I nodi al pettine
La crisi di Alitalia a soli cinque anni dalla sua cessione ai soci privati della CAI, la contestuale vicenda della svendita di Telecom alla spagnola Telefonica, così come il nuovo pacchetto di privatizzazioni annunciato dal Governo Letta (dall’Eni alla Fincantieri ma in prospettiva anche Terna, Poste e Rai) riaccendono i riflettori sulle vicende lontane e più recenti dei processi di privatizzazione in salsa italiana.
Il piano annunciato da Letta conferma un processo di svendita di pezzi di estrema importanza nella struttura economica del nostro paese, si tratta di aziende che rivestono funzioni strategiche sia in proprio sia di supporto all’intero tessuto produttivo; con la solita retorica della riduzione del debito pubblico si mette una ulteriore ipoteca alle già esistenti “debolezze” strutturali dell’economia italiana (dalla questione energetica alla tenuta dell’export). A riprova di questo riportiamo l’elenco delle privatizzazioni finora annunciate e i settori di competenza:
– ENI (energia, petrolio e gas)
– CDP RETI (infrastrutture della rete gas metano nazionale)
– TAG (gestione della rete gas dalla Russia)
– GRANDI STAZIONI (gestione delle principali stazioni ferroviarie con 1,5 milioni di mq di immobili)
– ENAV (gestione del traffico aereo)
– SACE (assicurazioni per le aziende orientate all’export)
– FINCANTIERI (cantieristica navale, orientata come mercato soprattutto all’export)
– STM (microelettronica avanzata)
Con questa nuova ondata di privatizzazioni il Governo Letta annuncia di voler raggiungere la cifra di 10/12 miliardi di euro che si aggiungono così ai 157 miliardi delle precedenti privatizzazioni.
Con questa scheda vogliamo fare il punto su questi processi partiti alla fine degli anni ’80 e portati avanti fino ad oggi con convinzione dai vari Governi di centrodestra e di centrosinistra degli ultimi venticinque anni.
La condanna dell’economia italiana
In Italia, a partire dagli anni 30 e con una ulteriore spinta nel dopoguerra, l’intervento pubblico in economia ha caratterizzato il nostro paese rispetto al resto dei paesi europei. La forte presenza dello Stato e del pubblico in generale nell’economia rispondeva anche all’esigenza di compensare o addirittura di sostituire in alcuni casi l’economia privata (caratterizzata da una parte dalla diffusione delle imprese di piccole dimensioni e dall’altra da un capitalismo di tipo familistico) ma anche di svolgere un ruolo di “ammortizzatore” sociale e politico delle rivendicazioni del movimento dei lavoratori. Ruolo che viene mantenuto fino agli anni ‘80 quando viene invece avviata la riduzione della presenza dello “Stato imprenditore”, e tutto questo insieme ad un vasto processo di privatizzazione e di aziendalizzazione dello stesso welfare pubblico.
I processi di privatizzazione sono stati falsamente giustificati con:
– una esaltazione delle magnifiche potenzialità di una gestione privata rispetto alla gestione pubblica (invece di liberarsi dalla gestione dei corrotti e malavitosi ci si è liberati delle stesse proprietà pubbliche, sostituendo una dirigenza pubblica spesso politico-clientelare con una imprenditoria incompetente e/o arraffona);
– la supposta convenienza a vendere il patrimonio pubblico per reperire risorse da utilizzare per la riduzione del debito pubblico (e come sappiamo il problema non è stato affatto risolto con queste operazioni);
– la necessità di rafforzare il mercato finanziario per stimolare l’economia, dalla privatizzazione delle banche pubbliche alla trasformazione delle aziende pubbliche in spa, fino alla vendita delle azioni in borsa (ma l’allargamento dell’economia finanziaria e speculativa come sappiamo non ha prodotto un ritorno di investimenti sulla produzione).
Fino all’inizio degli anni ‘90 il sistema pubblico aveva un peso enorme nell’economia italiana e rappresentava circa il 20% dell’occupazione. Il sistema economico pubblico era composto da aziende direttamente di proprietà statale e di “partecipazione statale”, mentre a livello locale si erano sviluppate le aziende autonome, municipali e speciali.
I processi di privatizzazione si articolarono e continuano a dispiegarsi nei diversi settori del sistema pubblico, intrecciati tra di loro, ma che possiamo schematicamente raggruppare nelle seguenti aree:
GRANDI SOCIETA’ – HOLDING PUBBLICHE: a partire dai grandi gruppi IRI, ENI e EFIM, il Ministero delle Partecipazioni Statali interveniva nei settori energetico, industriale, minerario, telecomunicazioni, infrastrutture e trasporti; per citarne alcune di queste aziende (trasformate in spa, o già dismesse o spezzettate) dalla Finmeccanica, Stet, Finmare, SME, Agip, Finsiel, Sofin, Ilva, Iritecna, alla Fincantieri, Cementir, Alitalia, Società Autostrade, Rai, Spi, Iritech;
ENTI PUBBLICI NAZIONALI: come
IMPRESE SPECIALI: dipendenti da diversi ministeri come FS (trasporti ferrovieri e comunicazioni), Poste Italiane (comunicazioni e risparmio), ANAS (rete stradale);
SERVIZI PUBBLICI LOCALI: come le società prima municipali e successivamente trasformate in spa, che coprono tutta una vasta gamma di servizi essenziali (trasporti, energia, acqua, gas, rifiuti …), società che oggi trasformandosi in spa e fondendosi raggiungono ampiezze regionali e interregionali; la privatizzazione è anche incentivata centralmente dai “Patti di stabilità”;
SISTEMA BANCARIO: fino all’inizio degli anni 90, oltre alle grandi Banche nazionali pubbliche, vi era un tessuto creditizio pubblico ed esteso, dall’Istituto S. Paolo di Torino, Monte dei Paschi, Banco di Napoli, Banco di Sicilia, Banca Commerciale Italiana, Credito Italiano, Banco di Roma, alle varie Casse di Risparmio;
PATRIMONIO PUBBLICO IMMOBILIARE: si tratta del grande patrimonio composto di edifici e terreni, dal demanio all’edilizia residenziale (sia dei dipendenti dei vari enti, sia quella popolare ERP), di proprietà dello Stato, enti pubblici, Comuni, Asl, enti previdenziali e Università. Dagli anni 2000 si è utilizzata la cosiddetta “cartolarizzazione” cioè la vendita dei beni a società appositamente dedicate alla gestione e vendita degli stessi con forte spreco di risorse e grave impatto sul problema abitativo.
Una radicalità privatizzante
Mentre in altri paesi europei come Francia e Germania si è mantenuto un certo connubio tra l’imprenditoria pubblica e quella privata, in Italia si è realizzato negli anni un vero e proprio smantellamento dell’economia mista. Una accelerazione facilitata dall’ondata di scandali degli anni 90 (Tangentopoli e inchiesta “Mani pulite”) che metteva in evidenza il connubio tra politica partitica, economia e clientelismo anche criminale, lo stesso Ministero delle Partecipazioni Statali con referendum abrogativo, viene soppresso nel 1993.
Una radicalità che si è espressa soprattutto anche grazie ad un liberismo spinto fatto proprio dallo schieramento di centro sinistra PDS-PD e dalla voracità di un padronato che non ha perso l’occasione per accaparrarsi pezzi di economia che consentissero rendite di posizione assicurate (esempio più classico i Benetton con le autostrade). Nulla di più diverso dal fantomatico modello di “azionariato diffuso” (compresa la partecipazione azionaria all’azienda degli stessi lavoratori) tanto amate anche all’interno di certa sinistra: in Italia si assiste al posto del ventilato allargamento della base azionaria all’accaparramento da parte di alcuni gruppi finanziari (prima italiani e poi esteri) e delle grandi famiglie del padronato italiano.
L’accaparramento da parte del padronato di pezzi importanti e strategici dell’economia italiana ha ampliato ulteriormente la capacità di condizionamento politico ed economico del paese: si è chiesto e ottenuto che insieme alla privatizzazione dei settori pubblici si avviasse una complementare deregolamentazione e liberalizzazione a favore della crescita, dalle nuove posizioni acquisite, di nuove rendite e di nuovi profitti privati, tutto a spese della collettività. Si crea quindi un intreccio tra vari processi e modalità:
A. PRIVATIZZAZIONE SOSTANZIALE nel caso in cui la gestione dell’impresa viene assunta totalmente dai privati, ossia si attua un vero e proprio trasferimento della proprietà dall’azienda pubblica al settore privato. La principale differenza tra la privatizzazione sostanziale e le altre forme di privatizzazione è che in questo caso il privato diviene a tutti gli effetti titolare della proprietà. Il trasferimento della proprietà può essere totale o parziale ed interessare una quota di maggioranza o di minoranza;
B. PRIVATIZZAZIONE INDIRETTA nel caso che l’attività dell’impresa viene solo modificata per consentire una gestione più vicina alle compatibilità del mercato. Sono le forme di privatizzazione che mirano alla trasformazione delle modalità di gestione delle imprese pubbliche e dei settori pubblici lasciando però inalterata almeno formalmente la proprietà. Tra i principali interventi di privatizzazione indiretta vanno ricordati:
1. L’apertura del monopolio alla concorrenza: questo tipo di privatizzazione attua la rimozione delle barriere istituzionali (leggi e regole) per permette ai privati di intervenire nel mercato con profitto (l’utente/cittadino si trova a scegliere fra l’offerta pubblica e quella privata).
2. La deregolamentazione: questa modalità di privatizzazione consiste in qualsiasi tentativo di ridurre le limitazioni esistenti per una liberalizzazione dei mercati e l’eliminazione dei “privilegi” a favore dell’impresa pubblica. Vi è un abbattimento delle regole in un determinato settore produttivo che sono a vantaggio del settore pubblico o di particolari settori privati che operano in regime di quasi-monopolio o comunque in situazioni che ostacolerebbero la libera concorrenza (esempio gas ed energia). La deregolamentazione prevede l’abolizione del regime dei controlli dei prezzi, dei divieti di accordi tra imprese, delle licenze ed autorizzazioni: si tratta delle liberalizzazioni promosse anche dall’allora ministro Bersani (dagli orari e festivi nel commercio alle licenze taxi). Sottolineiamo che una delle principali deregolamentazioni riguarda il “mercato del lavoro” con la cancellazione delle cosiddette rigidità e tutele (dal Pacchetto Treu, Legge 30, Collegato Lavoro e Riforma Fornero).
3. La modificazione delle modalità di accesso e di acquisto di beni e servizi: il pagamento diretto all’atto del “consumo” sostituisce il pagamento indiretto prima garantito attraverso l’imposizione fiscale, quello che prima era ricompreso nel pagamento di tasse diventa un “rimborso”, un ticket da pagare ad integrazione, oppure un voucher (o “buono”). Sono modalità attraverso le quali l’amministrazione pubblica rimborsa l’utente del prezzo pagato per un servizio: gli utenti potranno in questo caso utilizzare i loro buoni per coprire parte del costo o per comprare il servizio privatamente.
4. La privatizzazione incrementale: quando una società pubblica aumenta il capitale azionario dell’impresa con l’ingresso di privati nella proprietà, da sottolineare che anche se la maggioranza delle azioni rimane pubblica si possono avere “patti” societari che stabiliscono che la gestione effettiva sia in mano ai soci privati anche se formalmente minoritari.
5. La privatizzazione fredda o aziendalizzazione: vengono introdotti obiettivi di tipo privatistico nella gestione delle aziende pubbliche, trasformate le modalità di conduzione delle imprese stesse. Non vi è il trasferimento di proprietà ma una autonomizzazione decisionale dell’impresa finalizzata a logiche privatistiche; le strategie dell’impresa non sono rivolte al bene pubblico ma al risultato aziendale oppure l’attività stessa dell’ente è prioritariamente rivolta a sostenere il mercato e gli interessi privati, anche le condizioni occupazionali, contrattuali e salariali si adeguano al modello privato.
6. La privatizzazione formale: quando una azienda pubblica viene trasformata in società di “diritto privato” e quindi viene assoggettata alle regole economiche e giuridiche di una azienda privata anche se la proprietà e il capitale societario rimane ancora pubblica (spesso è una fase preparatoria della successiva cessione ai privati). Questo metodo consente alle imprese di operare secondo le regole del diritto privato pur avendo come principale azionista lo Stato o le pubbliche amministrazioni (es. trasformazioni in società per azioni).
7. La privatizzazione funzionale o esternalizzazione: le imprese private che diventano “corresponsabili” di settori di attività gestiti in precedenza solo dall’operatore pubblico. Il pubblico delega interamente o parzialmente una determinata attività al settore privato pur mantenendo formalmente la responsabilità di controllo dei risultati: è il caso delle esternalizzazioni tramite il sistema degli appalti o tramite concessioni, project financing (esempio la realizzazione e gestione di beni o servizi tramite progetti finanziati dai privati in cambio di una concessione sugli utili), accreditamento di servizi (servizi totalmente privati rivolti ad una utenza che vi accede tramite canali pubblici). E’ nella privatizzazione del welfare che molto spesso viene applicata questa modalità.
Gli effetti delle privatizzazioni
Nell’attuazione concreta dei processi di privatizzazione e delle dismissioni hanno prodotto varie conseguenze che possiamo schematicamente riassumere in:
– indebolimento complessivo del tessuto e del sistema economico e produttivo e deperimento della qualità nei servizi pubblici;
– peggioramento delle condizioni di lavoro con crescita della precarietà e della disoccupazione;
– incremento delle tariffe e dei costi per i settori popolari.
Il primo effetto è un indebolimento del sistema economico e produttivo del paese: l’economia pubblica compensava le carenze strutturali dell’impresa privata e del capitalismo in salsa italiana, con l’evidenziarsi della crisi sistemica, la mancanza del controllo pubblico dei settori strategici (energia, trasporti, comunicazioni, credito) favorisce i processi di deindustrializzazione e le acquisizioni da parte delle multinazionali europee e non solo.
Due esempi: la mancanza di un controllo pubblico sulla produzione, distribuzione e le tariffe dell’energia elettrica sfavorisce interi settori industriali (come si è evidenziato per la vicenda della ALCOA, industria di alluminio ex azienda del gruppo pubblico EFIM); la privatizzazione del sistema bancario non permette oggi un vero intervento di apertura del credito per le medie e piccole imprese.
Assolutamente non secondario l’effetto sul lavoro e sui diritti dei lavoratori nel loro complesso: nelle aziende privatizzate si attuano processi di “snellimento” e di spezzettamento della forza lavoro con cessioni e trasferimenti di rami d’azienda, esternalizzazioni tramite appalti, modifiche peggiorative della contrattazione collettiva, per finire con la messa in mobilità, licenziamenti e addirittura la creazione di “bad company” come nel caso di Alitalia.
Questo relativamente rapido peggioramento di una fetta così ampia della composizione del lavoro dipendente in Italia (circa il 20%) non ha effetti solo sui “diretti interessati” ma genera a catena un abbassamento complessivo delle tutele e delle condizioni lavorative anche nei restanti settori privati con i processi di precarizzazione del lavoro che conosciamo. La perdita di capacità professionali e tecniche di lavoratori anche altamente specializzate porterà anche a pesanti ricadute nella qualità dei servizi.
Altro effetto dei processi di privatizzazione soprattutto nei settori strategici dei servizi riguarda le tariffe: come evidenziato anche in vari rapporti delle autority di settore e dalla stessa Corte dei Conti si è assistito ad un aumento complessivo delle tariffe; ad eccezione del settore delle comunicazioni e l’andamento altalenante dell’energia elettrica (per le tariffe di maggior tutela), vi è stato un incremento delle tariffe (gas, acqua, trasporti…) che è ricaduto sulle spalle dei lavoratori e dei settori popolari.
Se negli anni ’90, nella stagione della concertazione (la cosiddetta Politica dei Redditi), le aziende pubbliche erano chiamate a calmierare i prezzi, successivamente le stesse aziende privatizzate o aziendalizzate hanno potuto attuare aumenti considerevoli (senza neppure fare gli investimenti e le innovazioni promesse); mentre in altri casi la liberalizzazione e deregolamentazione dei settori ha innescato una gara al ribasso e sottocosto delle tariffe contribuendo alla crisi delle stesse imprese italiane a favore di quelle estere.
Privatizzazioni e Unione Europea
A partire dagli anni ’80 il FMI (Fondo Monetario Internazionale) imponeva ai cosiddetti “paesi in via di sviluppo” le privatizzazioni delle proprie economie e delle risorse ambientali tramite i Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAPs), questo in nome del risanamento e della riduzione dei debiti e per concessione di nuovi crediti internazionali. Tali ricette di rapina si trasformarono in un saccheggio di risorse e a vantaggio delle multinazionali e dei capitali dei paesi “sviluppati”.
Il processo di costituzione dell’Europolo e dell’Unione Europea (a partire dal Mercato Unico Europeo del 1992), nell’ambito dell’accresciuta competizione internazionale, importa un simile modello anche all’interno delle politiche comunitarie europee, dove il sud del mondo viene “sostituito” con il sud dell’Europa (i paesi PIIGS: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna).
Anche con le norme contro gli “aiuti di Stato alle imprese” e gli obblighi a incentivare il libero mercato e la concorrenza, vengono imposte politiche di “aggiustamento” anche qui ora centrate sulla riduzione del debito pubblico, dismissione del sistema economico pubblico, liberalizzazioni e privatizzazioni. Politiche che come successo per i paesi in via di sviluppo sommano a precedenti deficienze strutturali nuovi vincoli e problemi.
L’Italia, partendo da un livello alto di partecipazione pubblica, si è distinta nel processo di dismissione superando negli incassi da “privatizzazione” paesi riconosciuti come iperliberisti come
Politiche di privatizzazione e liberalizzazione accettate e sostenute dai vari governi che si sono succeduti dagli anni ’90 ad oggi, con una maggiore efficienza soprattutto di quelli a guida centrosinistra (basti pensare al consenso alle politiche liberiste contenute nella Direttiva UE Bolkestein-Prodi e ai nostrani Decreti Bersani).
I recenti Governi tecnici e di larghe intese confermano e rilanciano tali politiche, che vengono rafforzate dai meccanismi di controllo diretto, vero e proprio commissariamento delle politiche economiche, stabilite nei Fiscal Compact (Trattato sulla stabilità, coordinamento e governance nell’unione economica e monetaria del 2012). Anche le ultime “raccomandazioni” del Consiglio dell’Unione Europea all’Italia danno come “compitino” una ulteriore sventagliata di liberalizzazioni dei mercati dei servizi essenziali e soprattutto dei servizi pubblici locali (trasporti, gas, energia, comunicazioni). A queste si aggiungono i vincoli introdotti con la cosiddetta “spending review” ad una efficiente gestione delle società partecipate e pubbliche.
Due esemplari storie di privatizzazione: i casi Alitalia e Telecom
ALITALIA: dalla prima privatizzazione al fallimento del Progetto Fenice
Alitalia, prima tramite l’IRI poi direttamente con il Ministero del Tesoro, fino al 1996 era al 86% pubblica: con il Governo Prodi si avvia la privatizzazione e la cessione del 37% delle azioni. Dieci anni dopo, nel 2006, sempre un Governo Prodi lancia un bando di vendita della quota di maggioranza ma senza arrivare all’assegnazione delle quote, è lo stesso Governo a puntare sulla trattativa diretta con Air France.
Nel 2008 Alitalia accetta l’offerta Air France (1,7 miliardi di euro) che prevede esuberi e licenziamenti per oltre 2000 lavoratori ma con la caduta di Prodi e la successione di Berlusconi l’azienda francese si ritira per cedere il passo ad una cordata di “imprenditori patrioti” sponsorizzata dallo stesso Berlusconi apertamente contrario alla vendita ad Air France.
Gli imprenditori “patrioti” – che ricordiamo essere i soliti noti Benetton, Riva, Ligresti, Marcegaglia, Caltagirone, Gavio e Marco Tronchetti Provera – creano (insieme alla Banca Intesa San Paolo che con questa operazione salva i suoi crediti) la nuova società CAI (Compagnia Aerea Italia) presieduta dal noto Roberto Colaninno. Alla fine di agosto scatta il commissariamento di Alitalia con a capo Fantozzi, questo permette la non applicazione delle tutele previste per i lavoratori nei casi di trasferimento e cessione di azienda, (art. 2112 c.c.) ed infatti la neo società CAI acquista solo la parte sana e il marchio Alitalia e di Air One, attua un licenziamento di massa e scarica i debiti sulla vecchia Alitalia che rimane pubblica e che viene messa in liquidazione (questa operazione viene battezzata “Piano Fenice”). Gli stessi lavoratori “superstiti” verranno assunti dalla CAI attraverso una selezione padronale e arbitraria.
Contro tutto questo, e la linea complice di CGIL-CISL-UIL, si apre una mobilitazione sindacale che vede in prima fila
Successivamente
E’ in questo scenario che avanza l’ipotesi dell’acquisizione della maggioranza delle azioni dell’Alitalia da parte di Air France – KLM, delle contro proposte con l’intervento delle Ferrovie italiane prima e poi di Poste Italiane per una operazione di salvataggio che ha il sapore di un regolamento di conti e di tentativo di voler salvare piuttosto gli investimenti dei privati che l’attività di Alitalia e che apre un orizzonte fatto di ulteriori tagli a salari, diritti e occupazione.
A parte le inchieste in corso sulle vicende e i protagonisti della Operazione Fenice, le stime delle perdite sociali di questa operazione non sono facilmente calcolabili: per la sola parte contabile, escludendo i costi per gli ammortizzatori sociali e i costi indotti nel settore aeroportuale, sono pari a più di 1200 milioni di debiti rimasti alla Alitalia pubblica dopo la vendita; a questi si aggiungono più di 300 milioni che, tramite un “prestito-ponte”, lo Stato garantì alla nuova società e tutto per i risultati che sono di fronte agli occhi di tutti. Non a caso l’affare Alitalia-CAI è stato utilizzato dalla stessa Corte dei Conti come esempio negativo di privatizzazione. Da notare che molti nomi noti e protagonisti della vicenda Alitalia li ritroviamo anche nel caso Telecom (da Colaninno e Benetton a Tronchetti Provera).
IL CASO TELECOM: capitani coraggiosi con i soldi pubblici
La stessa costituzione di Telecom, nel 1994, come fusione delle preesistenti società statali di telecomunicazioni (tra le quali
E’ con il Governo Prodi che si avvia nel 1997, con la “collaborazione” della Morgan Stanley, la prima vera e propria privatizzazione con la vendita del 39.5% del capitale societario e con capofila la famiglia Agnelli (amministratore delegato Franco Bernabè), ma già nel 1999 la società viene scalata dalla Olivetti – Bell che ottiene il controllo della società con il 51% (Olivetti era presente già nel mercato delle telecomunicazioni con Omnitel e Infostrada). Da sottolineare che il Ministero del Tesoro manteneva la quota del 3,5% con diritto di veto sulle principali operazioni (la cosiddetta Golden Share). Con la gestione di Colaninno e Gnutti (sostenuti da D’Alema come “capitani coraggiosi” dell’economia) continua lo spezzettamento della Telecom con la cessione delle società tra le quali Italtel e Sirti fino alla vendita della stessa quota di controllo di Olivetti (operazione realizzata nel 2001 tramite la società lussemburghese Bell per intuibili vantaggi legati al paradiso fiscale europeo, con tanto di inchiesta per evasione e relativa “sanatoria”).
I nuovi padroni della Telecom diventano Tronchetti Provera e Benetton (Pirelli, Benetton, Banca Intesa, Unicredito e la società finanziaria Hopa dello stesso Gnutti), che nel 2005 ricomprano
Nel 2006 Tronchetti Provera lascia, scontrandosi con Prodi, la guida di Telecom sostituito per un breve periodo da Guido Rossi (scambio di poltrone che si ripeterà) che inaugura un “Patto di controllo” della società tra Olimpia (Pirelli), Mediobanca e Assicurazioni Generali ed il Presidente del Patto è lo stesso dimissionario Tronchetti Provera. Già l’anno successivo il controllo della Telecom passa ad una nuova società di controllo:
Un processo di privatizzazione che particolarmente in questo caso è stato caratterizzato da speculazioni, spezzettamenti, scissioni e cessioni aziendali: da una parte queste operazioni hanno indebolito l’azienda caricandola di debiti (
Una storia dove le complicità politiche si sono strettamente legate ai maggiori gruppi padronali del paese che hanno scientificamente saccheggiato il patrimonio industriale, lavorativo dell’azienda, per arrivare a svenderla ad una società come Telefonica, non solo diretta concorrente in Europa e Sud America ma anche indebitata più della stessa Telecom, con la prospettiva di un ulteriore spezzettamento di un’azienda più che strategica per il paese.
Dalle privatizzazioni alle nazionalizzazioni dei settori strategici: una prospettiva
Oggi siamo di fronte non solo al fallimento del modello economico attuale, con l’estendersi e manifestarsi della crisi sistemica, ma anche al fallimento delle varie ricette “anticrisi” messe in atto nel tentativo di sostenere rendite e profitti: ricette che hanno prodotto “vantaggi” solo nell’immediato e sempre per i soliti, ma che nel medio termine, come nel caso delle privatizzazioni, innescano e amplificano ulteriori problemi e contraddizioni.
Non si tratta di difendere l’italianità di pezzi importanti e strategici dell’economia del paese ma di capire le ragioni e modalità di tali svendite miliardarie, di reagire al saccheggio subito ai nostri danni da parte del padronato italiano ieri e del padronato europeo oggi.
Per questo è necessario rovesciare il tavolo anche ristabilendo il ruolo pubblico capace di un innovativo ruolo di controllo dell’autorità pubblica, ma indipendente dagli interessi padronali e clientelari-partitici, con un ruolo attivo e protagonista dei lavoratori e dei settori popolari.
Il mercato non disciplina se stesso per il bene collettivo, mentre l’intervento da parte dello Stato e del “pubblico” deve essere inteso come ambito di una possibile salvaguardia dell’interesse sociale generale, per il governo delle risorse finanziarie e produttive in grado di coniugare redditività e giustizia sociale.
Appunto per questo il cambiamento sociale ed economico deve nascere da una rinnovata capacità di conflitto del movimento dei lavoratori, capace di rompere le logiche assolute del mercato, della rendita e del profitto: dalla nazionalizzazione delle banche (per rendere socialmente orientate le decisioni di investimento), alla nazionalizzazione e ripubblicizzazione dei settori strategici e a rete, all’esproprio e nazionalizzazione delle aziende in crisi, che inquinano o delocalizzano.
Questo consentirebbe non solo di sottrarre al saccheggio delle multinazionali europee e non solo le risorse economiche e produttive del paese, ma anche di avviare una seria politica occupazionale, di innovazione e rilancio produttivo eco socio compatibile; di miglioramento dei servizi pubblici essenziali (energia, trasporti, comunicazioni …) e della qualità della vita.
Per questo processo è necessario che nella capacità organizzata di conflitto da parte dei lavoratori si abbia chiara la necessità di rompere con questa Unione Europea dei diktat e dei fiscal compact che rendono impossibile, se mantenuti, ogni alternativa sociale e politica nel nostro paese.
Bibliografia e approfondimenti disponibili nell’archivio della rivista Proteo del CESTES centro studi USB (www.cestes.usb.it).
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Franco 296
pienamente d’accordo con questa acuta analisi e la soluzione proposta per raddrizzare la situazione.