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Davide Bifolco, la chiamano giustizia

L’udienza di ieri è finita con la richiesta di condanna a tre anni e quattro mesi per Giovanni Macchiarolo, il carabiniere che sparò e uccise Davide Bifolco, in Corso Traiano, a Napoli, il 5 settembre dello scorso anni.
In aula bagarre e proteste, mentre la sentenza è attesa per il prossimo primo ottobre: all’interno del tribunale sono volate parole grosse contro la corte e la polizia, era palpabile la rabbia e lo smarrimento verso una giustizia che spesso stenta a farsi capire, per usare un eufemismo.
L’unico dato certo di tutta questa storia è che un ragazzo di 17 anni è morto sparato, con il colpo partito dalla pistola di un agente dei carabinieri. Il resto è un gomitolo di tesi, colpi, contraccolpi e, come sempre quando si ha a che fare con la malapolizia, una pesante campagna denigratoria nei confronti della vittima, dei suoi parenti e dei suoi amici. In questo caso, poi, ci si è messo di mezzo pure il diffusissimo sentimento antimeridionale che aleggia un po’ ovunque, in quello che in maniera troppo affettuosa viene ancora chiamato Belpaese. E domande assurde: «perché tre ragazzi andavano in giro di notte, in un quartiere malfamato, senza casco e tutti sullo stesso motorino?», come se questi fossero buoni motivi per sparare e uccidere. E va bene la retorica del rispetto delle regole e del codice della strada, ma giustificare per questo la condanna a morte è un’atrocità: niente giustifica la morte di un ragazzino, da qualsiasi punto di vista. Per quello che riguarda i fatti, ecco la versione dei carabinieri su quella notte: il Nucleo Radiomobile aveva segnalato a tutte le unità la presenza di un latitante che si aggirava per le strade di Napoli a bordo di un motorino. La pattuglia di Macchiarolo intercetta così uno scooter con tre persone a bordo, che però non si ferma all’alt, urta un’aiuola e rovina a terra. Uno dei militari avrebbe così preso a inseguire il presunto latitante, che però sarebbe riuscito a dileguarsi nella notte. Un’altro carabiniere, intanto, con l’arma di ordinanza senza sicura nella sua mano destra, sarebbe invece sceso dall’auto di servizio per bloccare gli altri due passeggeri del motorino. Così, nel tentativo di fermarne uno – Salvatore Triunfo, 18 anni, piccoli precedenti -, l’agente sarebbe inciampato e dalla sua pistola sarebbe partito, per puro caso, un colpo che si è andato a conficcare proprio nel torace di Bifolco che in quel momento si stava alzando da terra.
La famiglia Bifolco, rappresentata dall’avvocato Fabio Anselmo, però ha un’altra versione della storia. Assai diversa da quella dei carabinieri e confermata da sei testimoni: l’auto dei carabinieri avrebbe speronato lo scooter, poi Macchiarolo avrebbe lasciato partire un colpo ad altezza d’uomo, colpendo Davide al cuore. Infine, il famoso ‘terzo uomo’ a bordo del motorino non era il latitante Arturo Equabile, ma Enzo Ambrosino, un ragazzo che qualche giorno dopo i fatti arrivò a dichiarare spontaneamente di trovarsi insieme a Bifolco e a Triunfo, quella notte.
La procura pensa che si sia trattato di omicidio colposo: il carabiniere non voleva uccidere, la morte di Davide Bifolco è stata praticamente un incidente, e non fa niente se l’agente girava a mano armata con la pistola senza sicura. Un ragazzo di diciassette anni è morto, ma chi l’ha ucciso non l’ha fatto apposta: e questa la chiamano giustizia.

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