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Afghanistan: verso il nuovo ordine talebano?

È chiaro che per prefigurare scenari ed ipotesi di evoluzione del Paese occorre andare indietro nel tempo, ampliare la visione degli attori che hanno storicamente giocato un ruolo nella regione da quarant’anni a questa parte, interrogando una storia che altrimenti appare indecifrabile.

Ne parleremo sabato 11 settembre a Roma, come Rete dei Comunisti, presso la Casa della Pace dalle 17.00 in poi https://contropiano.org/eventi/afghanistan-dal-ritiro-dellarmata-rossa-alla-fuga-degli-stati-uniti.

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Con la presa della Provincia del Panshir e la formazione – ancora non completata – del governo, il nuovo ordine Talebano prende forma in Afghanistan.

Cade quello che poteva essere una delle più insidiose spine nel fianco per gli studenti coranici che hanno agito tempestivamente, circondando la provincia ribelle, dalla quale Ahmad Massoud – figlio del “Leone del Panshir” – aveva lanciato insieme all’ex vice Presidente afghano Amrulla Saleh un appello alla resistenza, poco dopo la presa di Kabul, il 15 agosto.

Saleh e Massoud avevano rifiutato le trattative (o non avevano ritenuto accettabile il compromesso proposto) con i Talebani, cercando di alzare la posta per ciò che concerne la spartizione del potere, ponendosi come polo d’attrazione per la configurazione di una opposizione armata al nuovo regime. Ma hanno sbagliato la scommessa politica.

L’appello pubblicato dal Washington Post il 18 agosto, dopo essere stato diffuso dalla Revue du Jeu, aveva avuto una notevole sovraesposizione mediatica in tutta la stampa occidentale, con l’intervista telefonica di Bernard-Henri Lévy, che aveva “conquistato” da noi le prime pagine de La Repubblica.

Ora i due leader dell’autoproclamato Fronte di Resistenza Nazionale dell’Afghanistan sono in fuga, mentre l’altra figura di spicco, Fahim Dashty – salvatosi nel 2001 all’attentato che il 9 settembre era costato la vita a Massoud padre – e di fatto portavoce dell’autoproclamato Fronte, è stato ucciso. Le circostanze della sua morte non sono chiare, ed alcune fonti (strumentalmente o meno) accreditano l’ipotesi dell’uccisione da parte di un drone pakistano.

Dashty era una figura di primo piano della società afghana durante l’occupazione militare, in cui svolgeva la professione di giornalista ed aveva assunto un ruolo di leadership nelle associazioni della categoria.

Era legato ai due principali gruppi familiari che avevano dato vita alla cosiddetta “Alleanza del Nord”, una delle forze che aveva più dato filo da torcere ai sovietici ed aveva poi perso la guerra civile, ma aveva sempre mantenuto il suo bastione in quella parte del territorio che di fatto controllava anche durante i circa 5 anni di governo talebano.

Dashty era infatti nipote di Abdullah Abdullah, consigliere di Massoud padre, che ha ricoperto differenti ruoli governativi nell’Afghanistan sotto occupazione occidentale e recentemente, a Doha, si era incontrato con una altra figura di lungo corso della politica afghana, Gulbuddin Hekmatyar, leader di Hezb-e-Islami, il principale referente dei servizi segreti pakistani IIS – poi scaricato – nella guerra contro i sovietici e l’allora legittimo governo afghano, e poi per buona parte della guerra civile (1992-1996).

Massoud sembrava essere uno degli assi della manica per avvelenare i pozzi ai Talebani. Il suo profilo era emerso con forza in un’intervista di fine agosto del 2019 su France24, dopo che era rientrato in Afghanistan nel 2016, a conclusione di un lungo periodo di studi militari e politici presso istituti di prestigio britannici; prima a Sandhurst (dopo essere stato scartato da West Point a New York) e poi a Londra.

Va ricordato che aveva compiuto gli studi precedenti in Iran.

Un lancio della sua figura che avveniva poco dopo l’accordo, successivo a tre anni di trattative, nel febbraio del 2019 tra Trump e i Talebani a Doha nel Qatar.

Le sue parole di allora, si dimostreranno profetiche: “sfortunatamente il governo non è capace di continuare la lotta contro i talebani”, avvertendo che un ritiro precipitoso degli Stati Uniti avrebbe potuto portare ad un collasso delle forze di sicurezza afghane, dove la corruzione e la scarsa leadership rimanevano prevalenti, secondo quanto affermava allora.

E così è stato.

Ma nonostante la prevedibilità dell’evento, ed il fatto che non avesse scartato dall’inizio l’opzione militare (anzi si preparasse per questa), il figlio del più noto mujaheddin tagico non è riuscito a replicare le gesta del padre, il che dimostra l’assenza o la debolezza di un concreto appoggio esterno – l’M16 britannico era uno dei maggiori sponsor del padre, che verrà aiutato anche dalla Cia – e di un retroterra in cui ritirarsi.

Alcuni analisti sottolineano come l’ingrossarsi delle fila talebane con Uzbechi e Tagichi – cambiando la composizione etnica della formazione, prevalentemente Pashtun – potrebbe essere stato uno degli altri fattori vincenti.

Rimane sul campo l’altra opposizione armata di tipo jihadista, come l’ISIS, che ha mostrato già la propria capacità di colpire.

Per ciò che concerne la composizione del governo Talebano, di 33 membri, resa nota martedì pomeriggio durante una Conferenza Stampa trasmessa da Ariana News, alcune cose appaiono fin da subito chiare.

Prima di tutto la continuità con la storia degli studenti di teologia che emersero nel 1994 dal loro originale luogo di insediamento a Khandahar, grazie agli aiuti Pakistani e dell’allora presidente Burhanuddin Rabbani, ucciso nel settembre del 2011 insieme ad altri quattro membri dell’Alto Consiglio di Pace dell’Afghanistan, dieci anni dopo essere rientrato dal suo esilio con l’occupazione militare occidentale.

Una continuità assicurata da esponenti e figli della dirigenza talebana delle origini e del loro periodo governativo, nonché da coloro che hanno diretto la resistenza armata contro l’occupante.

Il Capo del governo, Mohammed Hasan Akhund, e quindi massima figura dell’Emirato, è stato ministro degli esteri e Primo ministro dal 1996 al 2001, e stretto aiutante del Mullah Omar.

È altresì il capo dell’organismo dirigenziale talebano, la Rehbari Shura, ed è all’interno della lista delle persone sanzionate dalle Nazioni Unite.

Abdul Ghani Baradar, capo dell’ufficio politico, e capo delegazione a Doha, sarà il Deputy leader, mentre Sirajuddin Haqqani, figlio del fondatore del cosiddetto Network Haqqani, storicamente vicino ad Al Qaeda, sarà il ministro degli interni.

Sirajuddin è ufficialmente uno degli uomini più ricercati dall’FBI, e sulla sua testa pende una taglia di 5 miliardi di dollari. Il ruolo degli Haqqani è stato centrale nella presa di Kabul, e la funzione accordatagli certifica il peso che tale Rete avrà nel futuro assetto di potere.

Il figlio del Mullah Omar, il mullah Mohammed Yaqoob, sarà ministro della Difesa, mentre agli Esteri andrà Amir Khan Muttaqui, tra i negoziatori a Doha.

I ministeri economici chiave – finanze, economia, e banca centrale – sono andati a Hedayatullah Badri, Mohammed Hanif ed al Mullah Mohammed Idriss.

Fino ad ora non è stata designata nessuna personalità politica che abbia avuto un ruolo nei venti anni di occupazione, segno che l’equazione politica è stata risolta puntando a non inimicarsi la propria base combattente piuttosto che a mostrare qualche volto conosciuto e relativamente rassicurante per l’Occidente.

Tra le figure nominate, in cui non vi è alcuna donna, la predominanza (ma non la totalità) dei ministri proviene da famiglie Pashtun, anche se i Talebani hanno assicurato che completeranno la lista in maniera il più possibile inclusiva, è chiaro che in questa prima fase l’obbiettivo principale era bilanciare il più possibile le componenti al proprio interno, piuttosto che rispettare la complessità etnica del Paese.

Per un Paese che vive principalmente di aiuti dall’estero, che ha visto i propri asset congelati e le linee di credito sospese, e drasticamente calata la propria autosufficienza alimentare – l’unica coltivazione aumentata è quella del papavero da oppio – sarà dirimente capire il livello di legittimità che la comunità internazionale darà alla sua nuova leadership, specialmente per quegli attori che sembrano più disposti, con le dovute cautele, a riconoscere il nuovo corso politico a Kabul.

Il Pakistan è il Paese più incline verso questa scelta, ma ha chiarito che ci dev’essere un assunzione di responsabilità a livello regionale.

La Cina è il Paese su cui gli studenti coranici puntano probabilmente di più per gli aiuti economici, e che insieme alla Russia – comunque estremamente prudente ed incline a verificare soprattutto gli atti e non solo le dichiarazioni – hanno mantenuto proprie rappresentanze diplomatiche in loco.

Il Qatar e la Turchia, di fatto intermediatori tra USA e Talebani, stanno già esercitando un ruolo importante lavorando tra l’altro per il ripristino della piena operatività dell’aereoporto di Kabul. L’Iran che ha ben presto incominciato a vendere petrolio ai Talebani, e che sembra avere ricevuto sufficienti garanzie per ciò che concerne la minoranza sciita nel Paese, sembra anch’essa avviata ad un riconoscimento.

L’Occidente è costretto a trattare e a cooperare in una certa misura con i Talebani, ma un riconoscimento formale sembra di là da venire.

In questo gioco diplomatico è chiaro che due elementi saranno importanti: da un lato la capacità di ricattare economicamente un paese allo stremo dal punto di vista economico, che si giocheranno le potenze occidentali, in particolare gli USA – che hanno ancora del personale in Afghanistan, ma che deve uscire dal Paese – e la questione dei profughi, per ora ospitati principalmente in Pakistan ed in Iran, oltre che temporaneamente in alcune delle ex repubbliche sovietiche.

A qualche giorno dall’11 settembre, per una vasta fetta dell’opinione pubblica in Occidente sembra comunque non facilmente metabolizzabile  la sconfitta subita sul campo in Afghanistan ed il fatto che a Kabul sono tornati a comandare gli stessi – anche fisicamente – che avevano governato il Paese ed erano stati tra i primi obiettivi della “guerra al terrore”.

Ma la catastrofe militare ha mostrato con forza quanto fossero spudorate le menzogne che avevano caratterizzato la narrazione ufficiale della più lunga guerra statunitense e dell’Alleanza Atlantica.

I fattori di criticità permangono, nonostante la vittoria nel Panshir, che segna comunque una discontinuità nella storia del Paese degli ultimi 40 anni, e l’equilibrio trovato tra le varie componenti dei Talebani, dovuto sia a fattori interni – come la possibile escalation della galassia jihadista anti-talebana – e le mobilitazioni contro il Nuovo Ordine Talebano specie nelle aeree urbane, sia a fattori esterni come le relazioni internazionali.

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