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Facebook in rivolta contro la pavidità di Zuckerberg verso Trump

Quanto avviene nelle strade degli Stati Uniti riverbera anche sui social network e non solo tramite i post, i like e i commenti. A farne le spese è addirittura il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, alle prese con crescenti contestazioni interne.

I malumori erano iniziati quando Zuckerberg la scorsa settimana si era schierato con Trump contro Twitter, “colpevole” di aver segnalato il carattere inverosimile e violento di alcuni tweet della Casa Bianca. In particolare il tweet nel quale il presidente Usa invitava a sparare contro i saccheggiatori. Il numero uno di Facebook aveva criticato il social network rivale ed aveva accuratamente evitato di mettere in discussione il contenuto dei post presidenziali.

Qualche momento difficile Zuckerberg lo aveva passato anche quando esplose il caso dei dati venduti alla società Cambridge Analytica.

Ma all’inizio di queste settimana, quanto sta accadendo per le strade delle città statunitensi dove divampa la rivolta contro la brutalità della polizia,la pavidità del numero uno di Facebook,  ha cominciato ad essere contestata duramente ed apertamente sia dai dipendenti che da alcuni dirigenti

Lunedi scorso circa 400 operatori del social network hanno inscenato uno sciopero virtuale, due si sono licenziati per protesta ed altri hanno minacciato di farlo. Perfino alcuni manager di alto livello – una cosa mai accaduta prima – hanno manifestato apertamente le loro critiche per la decisione di Zuckerberg di non moderare la retorica di Trump.

Zuckerberg ha provato a difendere la sua decisione in una teleconferenza con i dipendenti durante la quale, a giudicare dagli estratti pubblicati da Vox.com ci sono registrati momenti di fortissima tensione.

Affermando di comprendere come la sua scelta avrebbe irritato molte persone, Zuckerberg ha spiegato di aver condotto ricerche approfondite sulla storia della frase di Trump e di averne trovato “problematiche” le implicazioni. Nondimeno, non ha ritenuto di dover prendere provvedimenti in quanto il contenuto non risultava etichettabile come incitamento alla violenza. “Questo episodio non vuol dire che Trump può dire quello che vuole o che lasceremo le autorità e i politici dire qualsiasi cosa vogliano”, ha chiarito Zuck. Semplicemente, a suo giudizio, non era questo il caso.

Secondo quanto riferiscono alcune fonti statunitensi riprese dall’agenzia Agi, le risposte alle domande dei dipendenti ha però assunto presto i connotati di un processo al numero uno di Facebook.

Zuckerberg, in imprevista ed evidente difficoltà, ha assicurato che, qualora la situazione di tensione sociale si prolungasse, Facebook potrebbe ricorrere a strumenti più articolati della semplice cancellazione di un post controverso come, ad esempio, l’etichettatura, cosa che appare paradossale in quanto si tratterebbe forse della prima volta in cui Facebook copia la piattaforma rivale Twitter e non viceversa.

E’ evidente come decidere di censurare o meno una frase del proprio capo di Stato sia una responsabilità politica enorme, ma la questione sembra ancora più oltre e riguarda la responsabilità dei social network sui contenuti condivisi attraverso di essi, ovvero la possibilità che le reti sociali assumano i connotati di vere e proprie aziende editoriali.

Ed è proprio su questo aspetto che incombe la modifica legislativa minacciata da Trump nel tentativo di rimettere in riga i giganti del “Big Data”. Quello che ha dimostrato di temere di più questo scenario (e le ipoteche sul business miliardario dei social network) è proprio Mark Zuckerberg.

Ma è evidente come quanto sta accadendo nelle strade degli Stati Uniti non possa che rimettere in discussione molti aspetti di un american way of life, che sarà sì fondato sulle storie di successo nel business, ma che è anche, e troppo spesso, lastricato del sangue e delle vite dei settori più deboli di una società fondata sulla primazìa e la brutalità dell’homo economicus.

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