Al terzo giorno di blocco dei lavori della base missilistica la polizia si scaglia sul blocco dei manifestanti inermi.
Le persone vengono fatte oggetto di un incessante lancio di lacrimogeni, che vengono sparati anche dall’elicottero che volteggiava sopra il presidio.
I feriti vengono portati in una vecchia masseria nelle vicinanze, e dove adesso vengono prestati i primi soccorsi, ma anche qui poco dopo irrompe la celere, picchiando tutti quelli che lì si erano rifugiati, spaccando automobili, strappando i sacchi a pelo.
Alla fine si contano un centinaio di feriti 18fermi di cui 2 tramutati in arresto.
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Il Dossier dell’I.M.A.C. ( International Meeting Against Cruise )
La mattina dell’8 agosto come le altre mattine ci siamo svegliati alle 4. E ancora buio, ma l’aria frizzante ci mette di buon umore, eppure sappiamo bene di non dover andare ad un picnic. Nei giorni precedenti tutto è andato tranquillamente. Sabato, Hiroshima day, siamo rimasti di fronte ai cancelli del Magliocco tutto il giorno. La polizia non ci ha mai disturbato, e all’arrivo degli operai ha consigliato loro di tornare indietro. Lo stesso domenica 7, secondo anniversario della decisione del governo italiano di installare a Comiso i 112 Cruise. Abbiamo tenuto il blocco per tutta la mattina, poi abbiamo preferito ritornare al campo per preparare in assemblea il blocco dell’indomani. Sicuramente diverso. Sicuramente più duro. Ci dividiamo subito in 4 gruppi, uno per ogni cancello e partiamo insieme per l’aeroporto. Non appena ci avviciniamo all’aeroporto su di noi si innalzano, per ricadere lentamente, decine di bengala. Accendono luci giallastre, tetre. Deformano sul manto stradale le nostre ombre; qualcuno di essi, ricaduto sui campi secchi, dà origine a dei fuochi. Li spegnamo. Molti erano convinti di trovare la strada sbarrata dalle forze dell’ordine. Tutto è però apparentemente calmo. Alle 5 siamo già tutti seduti stretti di fronte ai cancelli. Quello principale è sbarrato da pulmini e macchine della polizia. Gli altri sono quasi deserti. Solo in numero 1, quello più vicino al bivio con la S.S., si presenta protetto da una fila di carabinieri sonnolenti. Abbiamo dei responsabili ad ogni cancello per i rapporti con le forze dell’ordine. Si presentano ad esse. Il clima è disteso. Pian piano la schiarita. Dagli Iblei spunta il sole, l’alba spezza l’umidità della notte e con essa scemano paure e preoccupazioni. Il nuovo giorno fa presagire che tutto si concluderà come i giorni precedenti. Ma queste impressioni si faranno sempre più deboli, via via che passeranno le ore. Già verso le 8 giunge la notizia che al cancello n. 3 si stanno concentrando polizia e CC, forse nel tentativo di forzare il blocco per far passare quei camion che continuano a girare intorno all’aeroporto, sperando di trovare un varco libero. Contrattazioni, minacce, ma poi tutto si conclude nel nulla. I carabinieri vengono rispediti a casa dagli agenti. Un’ora dopo al cancello n. 1, un ufficiale dei CC, chiede di far uscire i propri militari. Dice che hanno finito il turno, non ci sono problemi: apriamo un varco nel blocco, e facciamo uscire uno alla volta i carabinieri. C’è cordialità; ci si saluta tranquillamente. Ma quei militari non vanno via, si dirigono anche loro verso il cancello principale.
Qui il questore BORGESE pretende di forzare il blocco per entrare con il proprio mezzo all’interno dell’aeroporto, vuole telefonare al Ministero; potrebbe usare l’autoradio. Non siamo disposti a reagire alle provocazioni, si contratta, ci si confronta. Contemporaneamente dalle camionette iniziano a scendere un centinaio di poliziotti. Si dispongono alle nostre spalle chiudendoci ogni via di uscita. Davanti gli agenti che fanno da scudo agli automezzi che chiudono il varco al Magliocco. Di dietro i celerini che montano il casco, imbracciano gli scudi, stringono il manganello. Compaiono i primi fucili per il lancio dei lacrimogeni. Rapidamente si alza la tensione. Ci sediamo tutti per chiuderci dalla carica, in molti sdrammatizzano il momento. Sarà una tecnica per metterci paura.
«Non possono caricarci, che senso avrebbe?! Al governo non conviene; sanno benissimo che domani ce ne andiamo». E il pensiero di Gabriele di Catania, come lui siamo in molti a pensare lo stesso. Infatti qualche minuto dopo si decide di far passare il Questore. Apriamo il settore di centro del blocco; i celerini si svestono e risalgono sui jeepponi e sui blindati. A sdrammatizzare ulteriormente ci pensano i compagni del servizio ristoro rapidi a rifornirci di panini, acqua e pomodori. Qualcuno di noi inizia a parlare con i militari che abbiamo di fronte. C’è chi risponde cordialmente, c’è chi taglia con occhiate fredde e cariche di odio. Un sottotenente dei CC vicino al cancello pare faccia di tutto per innervosire noi e i suoi uomini. Ha voglia di alzarsi le maniche per menare. Lo “tallona” un capitano che ripetutamente lo invita a tenere i nervi saldi. Ma il sottotenente, un uomo alto con i baffi larghi e neri, si autoesalta. Inizia a minacciare, ad insultare a fingere di calciare il volto di coloro che siedono in prima fila. C’è chi, come Gabriele, che afferma di averlo sentito urlare «ma quale pazienza! Sarebbe necessaria una squadra di fascisti per eliminare il blocco»!!
E il capitano stesso che ci assicura che tutto procede “per il verso giusto”. Sono le 10,10, e ci dice: «Non vi preoccupate, alla base c’è il questore che sta mediando tra voi e il Governo per non caricare». È la prima prova evidente che ciò che sarebbe accaduto era già stato premeditato dall’alto, e che non sarebbe stato imputabile alla sola “follia” di un funzionario che non vuol perdere tempo. Ma è anche la prova che la polizia già sapeva dell’imbrattamento della macchina e del “taglio” (mai dimostrato e da molti smentito) dei copertoni. Dopo infatti avrebbero aggiunto «… Anche se avete tagliato i copertoni della macchina».
Tutto è poi continuato tranquillamente. Sono stati garantiti i rapporti tra le forze di polizia, anche per ciò che riguarda acqua, sigarette, ecc. Un elicottero, lo stesso che aveva rotto il nostro silenzio il giorno 6, quando c’eravamo tenuti un minuto per mano per commemorare la tragedia di Hiroshima, continuava a perlustrare gli estremi della base. Spesso si lasciava cadere giù sino a sfiorare la cima degli alberi; poi una virata e ripartiva verso l’alto. Ogni volta, tutte le volte, il fragore dell’elica violentava canti e discussioni.
Chiare provocazioni. Come quelle inscenate dal questore e da poliziotti in borghese che continuamente, senza avvertimento, passavano e ripassavano dal blocco. Crescevano anche tra noi tensione e nervosismo, ma nessuno è caduto nella trappola. Nessuno ha reagito. Si avvicina l’ora di pranzo. Il questore ci fa sapere che bisogna far spazio a poliziotti e carabinieri che devono darsi il cambio di guardia. Avevamo preveduto il cambio. Si era già deciso di far uscire tutti uno alla volta, facendoli passare da un varco, aperto come già era stato fatto al cancello n. 1.
Ricorda Stefano di Roma: «Avevo il compito di coordinatore tra i portavoce dei gruppi presenti al blocco e i funzionari di polizia. Abbiamo immediatamente consentito il cambio dei poliziotti, purché uscissero a piedi. C’erano già stati dei tentativi di carica; ma erano stati bloccati subito dalla nostra disponibilità a contrattare. Il nostro obiettivo era bloccare i lavori. Ad un tratto due funzionari entrati nella base per telefonare dopo essere passati da un varco opportunamente aperto, ci chiedono di far uscire anche gli automezzi, dato che dovevano cambiare anche gli autisti. Si perde un po’ di tempo a confortarci perché ci sono dei gruppi che non sono d’accordo all’uscita di essi, anche per il timore, come dice Giovanella di Catania, che ciò potesse servire da pretesto per caricarci, dato che i poliziotti sarebbero passati tra di noi». E Stefano: «Abbiamo chiesto qualche altro minuto per discutere con i compagni. I funzionari ci risposero che non c’erano problemi di tempo, dissero “abbiamo aspettato tanto…”». Ma c’era qualcosa di strano nel modo di fare e di dire dei funzionari e del questore. Pasquale di Sansevero, uno dei portavoce dei settori del blocco: «La mia impressione è che le forze dell’ordine che parlavano con noi, non la dicessero tutta. Chi ha esperienza in queste cose, si rende conto effettivamente quando si vuole trattare.
Generalmente ti dicono entro quanto tempo puoi decidere. Ti dicono le reali loro intenzioni dall’inizio alla fine; ti dicono se e quando sta per scattare la carica. Invece niente, non ci hanno detto niente. Solo un “fate in fretta perché non abbiamo più tempo da perdere
Abbiamo chiesto più volte che tenessero calmi i poliziotti, come noi – facevamo con i manifestanti. Si è chiesto ripetutamente di definire gli orari in cui gli agenti dovevano dare il cambio. Hanno risposto che l’orario non era un “affare nostro”, innalzando cosi la tensione; innervosendo ulteriormente i carabinieri, già stanchi dopo sette ore di “presenza al blocco
Dalla consultazione dei gruppi, emerge persino la proposta che con il cambio si sciolga il blocco visto che politicamente era riuscito perfettamente. Questa proposta in fase di discussione fu comunicata ai diversi funzionari. Non esisteva problema per il cambio. Il blocco si sarebbe aperto nel settore di destra. Tra di noi si era raggiunto il massimo del consenso. Dice Gabriele: “Io personalmente ho cercato di aprire il cerchio prima della carica, ma ciò non ha sortito alcun effetto”.
Ad un tratto senza alcun avvertimento, smontano giù dai loro pulmini centinaia di celerini. Sono di nuovo schierati, armati, decisi. Di fronte al cancello il solito sottotenente dei CC passa in rassegna più volte gli uomini, incitandoli a colpire duramente. C’è Antonio di Messina che è certo di averlo sentito dire:«4 colpi nei denti e li ammazziamo tutti!». Massacriamoli, uccidiamoli questi quattro bastardi!». Si levava nervosamente un elmetto diverso da quello di ordinanza, per rimetterselo subito. Brandiva un frustino. Ce lo descrive Sergio di Roma: «Aveva quattro cordami del diametro di un cm. ciascuno; erano di plastica resistente, duro ma flessibile. L’intreccio era tale da formare un cordone lungo un m. a sezione quadrata, terminante con dei filacciamenti lunghi circa 40 cm., alle cui estremità vi erano delle palline di materiale plastico, tipo perline di corallo. Lo arrotolava ironicamente a mo’ di serpente intorno al braccio…!!». Il capitano dei CC lo vede e lo invita alla calma: “leva di mezzo quell’arnese; perché ci crea delle grane” lo hanno sentito urlare. Ma i carabinieri sono sempre più tesi, inferociti. Si levano d’addosso le bandoliere (il cui uso è vietato per legge), iniziano a brandirle in aria; poi si infilano al braccio lo scudo. Qualcuno provvede a caricare i lacrimogeni. Una cassetta di pomodori posta accanto a dei manifestanti seduti, viene sbattuta loro addosso con un calcio sferrato da un carabiniere. Invitiamo alla calma.
Spieghiamo loro che stiamo per spostarci, che abbiamo già deciso di farli passare, che è colpa dei loro superiori che non dicono quando avverrà il cambio. Qualcuno ci risponde: «Dovevate pensarci prima, adesso è tardi!!».
Continuavamo a trattare, a convincerli a non perdere la testa. Dicevamo loro che tutto ciò era assurdo, ingiusto; dice Pasquale: “Stavamo ancora discutendo col commissario, quando questi si mette il casco e dà il segnale». E la carica. Immotivata, improvvisa, brutale. La giustificazione della carica fornita dalla polizia, verrà riportata completamente dalla stampa. Si dice che alcuni estremisti, appartenenti al gruppo di Autonomia Operaia, si sono accaniti contro l’autista di una delle vetture della polizia, una “Fiat Ritmo” bianca, che voleva opporsi ad un manifestante che con una bomboletta spray stava imbrattando la fiancata dell’autovettura con scritte ingiuriose e minacciose quali: “Vi uccideremo tutti”, “Digos a morte”. Una versione criminalizzante, falsa, ma sicuramente insufficiente a giustificare la violenza della carica, con le sue manganellate, i suoi spari, i lacrimogeni e l’inaudita caccia all’uomo.
Ma la verità sulla macchina imbrattata è un’altra. Riportiamo per intero la dichiarazione comunicato diffusa dopo la carica dalla Federazione delle Chiese Evangeliche di Sicilia e Calabria e che da solo basta a far luce sulla montatura della polizia. «In relazione a quanto dichiarato dalla questura di Ragusa in merito ai fatti dell’8 agosto, affermiamo:
- I) che un gruppo di cristiani evangelisti e cattolici tra i quali il pastore Rapisarda, il seg. nazionale della FGEI Paolo Naso, e il rev. Giovanni Franzoni della comunità cattolica di base di S. Paolo in Roma hanno potuto seguire da vicino tutto quello che è avvenuto nei pressi della Ritmo bianca, in dotazione alle forze dell’ordine, imbrattata da alcuni dimostranti non appartenenti al gruppo cristiano;
2) che in base alle testimonianze raccolte tra i membri del gruppo l’automobile riportava alcune scritte a pennarello già dalle 6 del mattino, quando il gruppo si è seduto accanto e nulla vi è stato aggiunto, né vi è stato alcun tentativo da parte di chicchessia;
3) il presunto provocatore di Autonomia Operaia, avvicinatosi all’automezzo, con l’intento di imbrattarlo con una bomboletta spray, era un giovane nonviolento tedesco e non portava in mano nulla di quanto attribuitogli;
4) che “gli autonomi intervenuti in modo violento in difesa del compagno”, come pubblicato da vari giornali, erano in realtà membri del gruppo cristiano che in un momento di generale distensione e in modo del tutto nonviolento cercavano di convincere l’agente che aveva fermato il giovane tedesco a liberarlo;
5) che la carica ordinata dal questore di Ragusa Borghese, pertanto, è avvenuta “a freddo” e senza alcuna giustificazione…»
Aggiunge a tal proposito Giovannella di Catania: “Stavamo mangiando, il blocco non c’era quasi più di fronte alla Ritmo. Le scritte erano state fatte con pennarelli neri. Non ricordo a memoria gli slogans, ma di sicuro non erano contro la polizia. Solamente scritte di Autonomia e niente di più. Non vi erano provocazioni dirette come quelle riportate da alcuni giornali, tipo: “Vi uccideremo tutti”. L’unico slogan diretto alle forze dell’ordine, è stato di tipo verbale; diceva: “Polizia italiana non difendere la base americana”. Sulla macchina c’era anche una scritta in tedesco. “Nessuno, dico nessuno, aggiunge Giovannella né stranieri né evangelici né tantomeno quelli di Autonomia, erano intorno alla macchina con bombolette spray in mano. E successo solo che uno straniero mentre beveva dell’acqua da una bottiglia di plastica, è stato bloccato da un agente. Siamo subito andati verso di loro ma ad un tratto la polizia èsaltata dalle camionette, si è messa i caschi e ha preso i manganelli, incominciando a picchiarci senza che nessuno di noi si rendesse conto di ciò che stava accadendo…»
Del resto, non si capisce bene come fosse possibile, data la disposizione delle forze dell’ordine, che un manifestante si avvicinasse con un pennarello alla Ritmo bianca, imbrattandone la fiancata, o tantomeno armato di coltello o di qualsiasi altra arma in grado di tagliare i copertoni. “E allora – dice Gabriele -scontato che le scritte ci fossero già dalle 8, è chiaro che sono state fatte con il tacito consenso della polizia, che era a diretto contatto con la macchina». Resta il sospetto che le scritte siano persino state premeditate. Molti compagni hanno dichiarato di aver visto dopo gli scontri, dei poliziotti in borghese ripiegare con bastoni di legno, dietro i blindati della polizia.
Perché escludere la possibilità che le scritte, come le decine di provocazioni effettuate, non servissero per giustificare la carica? O che fossero state prodotte da terzi? Abbiamo parlato di un’aggressione improvvisa. Non c’era tensione, lo ribadisce Nunzio di Comiso, ha affermato persino di aver pagato due caffè, mezz’ora prima della carica a un maresciallo dei carabinieri di Comiso e a un tenente maggiore di Vittoria, tutti di servizio alla base. Chiama a testimoniare persino l’europarlamentare Baduel Glorioso, presente con lui al bar di Comiso. Se ci fosse stato un clima da “guerriglia”, come farebbero due sottufficiali ad allontanarsi tranquillamente dal “campo di battaglia” per una tazzina di aroma all’italiana?
Paolo di Padova: “Mi trovavo al centro del semicerchio. Qui nessuno si è reso assolutamente conto di nulla. Stavamo parlando tra noi, quando abbiamo visto del movimento fra gli automezzi delle forze dell’ordine. Si alza subito un gran polverone, e poi le botte….”.
E numerosa la gente seduta che non si rende conto che è scattata la carica. “Guarda la foto, dice Mario di Ramacca , c’è già la polizia che bastona, e molta gente ancora tranquillamente seduta e rivolta dall’altra parte”.
La polizia attacca da due lati. Di fronte e di dietro. Si avventano sulle persone sedute, le scalciano, le bastonano, le calpestano. Colpiscono con gli scudi, con i guantoni imbottiti. Usano anche l’impugnatura dei manganelli, la borsetta portamanette, ogni colpo alle spalle è un taglio, un segno che andrà via dopo molte settimane. è impossibile scappare. Le strade sono sbarrate. Molti preferiscono piegarsi su se stessi, coprirsi il capo dalle botte, offrendo la schiena, le spalle. Cristina di Firenze: «non sono scappata. Non sapevo neanche dove andare. Tutto intorno era il caos. Fumo di lacrimogeni che si alzavano, la polvere che ci copriva tutti». Per decine di minuti, chi è in piedi viene gettato a terra e preso a calci. Poi afferrati per i capelli o per le maglie stracciate e portati verso i cellulari, per una nuova razione di botte. L’aria è irrespirabile. Si sentono solo le urla di chi attacca. Il suono stridulo delle sirene.
I “basta” di chi è a terra: insanguinato, immobile. Dice Enrico di Cagliari: “Erano centinaia. Correvano dappertutto. Chi è riuscito a coprirsi il volto ha avuto le spalle colpite da fortissime manganellate”.
Solo pochi riescono a scappare subito. Ma vengono brutalmente braccati, e seguiti tra i campi; presi a colpi. Chi riesce a dileguarsi per le stradine intorno alla base, si trova il tragitto bloccato da altre camionette. E ancora botte, e ancora lacrimogeni. “Scappavo, ma ho visto sulla strada una macchina della polizia, dalla quale un agente stringendo un manganello, cercava di colpire i giovani che camminavano intorno». Dichiara Angelo di Bergamo. «Ero a terra raggomitolato su me stesso». Dice Bruno A.: «A un certo punto sentii il peso di un corpo sopra il mio. Probabilmente qualche compagno che mi era caduto addosso. Sentivo le percosse che stava ricevendo. E il dolore che provava…».
Piano piano ci rialziamo, o siamo rialzati da compagni e dobbiamo ammetterlo anche da qualche poliziotto. C’è chi afferma come Damiano “Mentre venivo picchiato e non riuscivo più ad alzarmi da terra si è avvicinato un poliziotto dando-mi una mano per rialzarmi, dicendo all’altro che mi manganellava: “basta, non è giusto”.»
O come Pasquale che “aggredito da tre poliziotti» si accorge che “fingono di picchiarmi, colpendomi solo di striscio con il manganello”. Evidentemente c’è stato qualcuno che all’interno di quella massa scatenata, spersonalizzata, violenta, ha tentato di prendere le distanze, di dissociarsi in qualche modo seppur non apertamente. Ma erano pochi, troppo pochi. Chi era riuscito a sollevarsi dopo essere stato malmenato si è trovato altri poliziotti di fronte, pronti ad aggredirlo nuovamente. “Ero con le mani alzate e camminavo lentissimo. Mi trovai di fronte ad un poliziotto – è il racconto di Enrico. Gli dissi: Guarda, sto andando via!. Lui mi ha guardato un po’ e poi mi ha manganellato in faccia in modo molto violento». Enrico porterà sul volto per molti giorni un livido su un ampio contorno del globo oculare.
La polizia non risparmia nessuno, sacerdoti e religiose, famiglie di Comiso che stavano pranzando sotto gli alberi posti ad un centinaio di m. dal cancello della base, giornalisti. Persino i numerosi parlamentari, amministratori, non vengono risparmiati dalla furia dei celerini, eppure erano noti a tutti e già si erano qualificati come tali. Alcuni dei parlamentari riporteranno sospette fratture di costole e braccia. Sono attaccati i fotografi dilettanti e i fotoreporter di professione. Distrutte le loro macchine, strappati i loro rulli, ad un professionista di Roma viene fatto un danno di circa 3 milioni; viene lanciato un lacrimogeno per impedire le riprese alle televisioni presenti. Una TV tedesca si vede distrutto il camper ed una cinepresa. Agli operatori di “Tele l’ora” un’emittente privata di Palermo viene requisito il film.
I giornalisti sono condotti in questura e trattenuti temporaneamente. Macchine, moto, pulmini posteggiati sulla strada sono stati danneggiati. Frantumati alcuni parabrezza, scassati i cofani. È quasi impossibile trasportare i feriti in ospedale. Un giovane col volto completamente insanguinato, viene visto barcollare tra la polvere in cerca di qualche soccorso. Alcuni compagni restano a terra, privi di sensi.
Il servizio sanitario accuratamente predisposto, tenta disperatamente di prestare soccorso. Si era già presentato alle autorità e aveva ottenuto il permesso e tutte le garanzie di libertà di azione e di sicurezza rispetto ad eventuali attacchi delle forze dell’ordine. Era impossibile non distinguere dai manifestanti i medici, infermieri, ausiliari.
Portavano tutti una camicetta bianca con al centro, ben evidente davanti e di dietro, una croce rossa. Ma durante la carica si è cercato di impedire ripetutamente il loro intervento. Molti di essi vengono anche ripetutamente manganellati. Saba di Roma:
“Abbiamo tentato di soccorrere coloro che erano a terra insanguinati. Si vedeva chiaramente un ragazzo ferito, Antonio T., in condizioni estremamente gravi. Siamo scesi dal pulmino di pronto soccorso sul quale eravamo già stati bloccati, ma siamo stati subito circondati dalla Celere. Hanno iniziato a manganellare l’automezzo in varie parti, ma per fortuna c’è stato qualcuno di loro che è riuscito a trattenerli dal continuare; uno di loro mi ha messo un manganello sotto il naso, aspettava solo un movimento che però non c’è stato». E Andrea di Ravenna: «Vista l’impossibilità di raccogliere gli altri feriti a causa dell’intimidazione della polizia, abbiamo provato ad accendere il furgone per portare i feriti che avevamo raccolto in infermeria. Ma siamo stati fermati da un tenente di PS che ci ha sequestrato la chiave, impedendoci cosi il trasporto dei feriti».
“Ciò era completamente ingiustificato. Sia noi che il furgone presentavano numerose croci rosse. Eravamo riconoscibilissimi. Abbiamo delle fotografie che testimoniano una sequenza in cui si vede un medico, un ausiliario e il sottoscritto. che chiediamo a un tenente di poter medicare una persona ferita. Era stata trascinata per trenta m. per un piede, da un celerino dopo essere stata picchiata da due poliziotti di cui uno aveva il manganello rovesciato. Ho chiesto cinque volte di poter visitare la persona e mi hanno detto chiaramente che se non me ne andavo, picchiavano pure me. Ditemi: non è omissione di soccorso? » Calci, manganellate e spari… Non solo quelli per il lancio dei lacrimogeni, purtroppo. Sono in molti a giurare di aver visto la polizia usare le pistole. Alcuni bossoli sono stati visti per terra, nella piazzola antistante la base. Le canne sono state puntate ad altezza d’uomo. Ecco una testimonianza di Concetto di Messina: «Ero con la mia ragazza. Cercavamo di scappare da qualche parte, ma c’erano poliziotti dappertutto. Ad un tratto sento un grido. Francesca dice terrorizzata: “Spara! spara!” Mi volto e vedo a una cinquantina di m., in direzione della base, un poliziotto a braccia tese in avanti e gambe leggermente piegate. Puntava la pistola verso due, tre persone che scappavano per i campi di granturco. Viene subito bloccato da altri due colleghi, probabilmente prima che riesca a sparare». E Franco: «Mirava verso di me. Improvvisamente, un altro poliziotto lo colpisce alla mano con un manganello, fino a fargli abbassare la pistola».
Sfiorata la tragedia. Forse per un miracolo o forse per la maggior lucidità di un paio di agenti.
Alla polizia non basta allontanare i manifestanti dalla base. Scatena un’assurda quanto violenta caccia all’uomo. Spara decine di lacrimogeni tra i vigneti che circondano la base. Anche l’elicottero, dall’alto, bracca i pacifisti. Li individua, li segnala a terra, li insegue. E giù lacrimogeni, e ancora lacrimogeni. I celerini inseguono chiunque e dappertutto. Sono diverse le testimonianze che li descrivono lanciar sassi anche sui feriti. «Scappavo verso un vigna. ho sentito delle grida. C’erano dei celerini che lanciavano delle pietre, e dietro ancora i carabinieri. Poi sono cominciati a piovere i lacrimogeni» ricorda Pietro di Padova.
Un gruppo di manifestanti riesce a fuggire per una stradina posta a sinistra del cancello. Porta alla “Verde Vigna”, un terreno acquistato da alcuni gruppi pacifisti, proprio a ridosso della base. Sperano di trovare riparo, di assistere i feriti. Ma anche loro sono inseguiti. Bruno A: “C’era una persona che stava male per le botte ricevute. Bisognava portarla in ospedale. Raccoglievano da terra dei sassi e ce li lanciavano addosso. Corro a chiudere il cancello che permette l’ingresso alla Verde Vigna; c’è una macchina. E quella di Jochen Lorentzen, 21 anni, pacifista tedesco, da quasi un anno presente a Comiso. E lui che cercano. Ha rifiutato di ubbidire ad un divieto di dubbia costituzionalità che ne decretava l’espulsione per “non rinnovato permesso di soggiorno”.
La polizia lo conosce bene. E l’occasione migliore per arrestarlo, per toglierselo dai piedi. La polizia sfonda il cancello. Gli saltano addosso. Lo colpiscono con pugni e manganellate. Inizia ad avere il volto insanguinato, cade a terra tramortito. «Era in mezzo a un gruppo di poliziotti. Abbiamo cercato di aiutarlo – dice un compagno tedesco – ma non è stato possibile. Gli hanno dato una ulteriore manganellata in testa, e lo hanno portato via…».
Altri poliziotti entrano alla Verde vigna. Un paio si dirigono a spaccare due automobili e in furgone tedesco. Gli altri si dirigono su alcuni pacifisti che soccorrevano dei feriti, sotto una tettoia in canne e palme costruita in mezzo al campo.
Ricorda Hansen: «Ero membro della commissione sanità. Ho subito con altri un pestaggio selvaggio. Dopo, la polizia ha sfasciato la tettoia, facendola cadere addosso ai feriti. Infine un altro pestaggio». Dopo aver effettuato alcuni fermi, i celerini tornano indietro, alcuni a piedi, altri nelle camionette.
I primi a rivedere Jochen, sono gli infermieri bloccati di fronte la base. A dimostrazione di come fosse già stato predeterminato l’arresto di Jochen, è sufficiente la dichiarazione di Saba a Roma: «A un certo punto è arrivato Jochen ammanettato tra due poliziotti. Sembra stordito. Lo vedo cadere a peso morto a terra. Gli sono saltati di sopra. Siamo intervenuti per fermarli, scendendo dal furgone, e chiedendo al capitano dei CC di intervenire. Ci ha risposto testualmente: “Non posso perché è in mano della polizia. Eppoi, non posso farci niente, perché questo dovevano prenderlo”. Lo hanno portato sul blindato dove ci trovavamo con Antonio e Gisela. Poi siamo stati condotti all’interno della base e per un quarto d’ora non ci è stato permesso di assistere Antonio. Aveva preso dei brutti colpi all’addome. E entrato un appuntato della PS nell’autoblindo. Gli abbiamo chiesto di portarlo in ospedale. La sua risposta è stata: “Ancora non è morto. Quando sarà moribondo ve lo porteremo”. Ha poi aggiunto: “Non dite una parola, se non vi massacriamo. Questo non è stato che un assaggio.”».
Sono stati molti i manifestanti fermati e condotti all’interno della base, qui sono stati ammucchiati in attesa dei soccorsi invano richiesti per i feriti. Solo dopo più di un’ora è arrivata la prima autoambulanza per portare via due persone molto gravi: una donna con un trauma cranico e un ragazzo con un polso rotto. «Solo alle 14 – ricorda M. Cristina – al cambio della polizia, ci hanno dato del ghiaccio da mettere sulle ferite e ci hanno identificato. Poi sono arrivati dei medici americani». Ormai nei dintorni del Magliocco non è rimasto più un mani-festante. Molti stanno facendo ritorno a piccoli gruppi al campo IMAC. Agli altri cancelli arrivano notizie frammentarie. «Hanno caricato al principale!». «Ci sono molti feriti». Ci si accorda per tornare insieme, in corteo, al campo. Li ci si organizzerà eventualmente per andare tutti in paese a denunciare l’aggressione subita.
Anche le camionette della Celere fanno il percorso inverso e tornano alla base. Una decina di minuti, eppoi il Questore dà l’ordine di ripartire per caricare tutti all’ingresso del Campo per la pace. Forse spera in una nostra reazione violenta. Spera che in noi scatti la rabbia. Servirebbe per non avere molte “grane” in seguito con l’opinione pubblica. Durante il tragitto verso il campo, i celerini dall’alto dei gipponi, tentano ripetutamente di colpire tutti coloro che incontrano. Almeno tre cellulari e circa dieci macchine della polizia si dirigono all’IMAC. Una sessantina di celerini scendono per esporsi armati, di fronte la strada statale che conduce a Comiso proprio all’incrocio con il vialetto che conduce al campo. Bloccano il traffico e iniziano a sparare dei lacrimogeni verso i pacifisti che alla spicciolata stanno rientrando.
Rosanna di New York: «Ho persino visto dei poliziotti armati di pistola e altre armi da fuoco. Alcune erano tenute puntate su di noi. Altre erano tenute per il calcio. Ho visto anche sei uomini camuffati con pantaloni e magliette sporche e capelli disordinati, scendere dai blindati e brandire delle sbarre di ferro e dei grossi bastoni». Tenevano anche dei fili di ferro attorcigliati a mo’ di frusta. La polizia carica nuovamente tutti quelli vicini. Si cerca di convincerli a desistere. E inutile. E di nuovo un fuggi fuggi generale. Marco di Milano: «Scappavo. Ma mi accorsi che la mia ragazza Marina, era stata raggiunta. La picchiavano numerosi poliziotti. Sono tornato indietro e ho cercato di farle scudo con il mio corpo. Mi hanno dato tante botte da farmi svenire. Poi mi hanno messo su un cellulare dove sono stato ancora una volta picchiato. Con me c’era anche un ragazzo con il volto pieno di lividi. Guadagnano ancora venti metri, sparano altri lacrimogeni. Un paio di essi giungono nei pressi del campo. Gridiamo “Ma siete pazzi!! Bruciate tutto!! Ci sono dei bambini”.
La riposta è qualche manganellata a freddo. Alcuni di noi vanno a bloccare il corteo di manifestanti agli altri cancelli. Vengono fatti passare dai campi in modo da evitare il blocco. La polizia ci fronteggia per altri dieci minuti. Sembra che aspetti che qualcuno tiri un sasso o insulti. Forse vogliono entrare nel campo. Sarebbe un massacro. A poco a poco indietreggiano tutti per confluire nel sentiero di campagna che porta all’IMAC. Non ci inseguono, aspettano ancora un po’, poi fanno marcia indietro. Si tolgono il casco. Se ne vanno, se ne vanno. È finita. È l’ora di assistere le decine di feriti, di vedere chi manca, di fare coraggio a chi è sotto choc. Dobbiamo riprendere il controllo della situazione. Andiamo in assemblea per decidere come rispondere alla carica. La commissione Sanità ci fornisce un comunicato riguardo alla situazione dei feriti. Sono un centinaio circa.
«La maggioranza di essi presenta contusioni multiple alla regione toracico-dorsale, agli arti superiori e al cranio. Le contusioni sono di diverso tipo. Alcune di tipo escoriativo, prodotte dall’uso di un frustino. Quattro di esse sono state suturate con punti. Evidenti sono le contusioni da manico di manganello in quanto presentano striature trasversali. Numerose sono le ferite lacerocontuse prodotte dalle bandoliere dei carabinieri. Anche alcune di esse sono state suturate con punti. Quasi tutti i feriti presentano trauma cranico di diversa gravità (perché erano seduti). Per alcuni di essi è stato necessario il ricovero in ospedale, provvedimento adottato anche per una decina di persone con sospette lesioni ossee tra le quali un membro della Sanità».
Questo è il testo integrale del comunicato.
Non tutti i feriti andranno in ospedale, per il timore di essere identificati e fermati. Al contrario ci andranno decine di agenti per farsi fasciare sproporzionatamente piccole escoriazioni, spesso prodottesi per la violenza dei colpi dati.
Laura di Roma riporta la testimonianza delle infermiere dell’ospedale: «Quei buffoni – avrebbero
detto – si stanno facendo fasciare graffi e ferite inesistenti con fasciature enormi. Dicono di essere stati aggrediti, picchiati». Ciò fa parte dello scenario di questa enorme montatura, indispensabile per tentare una legalizzazione da parte degli “opinion makers”.
11 giorno dopo apprenderemo dai giornali che 34 compagni sono stati denunziati a piede libero per partecipazione a manifestazione non autorizzata, mentre per Jochen Lorentzen e Gesualdo Altamore di Ge-la è scattato lo stato di arresto. Il primo verrà presto espulso dall’Italia; il secondo verrà rimesso in libertà provvisoria con il divieto di soggiorno nella provincia di Ragusa.
È l’epilogo di una vicenda che ha dimostrato ancora una volta come l’Italia sia lontana dal riconoscere io stato di diritto per cui si possa manifestare pacificamente senza subire la violenza del Potere, la propria opposizione a scelte antipopolari e antidemocratiche.
Un’aggressione a freddo, violenta, contro chi richiedeva in modo nonviolento il rispetto al proprio diritto di vivere.
da http://www.osservatoriorepressione.info/
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