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Il naufragio del Natale 1996 e 289 morti chiedono ancora verità e giustizia

Il naufragio del Natale 1996, della nave F174 in cui perirono 289 persone, venne per tanto tempo negato al punto da parlare di “nave fantasma”. Solo l’impegno di pochi antirazzisti fra cui quello che forse rappresenta ancora oggi l’esempio più lucido di tali battaglie, Dino Frisullo e di pochi altri giornalisti, portò a rendere realtà quello che si voleva celare. Si era verificata allora quella che rimase per anni come la più grande strage del mare Mediterraneo dalla Seconda Guerra Mondiale. Oggi che stragi ancora più immense per il numero di vittime e per le modalità con cui si verificano, si verificano quasi periodicamente, alla chiusura di un anno semplicemente orrendo, per la quantità di vite uccise non dal mare ma da leggi e governi ingiusti, ci sembra giusto ricordare questa data per molte ragioni.

I processi che si sono svolti, a carico dei trafficanti di persone, di quel naufragio, non hanno portato a punirne i responsabili né hanno diminuito l’estendersi delle reti criminali. Questo soprattutto a causa dell’assenza di canali di ingresso regolari e di corridoi umanitari per i profughi. Oggi si intentano processi ai “presunti scafisti” che, quando sono poi tali, si rivelano essere unicamente persone arruolate a forza, o a cui è stato garantito il viaggio gratuito in cambio della guida dell’imbarcazione. In più di un caso ad avere tale imputazione, sono stati anche minorenni.

Questo mentre la rete potente degli smugglers si estende sempre di più e ricorre a metodi spietati grazie anche alle coperture garantite dagli stessi governi con cui l’Unione Europea ha negoziato il Processo di Khartoum ed il Migration Compact. Si pensi al Sudan di Al Bashir, snodo dei traffici di esseri umani per tutto il continente africano e sempre  più coinvolto nel processo di esternalizzazione dei controlli di frontiera.

La raccolta di materiale e di articoli che pubblichiamo, rispetto a quel Natale in cui sembra quasi che tutto sia iniziato, la si deve al prezioso e indispensabile lavoro di un altro dei nostri eterni “compagni di strada”. Alfonso di Stefano che, con la Rete Antirazzista Catanese, ancora garantisce che in quel lembo di Sicilia Orientale, le persone non vengano lasciate da sole. L’impegno antirazzista e per un mondo diverso è anche questo, nella quotidianeità dell’affrontare, a partire dal territorio in cui  si vive, gli efffetti di una guerra a pezzi di cui non si vede la fine. Grazie Alfonso, di compagni come te ce ne sarà sempre più bisogno.

Buon Natale, clandestino

Di Dino Frisullo

Duecentottantanove persone annegate: uno dei naufragi più gravi della storia del Mediterraneo. La testimonianza resa il 16 luglio scorso alla Procura di Reggio Calabria da Shakoor Ahmad, 25 anni, pakistano, uno dei pochi superstiti, conferma le versioni raccolte dalla polizia greca e le inchieste svolte in solitudine da Zabibullah Basha, padre e zio di due vittime pakistane, e dai giornalisti Livio Quagliata (Il Manifesto), Jesmond Bonello (Malta Indipendente), Pucio Corona (Tgsette), Teijnder Singh (Link Canada), John Hooper (The Observer), Panos Sobolos (Ethnos). Proviamo, intrecciando le fonti, a ricostruire questa tragedia negata, a partire dalla storia di Shakor. Il 22 novembre 1996 insieme ad altri 13 pakistani Shakoor Ahmad vola da Karachi a Dubai, da Dubai a Oman, da Oman al Cairo. Non hanno visti di ingresso: i funzionari di 4 dogane sanno e non vedono. S.T., impiegato del porto di Karachi, e gli altri trafficanti pakistani (R., A., Y., S.), hanno preso da ciascuno 4.000 dollari. Già un anno prima un tentativo era fallito,  erano stati consegnati loro (e poi ritirati) fogli individuali di imbarco come marinai: questa volta solo un documento collettivo. “Vi imbarcherete al Cairo come lavoranti, e subito sarete in Italia: là pagherete ancora chi vi attende e vi procurerà soggiorno, casa e lavoro”.

La nave dell’amicizia

Al Cairo, dopo sei ore di attesa e dopo aver contattato telefonicamente uno dei trafficanti, vedono arrivare  “l’avvocato” che deve occuparsi di loro. E’ una donna: subito entra nella dogana egiziana e ne esce con moduli timbrati, conduce i 14 pakistani in un albergo e il giorno dopo su un furgone ad  Alessandria d’Egitto. Qui l’egiziana discute tre ore con i doganieri del porto. Altri moduli timbrati: via libera, si imbarcano sulla prima nave di una lunga serie, la Friendship. Bandiera panamense, capitano greco, equipaggio russo. Qui trovano centinaia di cingalesi, per lo più Tamil e indiani. Tutti sotto coperta, su una moquette. I loro compagni di viaggio pagano di più: 8 – 13.000 dollari i cingalesi. 5-7.000 gli indiani. Come sono arrivati sulla friendship? Dall’indagine svolta in Grecia da Nabihullah Bacha, che nel naufragio ha perso il figlio e un nipote, risulta che sulla Friendship sono saliti gruppi portati da altre quattro navi provenienti da Istanbul, dalla penisola indiana e da Antakia, porto turco ai quali si aggiungerà il “carico” della quarta nave  proveniente da Adana. In sostanza, già ben prima del 25 novembre la Fiendship comincia a riempirsi.

Infatti, alle rimostranze di Shakoor e dei suoi amici sulla promiscuità e sul cibo immangiabile, “una grande zuppa come per gli animali”, il capitano risponde: “Cingalesi e indiani sono qui da settimane, e non si lamentano…”. Si credevano temporanei marinai, contavano di lavorare, mangiare a mensa e dormire in cabine: ottengono solo di inviare uno di loro in cucina, e di spostarsi a dormire sul pavimento di un’altra stanza. E attendono. “Ogni giorno arrivano nuovi gruppi di cingalesi, indiani pakistani, questi ultimo per un totale di di 79 persone. Il capitano aveva detto che avremmo raggiunto il carico pieno di 400 persone entro una settimana: restammo in porto ben 12 giorni”.

 

Non toccherete neanche l’acqua

La tensione sale fino alle 22 di un giorno da situare fra il 7 e il 9 dicembre (le testimonianze su questo punto non sono concordanti). Il giorno prima, con l’ultimo gruppo salgono un trafficante pakistano e un greco. Si fanno consegnare da tutti la seconda rata del denaro pattuito. Il pakistano parte con loro cercando di tranquillizzare tutti : “La Friendship ha già scaricato 350 persone in Italia: arriverete subito, un battello vi porterà a riva, non toccherete neanche l’acqua”.  Invece la notte successiva il capitano, pistola in pugno e sparando in aria, li obbliga a passare tutti su un peschereccio con equipaggio greco, lo Hira (altri testimoni citano un altro nome, Sealine). Nel pomeriggio nuovo trasbordo sulla Yohan, un cargo di 1.500 tonnellate battente bandiera honduregna, dove trovano ancora altri asiatici. Totale: oltre 464 persone . Sulla Hiro resta una parte del carico umano diretta in Grecia, dove il capitano dice di aver appena sbarcato due gruppi per un totale di oltre 120 persone, Annuncia agli altri, prima del trasbordo sulla Yohan, che non raggiungeranno l’Italia prima di 15 – 20 giorni. Il capitano della Yohan, il libanese residente in Grecia Yussef El Hallal, era stato arrestato nel ’95 dalla Finanza al comando della Irini  per lo sbarco di un gruppo di cingalesi presso Reggio Calabria. I due ufficiali sono greci, i sette marinai arabi, i due macchinisti cretesi, le inservienti polacche. Il cuoco arabo era “l’unica persona umana dell’equipaggio”.

Di nave in nave 

I nuovi compagni di viaggio sono “così magri e disfatti che gli cascavano i pantaloni”. Vengono dalla Turchia. Venti indiani, giunti da Dehli a Istanbul in aereo e poi portati su un camion ad Adana. Da lì sono stati imbarcati il 5 novembre “come prigionieri” su un cargo turco che ha bordeggiato per un mese prima di trasbordarli sulla Yohan qualche giorno prima dell’arrivo dei 400 dall’Egitto. Altri, anch’essi in prevalenza indiani, sono stati imbarcati il 26 settembre sulla nave Alex nel porto turco di Antakia, da qui il 26 ottobre su un’altra nave chiamata Ena, infine, dopo ben due mesi, il 3 dicembre, sulla Yohan.

Riepilogando, dunque: otto natanti di cui due “contenitori”, rispettivamente la Friendship in porto e la Yohan in mare. Un sistema misto aero-navale a vasi comunicanti fino al carico ottimale. Un’economia aziendale anche nell’evitare gli sprechi, come puo’ essere un  cibo decente per la “merce”. Uno schiavismo tecnologico. Un sistema ferreamente centralizzato: quattro navi su otto (ma forse anche altre più piccole) provengono dalla Turchia, e Istanbul è anche lo snodo aereo o navale fra Colombo e Alessandria d’Egitto, mentre i trafficanti di Karachi fanno capo ad Atene, alla Pakistan – Greek Friendship Association. Si puo’ parlare di mafia turco-greca come regista dell’operazione.

Natale, finalmente!

Per quasi venti giorni la Yohan bordeggia fra Malta e la Sicilia, a volte si scorgono le luci di ambedue le coste. Una volta al giorno un quarto di litro d’acqua e un pezzo di pane, poi sostituito da un pugno di riso senza sale, per quasi 500 essere umani rinchiusi in una stiva, con una o due ore d’aria. Una notte entrano in un porto siciliano, ma un guardacoste accende le luci e li insegue per un breve tratto. Tre giorni prima di Natale un battello, quello su cui poi si consumerà la sciagura, porta da  Malta i rifornimenti.

Finalmente il 24 dicembre il capitano, che ogni giorno ripete di attendere da Malta il traghettatore per la costa siciliana, li avverte: è per quella notte, con o senza battello. Sono cosi’ esausti da accettare anche di calarsi con le corde in mare, pur di sbarcare. Ma partiti alle 18 dalle acque maltesi, all’1,30 il legno maltese arriva. In realtà era tutto previsto: il fratello di un tamil, residente a Milano, aveva avuto tre giorni prima per telefono dal trafficante di Colombo il preannuncio dello sbarco per la notte di Natale.

 

400 persone in 18 metri

La “nave della morte” viene da Malta. E’ un legno di 18 metri a fondo piatto, bianco a strisce azzurre, dalla sigla F – 174, gemello del lunch F – 143 Temptation ancorato nello stesso porto e anch’esso trasformato da vecchia lancia della Marina inglese, in peschereccio. E’ tenuto da corde perchè non si sfasci e la sua stiva, riadattata a vani frigorifero puo’ contenere 600 scatoloni di pesce. L’Interpool confermerà la sua scomparsa. L’ha noleggiata per l’equivalente di 60 milioni di lire uno straniero misterioso che risiede a Malta, insieme e per conto del già citato quarantaduenne Eftichios Zervoudakis (il nome diventa “Ikios Giarbudakis” nel servizio di TG7 del 18 febbraio), già condannato a 5 anni in Grecia nell’88 per traffico di droga, cervello logistico dell’operazione e membro della Pakistan Greek-Friendship Association. Assoldano un greco residente a Zurrieq (Malta), e un maltese, residente con la famiglia a Cospicua. Il battello viene dal porto di Marsaxlokk, carica altre 50 persone a Xghalia, presso Zabbar, poi punta verso la Yohan in permanente contatto radio con Malta.

L’F-174 dovrebbe traghettare gradualmente il “carico” della Yohan, ma gli uomini non ce la fanno più e, sfondati i boccaporti, emergono dalla stiva-prigione e si gettano in massa nello scafo. Alcuni dicono che El Hallal li incitasse a scendere tutti nel battello, altri che cercasse di fermarli. Quando le navi si staccano, sono a bordo (secondo il calcolo dei sopravvissuti) 118 persone. I 50 già presenti da Malta non sono mai stati calcolati nel bilancio del naufragio: in realtà sono dunque quasi 400.

 

A 30 km dall’Italia

Quando le due navi si riavvicinano per far scendere Zervoudakis, salito sulla Yohan per sintonizzare i radiotelefoni, c’è un primo urto per via del mare mosso: da un foro l’F – 174 inizia a imbarcare acqua a prua. Ma si parte ugualmente: sono, secondo il capitano, a 30 km dalla Sicilia.

Le due navi viaggiano di conserva nella notte, ma l’F – 174 è sempre piu’ rallentato dall’acqua che gli immigrati si danno il turno a gettare fuori a secchiate dalla sala macchine. Passano in mezzo “alle luci bianche e gialle di 4 o 5 navi ferme”: forse petroliere che usano sostare all’imboccatura del golfo di Noto, a est-nordest di Capo Passero, per pulire illegalmente i serbatoi o attendere che il mare, quella notte in tempesta, si calmi. La falla da rumori secchi, si allarga, la gente sopra coperta si raggruppa a poppa per riequilibrare, gli altri, chiusi nella stiva, chiedono aiuto, sempre più immersi nell’acqua. Infine l’acqua è troppa, chi lavorava a gettarla fuori dall sala macchine rinuncia e corre sopra coperta, l’F – 174 si immerge di prua e, secondo alcuni, si ferma, con la sala macchina fumante invasa dall’acqua, secondo altri continua a navigare rollando paurosamente. Intorno, ancora luci di navi all’ancora.

Come topi

Il capitano chiama la Yohan, che torna indietro a tutta forza, gira intorno al legno maltese e fa per accostarlo, ma invece lo sperona di netto spaccandolo in tre pezzi, fra cui relativamente integra la poppa, sotto cui centinaia di uomini stanno chiusi nelle celle frigorifere.

Solo in quattro riescono ad afferrare le corde della Yohan e ad arrampicarsi: i pakistani ShakoorAhmad e Shabab e 2 indiani. Dalla tolda buttano giù tutto quello che trovano: salvagenti, giubbotti, legname. Si salvano cosi’ altre 25 persone (19 secondo Shakoor, ma la cifra più attendibile è riferita dall’indiano B.S., che conferma anche il particolare, non notato dal ragazzo pakistano, di almeno 150 persone rinchiuse come topi nelle celle frigorifere). L’immagine più atroce, che riempie di angoscia gli occhi di Shakoor, è quella di un ragazzo indiano che si trascina a bordo perdendo sangue persino dagli occhi e muore quasi subito, e il capitano fa ributtare in mare il cadavere minacciando con la pistola gli scampati che chiedono di seppellire almeno lui in terraferma. Dalla Yohan stranamente non vedono più le luci delle altre navi intorno, in compenso vedono la costa vicina: forse anche prima vedevano, senza saperlo, le luci della Sicilia. Ancora armato, ubriaco, il capitano giura di aver chiamato i soccorsi, e ordina di ripartire. Verso la Sicilia, dice. Invece fa rotta verso la Grecia,  dove arriverà ben quattro giorni dopo.

Prigionieri!

Il 28 dicembre sera la Yohan si ferma, rischiando un nuovo naufragio nel mare in tempesta, “in un canale fra due montagne”, ripara il motore in avaria e sbarca in un’isola tutti i 172 passeggeri., in cui 29 scampati al naufragio. Dopo averli chiusi sotto chiave in una casa, trafficanti di diverse nazionalità cercano di convincerli a non denunciare l’accaduto. Qualcuno riesce a fuggire e si rivolge alla polizia greca. Infine il 30 dicembre un Tir ne carica 107 (37 pakistani, 51 srilankesi e 19 indiani) e li scarica a Hermioni, presso Nauplios, dove la polizia li arresta. I loro racconti combaciano con quelli dei primi fermati e poi con quelli riferiti alla polizia di Argo da 57 tamil, rilasciati dopo essere stati reclusi per 2 giorni da sorveglianti armati di fucile.

Il commissario di Nauplios, Panayotis Kalofalias, li trattiene per 22 giorni e concorda con il procuratore locale Jannis Pravataris: il naufragio c’è stato, non è possibile un’invenzione collettiva, 11 persone, fra cui 6 greci vengono incriminate e condannate. Solo il governo italiano continuerà a a lungo a negare l’evidenza. Tutti i fermati sono rimpatriati il 26 gennaio, salvo 22 cingalesi che affermano di rischiare persecuzioni in quanto tamil : 7 di loro hanno anche chiesto asilo politico. Chi è sfuggito alla cattura vaga per mesi in Grecia lavorando e custodendo il suo segreto, come Shakoor, che un giorno si trova davanti proprio uno dei trafficanti, fuggito in Grecia per non dover rispondere della strage alle famiglie delle vittime. E’ lui che gli paga il biglietto del traghetto per l’Italia.

Dove? In mare, in mare…

Dove è avvenuto il naufragio? I marinai maltesi indicano un punto esatto: 30 miglia a nord-est di Malta, 40 a sud di Capo Passero. A  lungo è circolata questa  indicazione: ma probabilmente non è il luogo dove giace il relitto (impossibile da conoscere in partenza da Malta), ma il luogo di appuntamento fra le due navi. Da quel punto hanno navigato per un’ora e un quarto, secondo Shakoor, forse qualcosa di più, se il trasbordo è avvenuto all’1,30 di notte e la Yohan è ripartita quasi subito verso la Grecia, dopo il rapidissimo naufragio, alle 3,30. Almeno 90 minuti di navigazione, dunque: sufficienti per doppiare Capo Passero ed entrare nella parte meridionale del golfo di Noto, dove sostano le petroliere e si vedono le luci di Pachino, Marina di Noto, Avola. Dunque in acque territoriali italiane. Il 30 gennaio due corpi restano imbrigliati nelle reti dei pescherecci Ambra e Gulia, al largo di Lampedusa: l’autopsia situa la morte a un mese prima, un corpo umano in mare percorre, con le correnti, 24 nodi al giorno e in 20 giorni puo’ attraversare il canale di Sicilia. Molto più tardi, in giugno, altri 2 corpi affiorano a nord del possibile naufragio: uno di loro, trovato presso la penisola Magnisi nella zona industriale di Siracusa, ha indosso i resti di tre paia di pantaloni, come fanno i clandestini per non portare bagaglio a mano quando sbarcano.

Non proprio solerti

Intanto il 28 febbraio la Yohan viene bloccata dopo aver sbarcato 155 cingalesi e pakistani a sud di Reggio Calabria. Viene trainata in porto. John Hooper dell’Observer nota le lettere cancellate “OHAN” sulla fiancata. In prima pagina, il 3 marzo, il suo giornale titola “Found the ship of the death”: sulle prime pagine dei giornali italiani, a parte “il Manifesto” e “Liberazione”, si conterà solo un editoriale de”La Stampa”. Nella stiva si trovano brandelli della bandiera honduregna, e le povere cose dei naufraghi saranno riconosciute il 7 maggio ’97 da Shakoor, insieme ai segni del duplice speronamento. Ma per l’avvocato italiano di molti trafficanti, Francesco Comi, l’identificazione è “una grossa montatura”.  E le omissioni delle autorità, specie italiane? Vediamo. Il 4 gennaio la Reuter, citando Massimo Grisetti, portavoce del Centro di Coordinamento del  salvataggio navale, afferma che il primo allarme è giunto all’Italia dal corrispondente oraismo maltese già il 26 dicembre: “Verificare possibile collisione nel canale di Sicilia”. Ma Alberto Stefanini, comandante del centro operativo “Guardia Costiera di Roma”, l’11 gennaio smentisce in parte: da Malta avrebbero solo denunciato la scomparsa di un peschereccio, non una collisione. Sta di fatto che Grisetti viene trasferito da Roma. Per Stefanini il primo allarme sarebbe giunto il 31 dicembre dal Pireus Rescue Coordination Centre, l’organismo greco di guardia costiera, sulla base delle testimonianze dei superstiti raccolti in Grecia. Stefanini dice che sono state subito inviate in perlustrazione motovedette dalla Sicilia e da Reggio Calabria, e sono state informate anche le 4 navi militari  che incrociano nel Canale, senza risultato. Scandagliare il mare? Non si sa dove, comunque i batiscafi della Saipem costano, sono già stati usti in un’occasione simile, ma solo perchè c’era di mezzo la Rai (da “Il manifesto” dell’11 gennaio). Ma l’Ansa il 4 gennaio da notizia che sono state inviate, una sola volta due sole motovedette.

Un ago del pagliaio!

In realtà la Yohan era già stata notata, nella sua lunga permanenza in un mare assai controllato: secondo Salvatore Orami, responsabile della Capitaneria di porto di Lampedusa, il 30 dicembre la centrale operativa delle Capitanerie greche avrebbe segnalato “una nave honduregna in navigazione fra Malta e la Sicilia”. Troppo tardi…Dunque pero’ era possibile individuare la nave della morte anche da parte degli italiani, prime del naufragio, ed era forse possibile, dopo 24 ore, salvare ancora qualcuno. Ma il 5 gennaio il  Comandante generale delle Capitanerie di Porto, ammiraglio Ferraro, giudica “molto vaghe” le precise notizie provenienti dalla Grecia e “impossibile una ricerca mirata in mare “, anche se si fossero mobilitate non due motovedette, dice, ma due squadriglie. Ancora il 14 gennaio, quando si delinea anche l’area del naufragio, l’ammiraglio Lolli, comandante della Guardia Costiera, la situa “non a Capo Passero, se mai ad est di Malta” (eppure la nave era diretta in Italia). Intanto il 7 gennaio la Reuter riporta le precise interviste ai superstiti realizzate da Costas Paris in Grecia, l’8 aggiunge la testimonianza di uno del fratello di uno dei naufraghi, residente a Milano, il 9 il Senato pakistano delega con voto unanime il governo a chiedere notizie all’Italia, l’11 finalmente  anche il Tg 1 ne parla, il 12 la notizia rimbalza sul’Observere sulle reti Abc e Bbc, il 14 giunge al governo un’accorata lettera dai Tamil di Palermo e del presidente della Provincia Puccio. Si moltiplicano le interrogazioni parlamentari e le sollecitazioni al governo, da Gloria Buffo del Pds ai senatori Russo Spena, Marchetti e Marino e ai deputati Diliberto, Moroni e Pistone del Prc, al segretario della Filt- Cgil Mario Sommariva, alla senatrice Tana De Zulueta…

Un naufragio? Ma quale naufragio!

Ma il prefetto Scivoletto, Commissario straordinario per l’immigrazione, non è mai stato informato, e il governo italiano continua a ripetere i suoi dubbi sull’esistenza del naufragio. Quanto alla stampa italiana, è così disinteressata(con le eccezioni già richiamate), da attirarsi le ironie della stampa inglese. Fa più notizia il naufragio di due navigatori durante il periplo del mondo. Se poi si va a verificare l’atteggiamento dei mezzi di comunicazIone di massa dei paesi in cui si tiravano i fili: non una riga sulla stampa turca, solo il giornale Ethos e due reti televisive si interessano della vicenda in Grecia. Anche quando, mesi dopo, il governo italiano deve prendere atto della realtà della tragedia, nulla si muove: c’è l’emergenza albanese…

I clandestini non contano…

Quanti morti attendono in mare almeno l’atto umanitario del recupero del relitto e della restituzione delle salme alle famiglie? Ben 289 : 31 pakistani, 166 indiani, 92 cingalesi, tutti di etnia tamil, tranne 4. Solo l’ambasciata pakistana ha trasmesso la lista degli scomparsi, chiedendo insistentemente e inutilmente notizie alla Farnesina. La lista degli scomparsi è stata pubblicata il 12 gennaio dal quotidiano della diaspora tamil in Europa, Vrakesari. Quanto agli indiani, erano venuti attraverso la Turchia in gruppi compatti e contati. Ma se è vero che il battello era giunto all’appuntamento già con un carico di circa 50 persone da Malta, come risulta dall’inchiesta di Bonello su The Malta Indipendent del 9 marzo, il numero degli scomparsi si avvicina ai 400. Forse da questo dipendono alcune discrepanze : i tamil lamentano 140 dispersi, non 92. In ogni caso, una strage. Una strage di clandestini: di invisibili per definizione, di intrusi, di indesiderati. Dunque da rimuovere dalla memoria collettiva: conoscere le circostanze, i responsabili, ancora in piena attività, metterebbe in crisi non solo le politiche dell’immigrazione o dell’antimafia, ma l’idea che abbiamo di noi stessi e della nostra civiltà. Meglio non sapere.

 

Da Narcomafie – Settembre 1997

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