusta”, da soldi donati a Žanna Nemtsova dal Premio di solidarietà “Lech Wałęsa”.

Poco importa in questo caso che l'Ucraina golpista, mentre continua a bombardare la popolazione civile del Donbass, faccia registrare la poco invidiabile “leadership” europea in fatto di mortalità di donne, in gravidanza o immediatamente dopo il parto. Secondo dati Unicef, ripresi dalla BBC, nel 2015 si sarebbero registrati 120 casi (contro 56 in Romania, 42 in Germania e 12 in Polonia). Per mortalità infantile, gli indici mostrano 2.378 casi nei primi 28 giorni di vita, contro 1.122 casi in Polonia, 1.047 in Romania e 1.449 in Germania.

Questo non preoccupa più di tanto i paesi “civili” d'Europa che, con il golpe neonazista del 2014 hanno già ottenuto quanto progettato, sia in termini geopolitici, che economici: è di questi giorni la notizia secondo cui compagnie svedesi avrebbero già iniziato a portarsi via le prime delle 100 milioni di tonnellate (5 euro a tonn.) di fertilissime terre nere ucraine dalle regioni di Poltava e Kherson. D'altronde appena lo scorso autunno il rappresentante della UE in Ucraina, Hug Mingarelli aveva minacciato Kiev di negare la seconda tranche di “aiuti” (600 milioni di euro) se il governo non avesse abolito la moratoria sull'export di legname, introdotta nel 2015 con validità decennale. Le “fortune” di chi ha i dollari e le disgrazie di chi non ce li ha.

 

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