In un’intervista pubblicata su Bloomberg lo scorso 27 agosto, il Ceo del secondo istituto finanziario danese, la Sydbank, ha annunciato un tasso d’interesse negativo (-0,6%) sui depositi superiori a 1,1 milioni di dollari. La notizia segue di una settimana quella secondo cui un’altra banca danese, la Jyske Bank, la stessa che insieme ad altri istituti scandinavi aveva “fatto la storia dei mutui” offrendo prestiti a 10 anni (ma la tendenza è in espansione anche a quelli a 20 e a 30 anni) a tasso fisso sempre inferiore o uguale a zero.
La decisione è il frutto delle scelte della Banca centrale di Danimarca (BcD) che, per il settimo anno consecutivo (e l’ottavo è in vista), offre tassi d’interesse sui depositi penalizzanti: un record del mondo.
La Danimarca, così come per esempio il Regno Unito o gli altri paesi della Scandinavia, con l’esclusione della Norvegia, fa parte dell’Unione europea, ma non dell’Eurozona. Questo significa che pur prendendo parte al mercato comune, Copenaghen non utilizza l’Euro bensì una propria moneta, la Corona danese.
Apparentemente, questo significa che il governo danese, per mezzo della propria Banca centrale, ha la piena responsabilità sulla sua politica monetaria; tuttavia, l’adesione al Sistema europeo delle banche centrali (Sebc) e al Sistema monetario europeo (Sme) ne limita fortemente gli spazi di manovra.
Infatti, l’obiettivo del primo sistema, e perciò di tutti gli istituti-paesi che ne fanno parte, è la stabilità dei prezzi, a cui segue logicamente – ossia, solo successivamente in termini di priorità – quello della piena occupazione. Mentre il sistema monetario persegue la stabilità dei cambi tra le valute interessate, che con l’adozione dell’Euro (e gli accordi denominati Aec II, cui fanno eccezione i sudditi di sua maestà Queen Elizabeth II) si traduce nell’aggancio a questo della krone.
Per farla breve, dimmi che succede all’economia “europea” e ti dirò che succede anche nella virtuosa Danimarca. I seguenti grafici sui tassi d’interesse Bce-BcD e sull’indice dei prezzi al consumo (Cpi), ossia dell’inflazione, specialmente post-arrivo della crisi dei mutui subprime da questa parte dell’Atlantico, ne sono una conferma.
Il controsenso in termini capitalistici del denaro che non rende è un fenomeno di cui in questo giornale si è trattato ampiamente e, come scrive Salerno-Aletta in un suo editoriale per TeleBorsa, la politica dei tassi d’interesse negativi “sta producendo effetti disastrosi per tutti”.
Anni di politiche deflattive, depressione salariale, privatizzazione anche dei settori strategici e deregolamentazione del mondo del lavoro, non hanno impedito alle esportazioni – perlopiù di matrice tedesca – di frenare la loro corsa (e come avrebbero potuto, considerando che la loro competitività era basata sul taglio del costo del lavoro, che prima o poi si tramuta sul crollo della domanda, e non su ricerca e innovazione?) e con essa quella dei consumi, a cui segue naturalmente quella degli investimenti privati (quelli pubblici sono al palo da tempo, circa 25 anni nel nostro paese, perché, ci vorrebbero far credere, necessari ad abbassare il livello d’indebitamento della nostra economia).
In un’“economia reale” che ristagna da oltre un decennio e non dà segnali di risveglio l’investimento per il businessman è sempre meno remunerativo, quando non addirittura troppo rischioso; e allora non resta che o speculare nel mondo della carta finanziaria (per stomaci forti), o depositarlo presso le banche centrali a rendimenti magari inferiori, persino negativi, ma più “sicuri”.
Ma è proprio qui che casca l’asino, perché l’architettura europea impedisce l’ingerenza del pubblico sotto forma di investimento nell’“ordine del mercato”, per cui in una condizione di stagnazione lo Stato non può intervenire e il privato non si mette in gioco, perché non vede all’orizzonte rendimenti sufficientemente profittevoli. Tutti fermi, tutto immobile.
In questo quadro, la penalizzazione dei depositi non poteva (e non potrà) produrre l’effetto sperato dalla Bce, ossia quello di rimettere in circolo denaro sonante, perché se chi dovrebbe comprare – beni o sevizi che siano – gode (si far per dire) di un potere d’acquisto sempre minore, chi pure potrebbe investire semplicemente non ha alcun interesse a farlo.
La Germania, a pensar male, forse era pronta da tempo anche per questo, perché la possibilità di uno sforamento del 3% del rapporto deficit-Pil come politica anti-ciclica per far fronte alla recessione è prevista dai Trattati, ma solo per i paesi che abbiano raggiunto un rapporto debito-Pil del 60%.
Quando tutto questo si protrae nel tempo si arriva perciò al paradosso per cui anche chi ha disponibilità di risorse è in difficoltà nella loro allocazione, perché la migliore disponibile garantisce al massimo una perdita contenuta (di questo si è avvantaggiata la Germania, con tassi negativi sui propri titoli che le hanno permesso di guadagnare sul proprio indebitamento).
Come dire, se il Lavoro piange lacrime e sangue, la maggior parte del Capitale non riesce a ridere.
La difficoltà del sistema bancario danese allora è solo l’ultimo campanello di allarme di un sistema che è fallito, cui quasi nessuno ha mai chiesto spiegazioni e che per giunta esce ideologicamente rafforzato dall’ultima tornata elettorale di maggio. Non conta più essere i campioni della flexsecurity o uno dei paesi meno corrotti al mondo (anche se, diciamo così, ultimamente vittima di qualche svista di troppo).
A questo proposito, il prossimo governo giallo-blu che si andrà a formare in questo paese ha già espresso, nelle parole pronunciate ieri mattina al Quirinale dall’ex-futuro presidente del consiglio Giuseppe Conte, un forte impegno al processo di integrazione europea.
Ma quanto appena accennato in queste righe porta in dote (almeno) due insegnamenti: non sarebbe la sola uscita formale dall’Euro che risolverebbe per magia i problemi, come immaginato dal grillismo di qualche anno fa, se questa non fosse accompagnata da una solida alternativa; è l’istituzione europea tutta la causa principale della nostra instabilità attuale e dell’incertezza che pervade il nostro futuro.
Prima tutto questo diviene di dominio comune, meglio sarà per tutti. Per assurdo, padroni compresi.
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