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Attacchi a est: pallottole vere e “aiuti” interessati

E' di 12 morti il bilancio della notte di sangue di ieri in Cecenia, per il tentativo di un gruppo armato terrorista di dare l'assalto alla cittadella della Guardia nazionale russa nella stanitsa di Naurskaja, un'ottantina di km a nordovest della capitale Groznyj. Sul terreno sono rimasti sei terroristi e sei militari del 140° reggimento della 46° brigata speciale della Guardia nazionale; feriti altri due militari. Due dei terroristi uccisi portavano anche cinture esplosive; l'ipotesi è che intendessero attaccare il convitto in cui sono alloggiate anche le famiglie dei militari e poi impossessarsi dell'arsenale della guarnigione.

E' questo il terzo attacco in tre mesi in Cecenia: l'11 gennaio a Tsotsi-Jurt (30 km a est di Groznyj), morirono due militari e quattro terroristi; il 30 gennaio a Šali (40 km a sudest della capitale), a un posto di blocco morirono due poliziotti e tre terroristi. Secondo l'agenzia Kavkazkij uzel, nel 2016 sono rimaste uccise 200 persone (160 attaccanti, 32 militari e 8 civili) e altre 85 ferite. Ma questi morti non fanno notizia: i media occidentali, se non passeranno la cosa sotto indifferente silenzio, li innalzeranno sicuramente a “combattenti indipendentisti”, anche se lo Stato Islamico si è già assunto la paternità dell'attacco. Tanto più che la Cecenia di Ramzan Kadyrov è considerata un fedelissimo avamposto di Mosca, in un Caucaso attraversato da raggruppamenti islamisti che, per definizione mediatica, spargono il terrore solo quando colpiscono a ovest dell'Oder. Al di là della ex cortina di ferro, “lottano per la libertà”. Lo stesso Kadyrov, ha detto ieri di sentirsi responsabile per l'accaduto, insieme agli organi di sicurezza, per essersi “rilassati”. Questi “demoni hanno propositi perfidi” ha detto Kadyrov, “non intendono fermarsi”; ma “la lotta sarà feroce. Troveremo i membri attivi dei gruppi terroristici e i loro sostenitori e saranno neutralizzati, ovunque siano, in Cecenia, in Siria o altrove".

A est, si tenta ancora qualche manovra apparentemente meno cruenta; anche se, in termini di perdite sociali, i risultati degli interventi a servizio degli interessi economici e geopolitici occidentali lasciano pochi dubbi sul cinismo dei protagonismi.

E dunque, si sono conclusi la scorsa settimana a Minsk, a quanto pare senza risultati di fatto, i colloqui tra Aleksandr Lukašenko e i rappresentanti del FMI, per un credito di 3 miliardi di dollari in 10 anni, a fronte di un debito estero bielorusso, stando a rusvesna.su, di oltre 13,5 miliardi di dollari. La Bielorussia ha urgente bisogno del credito per coprire almeno in parte i propri debiti, per lo più con la Russia. Per quanto riguarda i crediti cinesi, Minsk può utilizzarli solo nei rapporti commerciali con Pechino. Quelli del FMI, nonostante Lukašenko li giudichi “vantaggiosi” da un punto di vista strettamente finanziario, impongono a Minsk le consuete condizioni: riforme di mercato e tagli alle garanzie sociali, cessazione dei contributi statali per alloggi e trasporti, congelamento di salari e pensioni e altre misure di sostegno pubblico. “Raccomandazioni” del FMI come proiettili, a scoppio appena ritardato.

Nonostante i peana all'indirizzo della UE – “un potente sostegno per il pianeta, se cade sarà una disgrazia” – intonati da Lukašenko in occasione dell'incontro col vice premier belga Didier Reynders, la Bielorussia si trova in una situazione abbastanza critica: a causa della diminuzione delle forniture di petrolio russo, acquistato esentasse, sono conseguentemente calate le vendite dei derivati bielorussi all'Occidente, che costituiscono una delle principali voci di entrata del bilancio. Secondo l'agenzia BelaPAN, se l'export di prodotti petroliferi (l'importazione di petrolio da Azerbajdžan e Iran è ancora in fase sperimentale) a gennaio 2016 era stato di 1,6 milioni di tonnellate, si è dimezzato a 744mila tonnellate al gennaio scorso, concentrato principalmente verso Ucraina, Gran Bretagna e Olanda. Sembra che se non andrà in porto il credito del FMI, Minsk dovrà ricorrere alle scarse riserve oro – circa 5 miliardi $, secondo l'economista bielorusso Sergej Bartkevič, citato da RT – e, nonostante si sia sinora attenuta alle “raccomandazioni” monetarie del Fondo, la situazione potrebbe costringere le autorità a emettere moneta.

Ma intanto Lukašenko si intrattiene al telefono con Petro Porošenko, discutendo del “coordinamento sulle questioni internazionali, del processo di pace in Ucraina e del contributo bielorusso per una rapida risoluzione del conflitto", per cui è in programma l'ennesima riunione del Gruppo di contatto a Minsk, il 29 marzo.

In questa cornice, il presidente bielorusso lancia l'allarme su numerosi casi di raggruppamenti armati sorpresi in campi di addestramento nei pressi di Osipoviči e Bobrujsk (rispettivamente a 100 e 150 km a sudest di Minsk), e accusa anche Ucraina, Polonia e Lituania di predisporre simili strutture, per introdurre in Bielorussia sabotatori armati. C'è chi nota che proprio nella “fraterna Ucraina che lotta per l'indipendenza”, come l'ha definita Lukašenko, e anche, venti anni prima, in Serbia, tutto cominciò in questo modo.

Lo ricorda, ad esempio, il vice direttore dell'Istituto per i paesi della CIS, Vladimir Žarikhin, sentito da Moskovskij Komsomolets. Mentre per l'opposizione si tratterebbe di esercitazioni di reparti speciali della polizia, in vista di repressioni governative, Aleksandr Grigorevič Lukašenko punta invece il dito contro una “quinta colonna”, sponsorizzata da organizzazioni occidentali, per l'ennesima “rivoluzione colorata”. Il copione è sempre lo stesso, ricorda Žarikhin e la trama comincia a svilupparsi soprattutto allorché “il potere tende a flirtare con l'Occidente e non è quindi pronto, nemmeno psicologicamente, a reprimere con decisione le attività anticostituzionali. E Lukašenko ha per l'appunto iniziato questo gioco”.

Il giorno chiave potrebbe essere oggi, chiosa rusvesna.su, allorché, come tradizione, ogni 25 marzo, l'opposizione celebra la Giornata della libertà, in ricordo della proclamazione di indipendenza della Repubblica popolare di Bielorussia nel 1918.

Una giornata in cui, probabilmente, parte dei bielorussi confermeranno la propria intenzione di non considerare più Aleksandr Grigorevič il “bat'ka” bielorusso (una sorta di “padre” o “capofamiglia” o “capoclan”) mentre c'è chi nota come egli abbia al contrario affinato, nei 23 anni di presidenza, “l'arte di essere bat'ka”, come scrive Eduard Limonov su Svobodnaja Pressa. Limonov ricorda quanta acqua sia passata, dal momento in cui, oltre venti di anni fa, i giovani fanatici del Fronte Nazionale Bielorusso lo presero a seggiolate al grido “emissario dei moskalej” e in sua difesa intervennero i giovani della Unione Nazionale Russa, un'organizzazione nazionalista, cui non era estraneo Aleksandr Grigorevič.

Oggi invece, al posto della fedeltà all'unione russo-bielorussa, “bat'ka” Lukašenko pretende di ammettere osservatori della Nato alle manovre congiunte russo-bielorusse del settembre prossimo. L'ex ufficiale del KGB dell'Urss, si chiede retoricamente Limonov, ha forse “dimenticato il concetto di "segreto militare" e che non si dovrebbero mostrare a un molto probabile futuro nemico i nostri mezzi e metodi di attacco?”. Questa è testardaggine, grida il nazionalista Limonov, al solo “scopo (dopo il rifiuto di Mosca di ridurre il prezzo del gas destinato a Minsk al livello di quello interno russo) di punzecchiare la Russia. Caparbietà e vendetta”. Ecco cosa accade, continua Limonov, con un “uomo da 23 anni sulla poltrona presidenziale. Non mi meraviglierei se credesse alla propria immortalità”.

Ma, secondo rusvesna.su, nelle ultime settimane “sono cominciati in Bielorussia arresti di nazionalisti; è questa una novità, perché nell'ultimo anno erano stati perseguiti solo sostenitori dell'unificazione con la Russia". A parere dell'analista politico Vladimir Zotov, ciò che sta accadendo, anche con le manifestazioni di protesta contro la cosiddetta “tassa sui parassiti”, non sarebbe che una "imitazione di majdan, che si dice ispirata dall'esterno per strappare la Bielorussia dalla Russia, ma in realtà controllata dalle autorità e rivolta ad un pubblico esterno": come dire, far impressione su Mosca affinché accordi gli aiuti economici indispensabili.

Come che sia, mentre nel Caucaso si continua a versare sangue per gli attacchi islamisti, veri o presunti, sembra che più a nord si stia attivamente scavando sotto i piedi dell'ex “ultimo dittatore d'Europa”: una volta provocato lo smottamento, si correrà in suo “soccorso” alla maniera di majdan.

 

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