Oggi si tengono le elezioni in Brasile. 156 milioni di cittadini brasiliani sono chiamati alle elezioni presidenziali, politiche ed amministrative.
Verranno rinnovati la totalità dei membri della Camera dei deputati (513), un terzo dei posti dei senatori (81), e la totalità dei posti di governatori e delle 27 assemblee regionali del vasto paese federale.
Gli organi governativi dei singoli Stati godono di un’ampia autonomia decisionale con prerogative che vanno dalle scelte rispetto all’educazione, alla sanità fino alla gestione dell’ordine pubblico.
Tranne che per le elezioni presidenziali, l’incertezza è la cifra di chi si reca alle urne: il 23 settembre il sito d’informazione Congreso em Foco riportava che un elettore su due era indeciso per chi votare.
Per ciò che riguarda i governatori, l’elezione più significativa è senz’altro quella dello Stato di San Paolo, il più ricco della Federazione, che genera un terzo del Pil del Paese.
Una competizione aspra che vede contrapporsi il candidato del PT ed ex candidato presidenziale, Fernando Haddad, e Tarcisio de Freitas, ex ministro delle infrastrutture di Jair Bolsonaro, proveniente dall’estrema destra, cui si aggiunge Rodrigo Garcia del Partito Social Democratico Brasiliano, formazione che si colloca a destra.
Nonostante il vantaggio del candidato del PT, si prefigura un ballottaggio serrato visto che lo Stato di San Paolo concentra una gran parte dell’élite conservatrice brasiliana che rifiuta profondamente il PT e la sinistra.
In altri due grandi stati del Brasile (Minas Gerais e Rio de Janeiro) i candidati vicini a Bolsonaro sono dati per vincitori, mentre la coalizione guidata dal PT sembra poter trionfare nel resto degli Stati.
Marco Antonio Carvalho, ricercatore della Fondazione Getulio Vargas, prevede: «19 governatori favorevoli a Lula, e 8 a Bolsonaro».
Ma soprattutto i brasiliani sono chiamati a decidere quale sarà il futuro presidente.
Da un lato, sostenuto da una coalizione di centro-sinistra composta da 9 partiti (oltre al PT ci sono PSB, PCoB, PV, rede, PSOL, Avanti, Agir, Prosò e SDD), vi è Luiz Incacio Lula da Silva, per due volte a capo del paese latino-americano (2003-2011), dall’altra il presidente uscente Jair Bolsonaro.
Stando all’ultimo sondaggio dell’istituto Datafolha, Lula otterrebbe il 50% dei voti, mentre il suo sfidante di estrema destra il 36%.
Ciro Gomez (PDT), e Sigme Tebet (Movimento Democratico Brasiliano) – il primo di centro-sinistra e il secondo di centro-destra -, sono dati rispettivamente entro una forbice che va dal 6 al 4%, e dallo 0 all’1%.
In generale la logica bipolare ha monopolizzato l’attuale campagna elettorale per le presidenziali senza che nessuno dei 9 candidati, tranne Gomez, diventasse significativo.
Quest’ultimo, un tempo vicino a Lula, ha condotto una campagna dai toni denigratori contro il leader del PT, aveva ottenuto il 12,47% dei suffragi nel 2018, classificandosi al terzo posto dietro Bolsonaro e Haddad.
Come ha dichiarato a “Le Monde” il politologo Thomas Trauma: «nessun candidato è riuscito ad emergere. É normale: sono stati presi nella tenaglia tra due “giganti” molto conosciuti e popolari. La terza via non ha trovato seguito, se non tra le élite agiate di Rio e San Paolo».
Segno, aggiungiamo noi, di un Paese profondamente polarizzato dove tertium non datur.
Nell’ultimo duello televisivo di tre ore a GLOBO in cui hanno partecipato 7 degli 11 sfidanti in lizza, seguito da decine di milioni di spettatori, entrambi i contendenti hanno usato la spada e non il fioretto: Lula ha accusato Bolsonaro di mentire, perché quest’ultimo gli aveva dato all’altro del corrotto.
Tra gli elettori più decisi, secondo un sondaggio di Ipespe, il 90% sono quelli che esprimeranno la propria preferenza per Lula, che può quindi contare su uno zoccolo di elettori convinti.
Se l’ex operaio metalmeccanico – che ha passato ingiustamente 580 giorni in prigione dal 2018 al 2019 prima dell’annullamento da parte della Corte Suprema (per vizio di forma delle discusse condanne per corruzione dello “scandalo Petrobas”) – ottenesse il 50% più uno dei consensi, vincerebbe al primo turno.
In caso contrario si andrebbe al ballottaggio il 30 ottobre, con il suo sfidante che partirebbe con una notevole base di svantaggio, ma probabilmente disposto a tutto per ribaltare il risultato ed allontanare i suoi possibili guai giudiziari.
L’ex sindacalista e figura carismatica del PT ha condotto una campagna centrista e “centralizzatrice”, relativamente incolore, che si è potuta poggiare sugli evidenti disastri della gestione Bolsonaro, e sulle conquiste degli anni della sua presidenza, nonché sul benestare di importante attori internazionali, tra cui “i mercati”, come ricordato ultimamente dal Sole24Ore, che vedono in Lula un fattore di stabilizzazione, a differenza del suo sfidante.
Bolsonaro, che ha comunque un compatto blocco sociale dietro di lui composto dalle potenti chiesi evangeliche, dall’agro-business e dalle alte gerarchie dell’esercito – le cosiddette tre B (“BBB”) -, ha cercato di “smorzare” i toni del suo eloquio cercando di accreditarsi come un politico conservatore, senza riscuotere particolare successo sia in Patria che altrove.
Oltre a questo ha cercato di promuovere una serie di misure per alleviare la crisi devastante che sta colpendo il paese, alzando le prestazioni sociali minimali, promuovendo delle sovvenzioni per il caro-energia, abbassando le tasse, costringendo il gigante petrolifero Petrobas a rivedere al ribasso le proprie tariffe, con il prezzo della benzina di poco inferiore all’euro a metà settembre.
Nonostante questa combinazione, il 52% dei brasiliani, sempre secondo un sondaggio condotto da Datafolha, non voteranno in alcun caso per Bolsonaro, mentre Lula ha ricevuto il sostegno di 9 ex presidenti brasiliani di differenti compagni politiche e l’assicurazione che Washington accetterà l’esito delle urne.
La Casa Bianca “segue da vicino” l’elezione brasiliana, ed il Senato ha votato una risoluzione, proposta da Bernie Sanders, appellandosi al rispetto del processo democratico.
Ma su questo ci riserviamo ovviamente il beneficio del dubbio, anche se pesa non poco per Washington il fatto che il Brasile di Bolsonaro non si sia sostanzialmente allineato alla crociata anti-russa in Ucraina.
In questa situazione sembra estremamente difficile che il 15% degli indecisi venga conquistato dal presidente uscente.
Claudio Couto, della Fondazione Getulio Vargas, afferma sul quotidiano spagnolo “El País”, riferendosi all’appoggio delle classe popolari a Lula: «L’appoggio dei poveri deriva dalle politiche sociali del periodo Lula, più positive per questi settori della popolazione. I più poveri accedettero alla casa, all’elettricità, all’istruzione e ad aiuti sociali in denaro. Questo ha portato un ricordo molto positivo». E continua «esiste una percezione sociale per la quale durante il governo del PT ci fu un calo della disuguaglianza sociale grazie all’ascesa dei poveri».
I disastri di Bolsonaro sono molteplici e hanno spinto anche chi si era precedentemente allontanato da Lula, per così dire “rompendo a sinistra”, a dargli l’appoggio.
Tra questo l’esempio più eclatante è quello di Marina Silva, emblematica ministra dell’ambiente durante la prima presidenza Lula (2003-2008), che ruppe con lui proprio sulla questione della tutela dell’ambiente – che giudicava, non a torto, insufficiente – e si era presentata per tre volte alle presidenziali, rappresentando una sorta di “terza via”.
«Bolsonaro può essere considerato un criminale», ha affermato la Silva, «è colpevole di una devastazione drammatica della natura, di attacchi senza precedenti ai popoli indigeni, ma anche della distruzione delle nostre istituzioni democratiche, del nostro tessuto sociale, senza parlare dei milioni di poveri e delle centinaia di migliaia di vittime della crisi del Covid-19».
686.000 morti per Covid – il paese che ha pagato più di tutti, dopo gli Stati Uniti – , una disoccupazione al 15%, il 15% della popolazione che soffre la fame, un’inflazione galoppante che va incidere sui prodotti di prima necessità – più del 13% su base annua ad agosto – sono stati alcuni degli aspetti più negativi della gestione Bolsonaro.
Infatti, nonostante i toni entusiastici del ministro dell’economia Paul Guedes – un “Chicago boy” formatosi nelle migliori scuole monetariste e neo-liberali degli Stati Uniti – sulle ultime performance del Paese (si tratta di un banale e transitorio “rimbalzo”), il Brasile è in crisi profonda dal 2013. Il PIL paese è paragonabile a quello dell’Italia, sebbene abbia 4 volte gli abitanti del nostro paese.
Come scrive “Mediapart” in una recente analisi della politica economica di Bolsonaro: «Quest’ultimo ha fatto adottare nell’ottobre del 2019 una riforma delle pensioni estremamente violenta che prevedeva circa 20 miliardi di dollari di tagli per per dieci anni. La Costituzione è stata cambiata per ridurre strutturalmente le spese statali, circa 23 miliardi di dollari di attivi pubblici sono stati privatizzati ed una nuova onda di deregolamentazione è stata imposta. Il governo ha allo stesso tempo usato il pretesto della crisi del Coronavirus per ridurre i diritti dei lavoratori».
Insomma, il prontuario della politica neo-liberista accoppiato alla torsione autoritaria che ha portato il Paese al collasso, soprattutto tenuto conto che l’economia è basata sull’export verso Cina e USA, in un periodo di forza contrazione economica a livello mondiale, potrebbe rivelarsi deleteria.
Una vittoria di Lula, al primo turno o al ballottaggio, avverrebbe in un contesto in cui un varie coalizioni progressiste hanno vinto le elezioni e governano – non senza difficoltà – i rispettivi paesi in America Latina. E, aspetto non secondario, stanno dando vita a rinate od inedite forme di cooperazione a vari livelli, che possono rendere il continente più autonomo dalle pretese egemoniche statunitensi e dal neo-colonialismo della UE.
Quello per Lula, e quindi per la coalizione che lo sostiene, animata anche da forze a sinistra del PT, è l’unico voto utile e necessario per rendere possibile un cambio di rotta al Paese, ed all’America Latina, anche se non sono da escludere a priori “colpi di coda” di un vasto blocco di potere che ha reso possibile la vittoria di Bolsonaro ed ha visto promossi i propri interessi dall’ex militare para-fascista.
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Mauro
Ma se vince Lula che farà abbandonerà il B.R.I.C.S. ed invierà armi ed aiuti all’Ucraina? Altrimenti dura poco…