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Il discorso di Macron, la risposta di Mélenchon, il futuro del movimento

Alle otto di lunedì sera, Emmanuel Macron ha pronunciato il suo atteso discorso alla nazione; dopo poco Jean-Luc Mélenchon, deputato e leader della France Insoumise, ha “risposto” per punti alle affermazioni del messaggio del Presidente.

Dopo avere considerato il “botta e risposta” tra il Macron e Mélenchon, dobbiamo approfondire l’analisi su questo movimento per comprendere come i pochi palliativi macroniani non avranno probabilmente gli esiti sperati.

L’aumento del salario minimo intercategoriale di 100 euro (in realtà 64 in più rispetto all’aumento automatico previsto in conseguenza all’indicizzazione), la defiscalizzazione per il lavoratore e per l’impresa delle ore straordinarie, un premio delle imprese ai lavoratori per la fine dell’anno – comunque facoltativo e comunque defiscalizzato – e per ultimo l’innalzamento della CSG per le pensioni inferiori a 2.000 euro, sono le uniche misure concrete di cui ha parlato Macron nel suo discorso, e si inseriscono nel solco della sua filosofia di governo, tesa a sposare la tesi dello “sgocciolamento” e a legittimare il rapporto plebiscitario che esacerba i tratti più autoritari della Quinta Repubblica in un rapporto Presidente – o meglio monarca repubblicano – e cittadini, riportati a sudditi, al di là di un generico ascolto di facciata dei corpi democratici.

La risposta a Macron del leader della France Insoumise, in un intervento di poco più di cinque minuti, si articola in 5 punti.

Come premessa viene fatto rilevare che nel discorso del presidente non compare alcuna scusa per le violenze delle forze dell’ordine, mentre è netta la condanna delle violenze dei manifestanti.

Macron si illude che “la distribuzione di soldi possa calmare l’insurrezione dei cittadini che è scoppiata”, afferma Mélenchon, che comunque lascia che sulle parole del Presidente si esprimano direttamente i GJ.

  1. una buona parte della popolazione non è coinvolta dalle misure annunciate, in particolare i disoccupati, che per metà non ricevono alcuna forma di indennizzo, e i lavoratori part-time, di cui l’80% sono donne che non godono della parità salariale a parità di ore lavorate. Il valore delle pensioni non viene “indicizzato”, i lavoratori della funzione pubblica e gli studenti non sono citati

  2. Le misure che si dice verranno adottate saranno a carico dei contribuenti e di coloro che hanno una indennità sociale, mentre l’establishment economico non sarà minimamente colpito; così la de-socializzazione e de-fiscalizzazione delle ore straordinarie saranno a carico della “Secu” e dello Stato, come l’innalzamento dello SMIC

  3. Gli azionisti non vengono toccati, i premi ai salariati saranno facoltativi e comunque defiscalizzati, la ISF – cioè la patrimoniale sulle grandi ricchezze –  non verrà re-introdotta (la sua cancellazione è stata uno dei primi atti di governo di Macron)

  4. Le domande di democrazia partecipativa non hanno risposta. Mélenchon sottolinea: “delle buone intenzioni sì, ma delle risposte no”,

  5. Il budget viene completamente disorganizzato e disarticolato con i 10 miliardi supplementari necessari, che verranno ottenuti da “economie di tipo supplementare” cioè tagli al sociale. Mélenchon ribadisce la necessità di un piano economico che ponga al centro i bisogni del popolo e gli investimenti ecologici.

Il leader della France Insoumise conclude affermando: “perché credo che l’atto 5° che si svolgerà sabato prossimo, il 5° atto della rivoluzione cittadina del Nostro Paese, sarà un momento di grande mobilitazione. Come tutti ed ognuno mi rimetto alla decisione di chi è nell’azione”.

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Dopo avere considerato il “botta e risposta” tra il Macron e Mélenchon, dobbiamo approfondire l’analisi su questo movimento per comprendere come i pochi palliativi macroniani non avranno probabilmente gli esiti sperati.

Il movimento dei Gilets Jaunes ha tanti meriti, tra questi l’aver rimesso al centro del gioco politico la questione sociale.

Le rivendicazioni economiche di GJ mirano a far uscire una parte composita della popolazione francese da una situazione di miseria crescente, e contestano l’ineguaglianza sociale di cui sono vittime, identificando nelle politiche macroniane l’origine (o l’incremento) dei loro mali.

Per essere più precisi, hanno verificato sulla loro pelle il solco tra le promesse elettorali di cambiamento positivo e il peggioramento del proprio status.

Si sono trovati di fronte ad un Presidente arrogante e autoritario, sempre in vena di dar lezioni e “colpevolizzare” altri per la situazione di difficoltà in cui sempre più francesi si sono ritrovati.

Le richieste politiche invece partono dalla volontà di un cambiamento radicale dell’assetto politico istituzionale, per un superamento di fatto della Quinta Repubblica, nel senso completamente contrario rispetto alle paventate “riforme” del leader di En Marche.

I Gilets Jaunes hanno messo al centro l’aspetto di una sovranità popolare effettiva di cui si sentono espropriati, una capacità di decidere che le attuali forme della rappresentanza non garantiscono affatto, anche qui verificando lo iato tra la narrazione in campagna elettorale del populismo mainstrem macroniano – che giurava di .voler mettere al centro la “società civile” – e una realtà differente, fatta di completa sordità di fronte alle istanze popolari e .superamento del “dialogo sociale” in tutte le sue forme.

Un terzo aspetto che bisogna considerare è la ricomposizione politica di classe – per usare un concetto forse un poco retrò, ma senz’altro calzante – che questo movimento è stato in grado di attuare(pur essendo un processo ancora in fieri),  per cui settori sociali differenti, espressioni delle “diverse” fratture della società sempre più polarizzata francese, si stanno coagulando in un potenziale “blocco storico”, in grado di esercitare una notevole egemonia sul resto del corpo sociale non immediatamente attivo nelle mobilitazioni. Tutto questo attorno ad un programma con un output politico preciso: le dimissioni di Macron.

Brice Teinturier, direttore dell’istituto di sondaggi IPSOS, intervistato da “Le Monde” nel numero di domenica e lunedì, ha spiegato: “Molte categorie sociali possono identificarsi nel movimento dei “Gilets Jaunes”. È ciò che costituisce la loro forza, la sua potenza nel sostegno di cui gode nell’opinione pubblica e il suo carattere inedito”.

Non si tratta di un “movimento d’opinione”, ma di un movimento tout court, fondato su interessi molto concreti;che ha secondo noi trovato un punto di forza nella chiara identificazione del nemico.

“Aggiungiamo  – afferma più in là nell’intervista Teinturier – che fino ad oggi questa violenza, quella che abbiamo constatato in particolare il 1° dicembre, non ha dissuaso significativamente l’orientamento favorevole ai “gilets jaunes”. E per una ragione chiara: la maggioranza dei francesi considera che è il potere ad essere responsabile della situazione, essendo stato troppo tempo sordo alla collera di una parte del popolo”.

Un altro aspetto importante è stata l’inversione semantica tra universale/particolare imposta dal movimento, un vero e proprio stravolgimento dell’ideologia neo-liberista etno-centrica delle élite politico-economiche, tese a rappresentarsi come portatrici di valori “universalistici” contro gli interessi particolari del “mondo di sotto”.

Le classi medio-superiori, afferma David Grabaer in un intervento su “Le Monde” dello stesso numero, “hanno l’impressione di essere l’incarnazione di tutto l’universalismo possibile: ma la loro visione dell’essere universali è radicata nel mercato; e questa atroce fusione tra burocrazia e mercato è l’ideologia sovrana di ciò che si chiama il ‘centro politico’”.

L’interesse particolare della classe si fa ora interesse generale, mentre l’interesse particolare delle oligarchie neo-liberiste spacciato come universale appare per quello che è: patrimonio di una minoranza. Ed il “centro politico” viene spazzato via, promuovendo un centro gravitazionale differente, ridisegnando la traiettoria della Polis.

Uno dei miti sociali fondativi della cultura politica francese è che un potere ingiusto può essere decapitato – in senso non solo metaforico – e che ad popolo inascoltato di fronte alla sordità del potere non rimane che una diritto: quello all’insorgenza.

Dentro questo orizzonte “insurrezionale” il popolo si dota di strumenti di potere costituente con cui materialmente concretizzare questa idea-forza; strumenti che si adattano alle circostanze e che mutano in fretta a seconda delle necessità. Non è un caso che i presìdi siano sempre più integrati da assemblee generali che strutturano piani d’azione e gruppi di lavoro.

Dalla “galassia Zuckenberg” si ritorna all’agorà passando per il “campo di battaglia”, nello spirito di organizzazione diretta, ancorando la propria azione anche a luoghi simbolo di una emancipazione che ha radici antiche: le bourses de travaille e le aule magne dell’università, simboli della storia viva e pulsante di un mai terminato Secolo Breve.

In questi spazi si trasformano le relazioni (suonando la campana a morte per l’isolamento imposto dalla società), le barriere generazionali e le differenze di genere e si conia una nuova umanità, in contrapposizione ai valori fino ad ora “subiti”: agli osservatori più attenti non è sfuggito che il tratto comune di “vulnerabilità” di alcuni profili che ricorrono tra i protagonisti di questa lotta si trasformano nel loro contrario: è la forza dei dannati della terra che si disintossicano di un apparato inferiorizzante quando passano all’azione.

Lavoratori di imprese “a rischio chiusura”, donne alla prima esperienza politica che escono dal pendolo di un lavoro precario e il lavoro di cura tra le mura domestiche, giovani precari, portatori di handicap, pensionati costretti a “crepare in silenzio”… tutte queste figure escono dall’invisibilità, plasmano lo spazio pubblico. Diventano “forma politica agente”.

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Uno degli aspetti centrali delle mobilitazione è “la rivolta fiscale”, che spesso una analisi superficiale non coglie nei suoi risvolti profondamente e positivamente classisti.

La rivolta fiscale all’origine del movimento è il riflesso di un sentimento di giustizia più profondo.

In un magistrale contributo apparso sul numero di questo mese dell’edizione originale di “Le Monde Diplomatique”, Alexis Spire, in “aux sources de la colère contre l’impôt”, analizza la questione delle rivendicazioni fiscali per come si sono trasformate nel corso degli anni, mettendo in evidenza i cambiamenti strutturali delle imposte e della percezione di “disparità” sempre più acutamente percepita.

Da un punto di vista concreto e d’immaginario, “la questione fiscale” è sempre più divenuta una dannazione per le classi subalterne, vittime di una mancata contropartita dei soldi versati attraverso le tasse per ciò che concerne i servizi, escluse dai variegati regimi fiscali “privilegiati” – le varie nicchie fiscali – ma oberati da una tassazione “non progressiva” (IVA, tasse sul carburante, tutte le tasse indirette sui consumi, ecc.) e soprattutto esclusi dalla possibilità di “evadere il fisco”, ovviamente esclusi nelle possibilità di godere dei paradisi fiscali, a differenza di tutta una serie di personaggi dell’establishment politico, economico, sportivo e dello spettacolo, spesso al centro di reiterati scandali per frode fiscale.

Le fasce più deboli e meno istruite dei contribuenti, hanno visto poi diminuire la possibilità di interloquire direttamente con un impiegato pubblico rispetto ai propri problemi fiscali: “dal 2005 al 2017, il governo ha soppresso più di 35.000 posti di lavoro nell’insieme dell’amministrazione delle finanze pubbliche, in particolare in coloro che erano addetti all’accoglienza”, riporta Spire.

Ma altri due dati, ci permettono di comprendere due aspetti: l’aumento della miseria sociale e la percezione di trovarsi – da parte dei subalterni – di fronte ad uno stato esattore che fa “figli e figliastri”, trattando alcuni contribuenti come cittadini di serie A e altri come cittadini di serie B.

“Con l’aumento della disoccupazione e della precarietà, il numero di queste domande – e l’autore si riferisce alla richiesta di esenzione di varie imposte perché materialmente impossibilitati a pagarle – è passato da 695.000 nel 2003, ad 1 milione e 400 mila nel 2015″.

Questi contenziosi fiscali hanno avuto un esito maggiormente positivo per i contribuenti quando questi avevano una condizione sociale migliore: “il 69% dei membri delle classi superiori hanno visto soddisfatte le proprie richieste, contro il 51% delle classi popolari”.

Le conclusioni di Spire, sociologo e direttore del CNRS – nonché autore di un  recente studio sul tema della fiscalità – ironizzando sull’incomprensione della movimento dei GJ da parte di politici e giornalisti, sono piuttosto eloquenti: “Se è ancora troppo presto per stabilire il futuro di questo movimento, il suo primo merito è quello d’avere messo in luce il sentimento di ingiustizia fiscale che cova da lunghi anni in seno alle classi popolari”.

E il sentimento di ingiustizia, prima o poi, viene a galla, come un fiume carsico.

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2 Commenti


  • ndr60

    In gran parte d’accordo, ma su una cosa ho molte perplessità. Al punto 1) nel quale si parla dei ” lavoratori part-time, di cui l’80% sono donne che non godono della parità salariale a parità di ore lavorate”. Dove e quando? In un sistema capitalistico nel quale tutto viene messo a profitto (tra poco, anche l’aria che respiriamo), l’unica cosa che sfugge a ciò sarebbe, misteriosamente, la parità salariale uomo/donna a parità di mansioni e di orario. Temo che anche Melénchon non sia sfuggito a questo mantra.


  • Vinicio

    Chissà perchè in Italia invece l’ingiustizia fiscale non viene percepita, ma subita e usata per mettere una parte delle classi popolari contro le altre (lavoratori autonomi contro dipendenti). Mi sembra che nei gilet gialli queste categorie siano invece unite contro il vertice del potere.

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