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Processo di Milano. Condanne e parole inutilmente pesanti

 

“Questo signore rappresenta il capitalismo, lui è l’esecutore di questo sistema”. Così dalla gabbia degli imputati Alfredo Davanzo, uno dei capi delle cosiddette Nuove Brigate Rosse, ha replicato alle parole del giuslavorista e senatore del Pd Pietro Ichino che è intervenuto davanti ai giudici milanesi per chiedere che venga riconosciuto il diritto a non essere aggrediti e per ricordare di essere ancora costretto a viggiare su auto blindate sentendosi sempre in pericolo. “Quelli blindati – ha replicato Davanzo – siamo noi. Questa gente non ha diritto a fare sceneggiate. C’è una guerra di classe in corso…eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema”.

La citazione dal sito di Repubblica serve a sintetizzare centinaia di lanci d’agenzia dello stesso tenore, con variazioni minime rispetto allo spartito unico.

E ci resta una sensazione antipatica addosso.

Proviamo a dirla in modo semplice.

La Brigate Rosse sono state un’organizzazione che ha praticato la lotta armata dal 1970 al 1988, dicono le cronache giudiziarie e politiche. Alcune migliaia di militanti di sinistra ben conosciuti nei movimenti e nei posti di lavoro finirono in carcere in quegli anni e vi rimasero a lungo. Alcuni sono ancora lì…

La “coda” sanguinosa di fine millennio, nella pochezza dei numeri sia delle vittime che degli arresti, è sempre sembrata una tardiva imitazione, più che una “rinascita”.

Alfredo Davanzo e gli altri sotto processo in questi giorni fanno parte di una storia ancor più minima e nei fatti assolutamente inoffensiva. Tant’è vero che lo stesso processo d’appello ha riconosciuto loro una qualità inferiore a quella pretesa nelle parole: normali “sovversivi”, ancorché con qualche arma nascosta, ma non “terroristi” di serie A. Nessuna azione viene loro addebitata, solo intenzioni attentamente registrate dagli investigatori tramite un numero imprecisato ma elevatissimo di infiltrati. I quali – pur essendo citati spesso nell’inchiesta – non sono stati arrestati e circolano liberamente, proseguendo nella loro opera, transumando da un’aggregazione all’altra.

Il dissenso politico rispetto alle Br “storiche” è stato alto e chiarissimo nel corso di tutta la nostra storia. Non è su questo che ci vogliamo soffermare, quindi.

Ma ai tempi delle Br c’era una corrispondenza reale tra l’atteggiamento tenuto nelle gabbie dai prigionieri e “la pratica” esterna. Se allora il potere – come oggi – si sentiva e diceva “minacciato”, una certa percentuale di rischio era possibile, credibile, verificata.

Oggi no.

È vero, vengono fatti apparire comunicati di cui nessuno riesce a prendere conoscenza, tranne gli inquirenti. Neanche i giornalisti più vicini alle questure o alle procure sanno più di quel che viene loro detto, suggerito, sussurrato. Di violenza politica per le strade, insomma, non si vede traccia. E nemmeno di propaganda.

Siamo sempre stati rispettosi delle scelte di chi, rinchiuso in carcere, ha messo la sua vita in un budello senza uscita. La buona fede, in primo luogo, non è in discussione.

Ma non siamo certo sordi e ciechi davanti agli effetti che determinati comportamenti facilitano. Le “minacce” di Davanzo hanno un peso solo per i media mainstream. Non spaventano, crediamo, neppure Ichino che finge di crederci, viaggiando su auto che non paga e sono diventate uno status simbol per un po’ meno persone (i tagli alle “auto blu” possono a volte avere conseguenze positive…).

Ma queste minacce sono oro per la propaganda di regime. Sappiamo che sono fatte garatuitamente e magari costeranno anche qualche mese di carcere in più per colui che le fa. Ma eliminano la necessità, per il potere, di costruirne di false più di quanto già non faccia. Un regalo, insomma, davvero immeritato. E – come tutte le parole senza corrispettivo pratico – niente affatto “rivoluzionario”.

 

 

 

Gli aspiranti sovversivi del Pcpm condannati senza essere terroristi
Luca Fazio
MILANO
Condanne pesanti – fino a 11 anni – per le «Nuove Br». La difesa: «Smentite le tesi dell’accusa»
Per la seconda sezione della corte d’appello di Milano, gli undici esponenti del Partito Comunista Politico-Militare (Pcpm) condannati ieri non sono terroristi ma semplici sovversivi. Questa distinzione, che non è di lana caprina, tuttavia non è bastata ad evitare pene decisamente molto pesanti alle cosiddette «Nuove Brigate Rosse» che sono in carcere dalla fine del 2006.
Siccome attraverso l’uso distorto delle parole si inventano e si determinano storie e strategie, bisogna fare qualche precisazione. La dicitura brigatista «Nuove Br» è una invenzione dei media, i condannati non si sono mai detti brigatisti, quanto al Pcpm non è mai esistito, casomai quel partito era l’obiettivo da raggiungere, forse un domani, e magari anche con le armi (gli imputati hanno pubblicato dei documenti dove si teorizza la necessità di una rivoluzione anche armata).
A questo punto, all’avvocato della difesa, Giuseppe Pelazza, viene spontaneo domandare cosa abbiano fatto queste cosiddette «Nuove Brigate Rosse» per prendersi undici condanne che vanno dagli 11 anni e mezzo (invece dei 14 richiesti) per Claudio Latino fino ai 2 anni e 4 mesi; al presunto ideologo del gruppo, Alfredo Davanzo, è toccata invece una condanna a 9 anni. Andando a memoria, l’avvocato Pelazza ricorda un tentato furto ad un bancomat di Albignaseco (Pd), una esercitazione con delle armi – «vere, non giocattoli» – durata 8 minuti in un campo nel Polesine e alcune telefonate particolarmente livorose contro il giuslavorista del Pd Pietro Ichino, che comunque non sarebbe mai stato indicato come un obiettivo da colpire. Il giuslavorista però si è costituito parte civile contribuendo così a «pubblicizzare» oltre modo un processo che altrimenti sarebbe sparito dalle cronache. Ieri, per esempio, prima della sentenza, Pietro Ichino era in aula, una presenza che ha scatenato gli imputati che, secondo le cronache date in pasto ai media, e alle reazioni indignate degli amici politici, avrebbero nuovamente minacciato il giuslavorista. Prima con un «vergogna, vai a lavorare» e poi con la frase «questo signore rappresenta il capitalismo, lui è l’esecutore di questo sistema e noi eseguiremo il dovere di sbarazzarci di questo sistema».
Gli avvocati della difesa, pur parlando di «pene spropositate», dicono che la sentenza di ieri ha smentito clamorosamente l’impianto accusatorio derubricando il reato di associazione sovversiva con finalità di terrorismo (art.270bis) in associazione sovversiva semplice (art.270), riducendo così anche se di poco le pene inflitte in appello nel giugno 2010 (e non è un caso se il primo verdetto era stato annullato dalla Corte di cassazione che chiedeva maggiore chiarezza proprio in merito alle contestazioni relative all’associazione con finalità di terrorismo). I giudici milanesi hanno anche stabilito un risarcimento pari a 100 mila euro per il senatore Pietro Ichino e 400 mila euro alla presidenza del Consiglio (entrambi si erano costituiti parte civile).
Ma entrare nel merito di questa sentenza serve a poco, visto che a tenere banco sono le parole di Ichino, che da dieci anni è costretto a vivere sotto scorta: «Queste persone vogliono decidere chi sia il simbolo dello Stato ed emanare sentenze di morte e di ferimento nell’ambito di una guerra che hanno dichiarato». A seguire le prevedibili e numerose dichiarazioni di solidarietà e di vicinanza di tutta la classe politica, indignata. Più o meno è sempre la stessa storia. Quando la crisi del sistema si fa dura, un po’ di insano allarmismo all’italiana non guasta mai. Tanto più se il «lupo» si traveste da partito politico militare che non c’è.

 
da “il manifesto”

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