A chi la sovranità? Lo scontro che si va consumando a Strasburgo intorno all’Ungheria di Orbàn sintetizza al meglio il problema dei problemi che sta alle fondamenta dell’Unione Europea.
Tecnicamente, secondo i trattati, la plenaria dell’Europarlamento deve esaminare la richiesta di attivazione dell’articolo 7 del trattato Ue per “rischio di violazione dello stato di diritto in Ungheria”. L’elenco delle “criticità” emerse è piuttosto lungo, e va dalle restrizioni alla libertà di informazione (diversi gruppi editoriali sono finiti in mano ad “amici” del premier di Budapest) al controllo politico della magistratura, fino – ovviamente – al pervicace rifiuto di ospitare sul proprio territorio una qualsiasi quota di rifugiati e migranti decisa dalla Ue.
Il regime ungherese è assolutamente nazionalista, razzista, autoritario e criptofascista; ma fin qui ha fatto tranquillamente parte del Partito Popolare Europeo, ovvero la “Democrazia cristiana” continentale, che comprende Forza Italia e i cespuglietti scudocrociati italiani, i gaullisti francesi, i conservatori spagnoli ora orfani di Rajoy, la Cdu-Csu di Angela Merkel e Horst Seehofer. Insomma, uno dei due schieramenti pilastro dell’”europeismo” neoliberista (l’altro sono i socialdemocratici), che hanno accompagnato e gestito tutte le “cessioni di sovranità” dagli stati nazionali alla Ue nel corso degli ultimi 30 anni.
Lo scontro, in altri termini, si svolge direttamente all’interno del centrodestra europeo, mettendo in crisi o in tensione le alleanze. Ad esempio, la Lega – che a Strasburgo fa gruppo insieme alla Le Pen – in Italia è da sempre alleata di Berlusconi, ma sta al governo con i Cinque Stelle. Lo stesso gruppo parlamentare del Ppe, guidato dal tedesco Manfred Weber, si è spaccato al punto da dover lasciare “libertà di voto” ai suoi membri. Oggi, se si voterà, Forza Italia sarà insieme a Salvini, nella difesa di Orbàn, mentre la Cdu tedesca dovrebbe approvare la “condanna”. “Da parte mia voterò a favore dell’attivazione dell’articolo 7”, ha anticipato lo stesso Weber, lasciando ben poco spazio alla mediazione. “Se c’è volontà al compromesso da parte dell’Ungheria, allora possiamo continuare con il dialogo, ma oggi in plenaria non ho visto questa volontà da parte del primo ministro ungherese di contribuire a una soluzione”.
A complicare le vicende politiche italiane c’è anche l’orientamento dei Cinque Stelle per un voto “europeista”, di condanna dell’Ungheria.
Il discorso pronunciato da Viktor Orbàn, in effetti, è stata un’autentica provocazione “euroscettica”. Ha esordito anticipando le conclusioni della plenaria (“La verità è che il giudizio contro di noi è già scritto“) e ha ridotto le contraddizioni col resto della Ue alla sola questione immigrazione. “L’Ungheria sarà condannata perché ha deciso che non sarà patria di immigrazione. Ma noi non accetteremo minacce e ricatti delle forze pro-immigrazione: difenderemo le nostre frontiere, fermeremo l’immigrazione clandestina anche contro di voi, se necessario“.
Una rodomontata recitata a beneficio dei propri elettori, certamente, ma che denuda in poche parole il punto di crisi raggiunto nella costruzione europea.
L’Ungheria, sul piano economico, non ha nulla da rimproverare alla Ue. I contributi che riceve sono molto più alti di quelli versati, le regole di mercato adottato sono assolutamente in linea con quelle continentali, il mentenimento della moneta nazionale le consente inoltre margini di manovra che altri non hanno più, il Pil cresce più della media europea grazie all’aggancio forte con le filiere produttive tedesche. Se c’è qualcuno che ci ha guadagnato, finora, dall’essere membro della Ue è l’Ungheria, così come altri paesi dell’Est…
Ma i problemi interni al paese sono rimasti quasi tutti, a cominciare dalle diseguaglianze sociali – cresciute come ovunque imperi il morbo neoliberista – e quindi il razzismo è diventato anche lì la valvola di sfogo utilizzata per contenere le tensioni entro i limiti del governabile, anzi…
La costruzione europea, fin qui, è andata avanti a piccoli strappi. Ogni volta che si creava una tensione interna la pressione “esterna” – quella dei mercati e/o dei grandi gruppi multinazionali – è riuscita a ricompattare l’insieme, spingendolo verso un più alto grado di integrazione.
Ma ogni bel gioco ha la sua fine, ossia incontra il suo limite. La governance fondata sulla politica economica e monetaria può fare “miracoli”, piegando paesi e maggioranze politiche con velleità “riformatrici” (l’esempio della Grecia di Tsipras è scolpito ormai nel marmo), ma non risolve tutti i problemi; anzi, ne crea a bizzeffe, a partire dalla destabilizzazione sistemica della coesione sociale.
In altri periodi, insomma, le “piccole crisi” della Ue potevano essere controllate e superate grazie alla potenza dell’asse franco-tedesco, politicamente stabile ed economicamente dominante, e al contributo stabilizzatore di maggioranze politiche “europeiste” in quasi tutti i paesi membri.
Oggi, invece, la frammentazione sociale e l’incremento esponenziale di fasce deboli della popolazione è fenomeno che riguarda tutti i paesi dell’Unione, anche la Germania della Merkel, ora in bilico come mai prima.
La gestione neo e ordo-liberista della crisi – proprio in questi giorni se ne celebra il decennale dell’esplosione, col fallimento di Lehmann Brothers – ha minato alla base i meccanismi di creazione e raccolta del consenso sociale, precedentemente fondati su robusti sistemi di welfare, livelli salariali decenti e diritti del lavoro. Ne hanno fatto le spese per primi i “corpi intermedi” (partiti, sindacati, associazionismo istituzionalizzato), improvvisamente impossibilitati a trasformare istanze sociali in programmi politici realizzabili.
Ora la destabilizzazione sociale di riversa velocemente sul “centro motore”, sulle tecnoburocrazie che sanno ricattare e imporre “sacrifici” ma – ovviamente – non possono presentare alcun “ideale condivisibile”, al di là delle chiacchiere di circostanza che ancora stamattina uno Juncker ha sciorinato dal palco di Strasburgo (“Rispettiamo meglio l’Ue, non sporchiamo la sua immagine, cerchiamo di difenderne l’immagine, diciamo sì al patriottismo, no al nazionalismo esagerato che detesta gli altri e cerca di distruggerli“). Senza neanche accorgersi, probabilmente, del pericoloso crinale su cui si andava muovendo. Distinguere un “patriottismo buono” da un “nazionalismo esagerato” è roba per gesuiti particolarmente abili, non certo adatta alla riduzione in slogan di pronta presa.
Specie quando i “patriottismi” non hanno più alcuno strumento per esercitare un ruolo socio-economico e dunque si possono buttare solo sulle differenze di etnia, lingua, tradizione, pelle…
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