Il mondo capitalistico funziona ormai al contrario. L’ennesima prova, non finanziaria, è arrivata con il fallimento del vertice di Doha tra i grandi produttori di petrolio, che riuniva sia i membri dell’Opec che quelli non appartenenti allo storico cartello.
In tempi normali, infatti, questo fallimento foriero di un ribasso dei prezzi del greggio avrebbe spinto all’insù le quotazioni azionarie dato fiato alle aspettative di una più rapida crescita dell’economia globale.
In questo caso, invece, si sperava in un accordo per il congelamento della produzione di greggio, che avrebbe favorito un rialzo dei prezzi. E la reazione dei mercati, negativa, non si è fatta attendere.
Nel merito, la questione appare relativamente semplice. L’Arabia Saudita aveva dato il via, quasi due anni fa, a un aumento della produzione tale da abbattere rapidamente il prezzo internazionale del greggio. Gli obiettivi erano espliciti: far fuori i produttori americani di shale oil, che ha prezzi di produzione alti, tra i 50 e gli 80 dollari al barile, e contemporaneamente provocare la crisi di Russia e Iran, alleati con Assad.
Un obiettivo a scadenza, insomma, perché un duraturo tracollo del prezzo del petrolio – da oltre 100 a quasi 30 dollari al barile – non era ovviamente neanche negli interessi della monarchia saudita. La quale ha infatti pagato cara la scelta, fino al punto da dover varare per il 2016 una legge finanziaria all’insegna… dell’austerità.
L’Iran ha raggiunto invece un accordo storico con l’Occidente sul nucleare e sta soltanto ora riprendendo a far crescere la sua produzione di petrolio come conseguenza della fine dell’embargo. La Russia, in qualche modo, ha tenuto botta. Mentre tutti i produttori, sia Opec che non, stanno cercando di compensare la dimunzione delle entrate petrolifere tirando la produzione fino al limite del possibile. Una strategia evidentemente suicida, ancorché obbligata, perché in questo modo il prezzo non può più risalire.
Il vertice di Doha doveva almento congelare i livelli produttivi di tutti i paesi ai livelli non bassissimi di gennaio. Ma nonostante un prolungamento di dieci ore della riunione, non si è arrivati a nessuna conclusione. Per colpa dell’Arabia Saudita, soprattutto, che aveva preteso come precondizione che anche l’Iran congelasse la produzione… al livello di quando era sotto embargo. Naturalmente la pretesa è stata rinviata al mittente, tanto che l’Iran non si è neanche presentato alla riunione.
Questo significa che il prezzo del petrolio crollerà a livelli da inizio millennio?
Difficile crederlo. In primo luogo perché i prezzi bassi impediscono nuovi investimenti. Per esempio buona parte di quelli che si attendeva l’Iran per poter ammodernare i propri impianti e risalire velocemente nei livelli produttivi. In secondo luogo perché i produttori statunitensi dello shale oil cominciano a fallire uno dopo l’altro, inguaiando pesantemente la finanza Usa, che aveva largheggiato in prestiti quando il prezzo era sopra i 100 dollari e il ritorno sembrava un gioco da ragazzi. In terzo, perché la guerra in Iraq, Siria e Libia non è affatto finita – o iniziata davvero – e quindi riduce comunque la produzione possibile in questi tre paesi.
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