Relazione al seminario della Rete dei Comunisti su “La ragione e la forza” di Sergio Cararo (RdC)
Dopo la sconfitta dei 35 giorni alla Fiat nel 1980, ai cancelli di Mirafiori venne affisso un cartello scritto a mano. C’era un volto di Marx stilizzato e una scritta che diceva: “Avevamo la ragione e la forza. Ci è rimasta la ragione. Coraggio compagni!”.
Sono passati più di trentacinque anni da quell’episodio decisivo per le sorti del movimento operaio nel nostro paese. Oggi credibilità e le possibilità di una opzione comunista nel XXI Secolo – dunque la ragione e la forza – in una realtà come quella italiana integrata nella dimensione europea, non possono non fare i conti con le modificazioni sociali e produttive intervenute in questi ultimi tre decenni nella realtà di classe e nella società. Modificazioni oggi nuovamente e fortemente scosse dalla nuova fase della crisi sistemica dell’economia capitalista.
In questi anni di lavoro di inchiesta e confronto ancora in corso sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista – di cui i comunisti dovrebbero tornare ad essere espressione politica e ipotesi strategica di affermazione degli interessi nel nostro paese – abbiamo cercato di individuare i punti in cui la quantità delle contraddizioni può diventare qualità sul piano della lotta per il cambiamento.
La concretezza della crisi – in un certo senso – sta spazzando via molte rendite di posizione e molte teorie deformanti – vedi le baggianate sulle “moltitudini” e le ipotesi sulla concertazione – e sta riponendo concretamente la discussione sulla struttura di classe della società e sulla centralità del conflitto capitale-lavoro che assume in se anche la contraddizione ambientale.
Gli elementi che attengono alla sfera della sovrastruttura sono stati troppe volte sottovalutati o affrontati in maniera subalterna rispetto alla capacità egemonica della borghesia sulla società italiana. Se è vero che siamo in presenza di un pesante processo di polarizzazione sociale e di acutizzazione delle contraddizioni sociali non è affatto scontato che da queste emerga una coscienza di classe più avanzata rispetto a quella che abbiamo conosciuto nei decenni scorsi. La dimensione ideologica ha così assunto un peso rilevante, per alcuni aspetti decisivo, nella lotta di classe dall’alto contro il basso.
Questo è un terreno su cui il capitale lavora con la stessa sistematicità con cui affronta le contraddizioni del proprio modo di produzione. Non basta più domandarci perchè ampi settori di proletariato metropolitano nelle periferie votino per la destra o perchè quote consistenti di lavoratori salariati ed autonomi affidino la propria ambizione di cambiamento al M5S.
La dialettizzazione tra condizione sociale e coscienza di classe, dentro le modificazioni intervenute e dentro quelle in corso, non può essere un alibi per i peggiori riti della real politik ma deve diventare un terreno di indagine rigorosa e di riflessione sulle forme dell’intervento politico e sindacale. Gettare lo spugna o farsi illusioni non è serio.
Poco più di quindici anni fa, abbiamo condotto tra i lavoratori italiani una inchiesta di classe che ha prodotto risultati importanti, soprattutto perché era una inchiesta sulla soggettività e non solo sui dati oggettivi della condizione dei lavoratori italiani. L’inchiesta è stata pubblicata nel libro “La coscienza di Cipputi” ormai esaurito. Ma quei risultati contenevano anche alcune indicazioni politiche, ad esempio il fatto che anche in presenza di una conoscenza del peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, i lavoratori non andassero oltre l’orizzonte riformista. Ogni idea di rottura era lontana dalla percezione di classe dei lavoratori intervistati.
I quindici anni trascorsi e soprattutto gli scossoni prodotti dalla crisi del 2007, hanno modificato molte cose. La precarietà/flessibilità che allora si percepiva come tendenza e minaccia adesso è dominante, così come l’abbassamento dei salari. E’ cambiata radicalmente – e in negativo giustamente – la percezione sull’Unione Europea. Tutti i sondaggi confermano che la società italiana non è la più europeista d’Europa.
La frammentazione sociale e la disgregazione degli elementi comuni tra lavoratori – che allora si esprimeva come contraddizione tra lavoratori pubblici e privati – oggi agisce a tutto campo, resa ancora più cattiva dal parafulmine della presenza degli immigrati. In questo l’azione capitalistica sulla sovrastruttura comunicativa e ideologica omette e mistifica completamente il fatto che l’immigrazione si sta rivelando sostitutiva dell’emigrazione degli italiani all’estero. In Italia ci sono circa 5,5 milioni di immigrati (di cui 1,6 pagano i contributi all’Inps) e ci sono quasi 5 milioni di italiani che se ne sono andati a lavorare all’estero. Non è un caso che la Confindustria – sia quella italiana che quella tedesca- sia sempre stata d’accordo con la liberalizzazione degli ingressi di immigrati in modo da poter riscrivere completamente le leggi sul lavoro.
Rimettere insieme i vari segmenti del lavoro sta diventando sempre più difficile sul piano sindacale e politico. E questo è vero sia nelle fabbriche che nel settore pubblico. Uniche eccezioni sono i lavoratori integrati nel settore della circolazione delle merci (logistica, grande distribuzione, commercio) che hanno scoperto di avere maggiore contrattuale perché i loro conflitti danneggiano effettivamente l’organizzazione capitalistica adeguatasi alla logica del “just in time”.
Come diventa possibile allora cercare di individuare ed intercettare gli elementi di ricomposizione degli interessi di classe, la loro rappresentanza politica, la loro identità e soggettività politica che permettano di riaprire con qualche chance di vittoria il conflitto Lavoro-Capitale in un paese a capitalismo avanzato? Dov’è che oggi si concentra il blocco sociale antagonista che può re-ingaggiare una lotta vincente per l’egemonia contro il Capitale?
Sul piano della composizione sociale, le concentrazioni di classe – le grandi fabbriche leninisticamente intese – in cui agiva concretamente l’oggettività, l’identità e la soggettività di classe, sono state disperse, sono distribuite sia lungo le filiere internazionali di produzione sia nella dispersione territoriale attraverso i distretti industriali, che trova però nelle aree metropolitane un nuovo fattore di centralizzazione verticale.
A nostro avviso, per i comunisti oggi la scelta dell’organizzazione e del rafforzamento del conflitto politico, sociale, sindacale metropolitano, è diventata un progetto strategico. Un fondamentale punto di programma politico generale che costituisce, a nostro giudizio, un elemento di linea fondante per il rilancio di una moderna opzione comunista che vuole rapportarsi alle dinamiche vive e conflittuali agenti. Il problema non è quello di sancire uno “strappo” con i lavoratori e un tessuto di compagni e delegati combattivi ancora all’interno delle fabbriche. Al contrario, si tratta invece di prendere atto che i comunisti e i militanti anticapitalisti devono costruire e rafforzare gli strumenti concreti di relazione con i settori di classe nel nostro paese per orientarli ed affrontare in modo organizzato il conflitto sociale.
Una fotografia della realtà italiana (dati Banca d’Italia) ci fa vedere che il valore aggiunto della produzione aumenta anche nel 2015 ( + 1,5% nell’industria rispetto al + 0,6 dell’intero sistema economico) e che aumentano anche i lavoratori salariati impegnati a far crescere questa ricchezza (nonostante la crisi si è passati dai 16,913 milioni del 2007 ai 16,988 milioni del 2015 di lavoratori dipendenti), vediamo anche come l’introduzione delle nuove tecnologie, dopo aver rafforzato in una prima fase l’aristocrazia salariale per giocarla contro il resto del blocco sociale antagonista, sotto la spinta della crisi e di una sfrenata competizione globale sta producendo una crescente proletarizzazione ed esclusione di parte dell’aristocrazia salariale e dei ceti medi. Non solo sta introducendo anche una precarizzazione del lavoro nei settori più avanzati sul piano della conoscenza (i knowledge workers) e dell’uso delle nuove tecnologie (vedi, i ricercatori a contratto, gli operatori dei call center, gli ingegneri della Motorola o della Nokia sottopagati o gli stessi giornalisti).
Una delle conseguenze per noi più è che siamo di fronte ad un processo di polarizzazione sociale e “proletarizzazione” del lavoro assai più accentuata che rispetto a dieci anni fa. Se il ventennio liberista aveva giocato e imposto gran parte della sua egemonia sul carattere progressivo del suo modello, la crisi economica oggi rende evidente e tangibile a molti il suo carattere regressivo. Per la sinistra di classe – sul piano oggettivo – è una situazione eccellente. Ma su quello della soggettività e della rappresentanza politica del blocco sociale antagonista le cose stanno diversamente ed appaiono assai più arretrate. Per questo c’è bisogno di un approfondimento teso ad individuare la geografia politica e sociale di questa nuova fase del conflitto Capitale-Lavoro nella nostra realtà.
Dove ritroviamo la forza?
Da qui è nata la riflessione sulle aree metropolitane come “territorio politico e sociale” dove quantità e qualità delle contraddizioni di classe possono delinearsi con più forza e con capacità egemoniche sulla ricomposizione di un blocco sociale antagonista fortemente frammentato dalla riorganizzazione capitalistica di questi ultimi trenta anni e reso privo di identità di classe dall’egemonia esercitata dal Capitale e che ha sorretto e accompagnato la sua visione di lotta di classe contro il Lavoro.
Come notava già Engels nel suo saggio su “La questione delle abitazioni”, le concentrazioni urbane ammassano quantità sovrabbondante di forza lavoro. In questa nuova concentrazione, la produzione flessibile trova i “requisiti ambientali” idonei per il suo massimo decentramento (e per il massimo accentramento dei poteri decisori) e per la mobilità completa che oggi è la necessaria condizione per la competizione globale capitalistica di questa fase storica.
La massa della forza lavoro delle metropoli, quello che potremmo definire il proletariato metropolitano, vive oggi una condizione di crescente degrado che è la diretta conseguenza dell’abbattimento dei costi di riproduzione. Un dato per tutti la crescita quantitativa dei lavoratori immigrati inseriti nel mercato del lavoro (oggi 1,6 milioni di contribuenti all’Inps sono lavoratori stranieri). Si scatenano le guerre tra poveri per poter vincere meglio la guerra contro i poveri, ossia l’esercizio ormai evidente di un odio di classe dei padroni contro i lavoratori e i proletari. Agiamo politicamente, sindacalmente e socialmente dentro un degrado acutizzato dalla precarietà del lavoro, dalle privatizzazioni e dallo smantellamento dei servizi sociali, dall’aumento delle imposte locali, dall’aumento delle tariffe e delle abitazioni, dalla difficoltà di poter usufruire di forme di reddito diverse dal lavoro (sempre più insicuro). Una situazione che diventa ancora più visibile, disgregante e strumentalizzabile nelle periferie metropolitane.
In sostanza le metropoli e la condizione sociale del proletariato metropolitano, rappresentano un terreno importante di sperimentazione e verifica per i sindacati, i movimenti sociali e per l’azione politica dei comunisti, perché potrebbe rivelare quasi “naturalmente” il fronte di lotta sulla riproduzione sociale complessiva proprio lì dove il Capitale ha nuovamente concentrato i settori di classe dopo averli frammentati, delocalizzati, dispersi ed egemonizzati con lo smantellamento dei grandi stabilimenti e della grandi concentrazioni industriali, ma soprattutto lì dove il suo carattere regressivo si manifesta con maggiore violenza.
La sintesi di questa guerra contro i poveri, di questa arrogante lotta dall’alto scatenata dai ricchi contro i poveri, viene offerta dall’apparato costruito con cura in questi decenni dalle classi dominanti arroganti e ormai senza più freni inibitori: l’Unione Europea, l’euro, l’eurozona.
L’applicazione delle misure iperliberiste – anzi ordoliberiste – dell’Unione Europea, che ha approfittato della crisi per accelerare sull’approvazione di tutti i trattati funzionali a stringere la morsa sulle società, hanno prodotto conseguenze pesanti non solo nel nostro blocco sociale tradizionale, ma anche in quelle classi medie che la borghesia aveva usato come alleate contro la classe lavoratrice (nessuno dimentichi la lezione della Fiat nel 1980 o il referendum sulla scala mobile nel 1985).
Larga parte delle classi medie sono state precipitate in una situazione di incertezza, insicurezza, immiserimento da esse mai pensato come possibile, anzi solo come destino riservati ad altri. Tra il 2007 e il 2015 sono scomparsi mezzo milione di lavoratori autonomi (i famosi imprenditori di se stessi), quasi la stessa diminuzione che c’è stata tra gli operai di fabbrica (-600mila) e il doppio della diminuzione di dipendenti pubblici ( 250mila tra impiegati e insegnanti). Il modello mercantilista imposto dalla Germania, puntando tutto sull’export ha depresso il mercato interno e mandato sul lastrico la piccola e media impresa che non aveva o non voleva internazionalizzarsi e concentrarsi. La riorganizzazione delle banche ha messo sul lastrico proprio quei risparmiatori che avevano pensato a se stessi come piccoli capitalisti investitori, il crollo dei prezzi immobiliari ha svalutato la ricchezza investita sul mattone in un paese in cui il 68% degli abitanti sono proprietari di case (la media dell’Eurozona è il 60%, in Germania e Austria il 44%), la liberalizzazione degli orari e delle licenze ha fatto chiudere migliaia di esercizi commerciali e di padroncini nel trasporto, la liberalizzazione dei prezzi e delle importazioni sta mettendo definitivamente in ginocchio i piccoli e medi proprietari agricoli. La eliminazione di fatto del valore legale del titolo di studio (soprattutto della laurea) ha frustrato brutalmente le aspettative di chi vedeva in essa lo strumento di spinta dell’ascensore sociale (che anzi ha cominciato a regredire in modo drammatico e visibile).
Insomma se ai lavoratori hanno cominciato a massacrarli nel 1992, per i ceti medi il cielo è crollato sulla testa quindici anni dopo.
Ma quale coscienza di sé hanno questi settori sociali? Per decenni sono stati alleati con la borghesia contro i lavoratori, i sindacati, la pubblica amministrazione, lo stato centrale etc. Hanno spesso portato l’acqua con le orecchie ai tentativi di dissonanza rappresentati per venti anni da Berlusconi e dal berlusconismo. Hanno un fortissimo senso “proprietario e individualista” e scarsissima coscienza collettiva (proprietari di casa, del proprio lavoro, della propria attività), in molti casi avevano alte aspettative per se stessi (vedi laureati, tecnici specializzati, informatici etc.) ma sono stati traditi e abbandonati dai più ricchi e da quelli che si sono meglio integrati nel processo di centralizzazione e verticalizzazione indotto dalle misure e dai diktat europei.
Buona parte del successo elettorale del M5S è dovuto a questi settori sociali. Settori con scarsissima propensione al conflitto (ma disponibili ad avventure) che hanno deciso di rappresentarsi politicamente con chi in qualche modo evoca una rottura con l’esistente.
Che cosa può connettere questi settori sociali con i “nostri” settori sociali, ossia i lavoratori salariati pur nella loro frammentazione? Sono solo obiettivi “economici” o i comunisti possono tentare di rimettere in campo una ipotesi ideologica egemone?
Per tali motivi e sulla base di questa analisi, sul piano dell’organizzazione concreta del blocco sociale antagonista, viene assumendo crescente interesse la sperimentazione sul campo dell’idea/forza di una funzione attiva dei comunisti dentro un movimento politico e popolare che verifichi le possibilità di ricomposizione di un proletariato e neo-proletariato metropolitano fortemente insediato e intrecciato – ma ormai diversificato – nel mondo del lavoro tradizionale che abbiamo conosciuto e dentro cui ci siamo battuti in questi decenni.
L’inchiesta di classe
Il paradigma che sta dietro le riforme controcostituzionali di Renzi poste a referendum in ottobre, si fonda su un cambiamento sostanziale. La Costituzione del dopoguerra si fondava su un “patto tra produttori” sia sul versante del lavoro che del capitale, la Costituzione che vogliono imporre Renzi, gli oligarchi di Bruxelles e le banche d’affari, si fonda su un “patto tra proprietari” molto simile a quello statunitense. E’ la proprietà (di case, del proprio lavoro, della propria pensione o sanità) che dà il diritto di partecipare e decidere della cosa pubblica. Chi ne è escluso non conta più, sia esso lavoratore salariato o piccolo imprenditore fallito, pensionato immiserito o laureato senza capitali da investire in proprio. Per molti aspetti è la fine del suffragio universale e il ritorno al voto per censo.
Ma questo cambiamento di paradigma – che andrà combattuto apertamente con il No al referendum di ottobre – sarebbe entrato come una lama nel burro nella società italiana degli anni ’90 e pre-crisi. Oggi, dopo che la lotta di classe dall’alto ha squassato l’egemonia ideologica della borghesia sia nelle classi medie che nelle periferie (il che non significa che sia sconfitta ma solo che ha fatto morti e feriti anche tra le proprie file), una battaglia per l’egemonia da parte dei comunisti può finalmente ritrovare lo spazio per essere ingaggiata di nuovo?
L’Unione Europea, i suoi diktat, le sue misure odiose e antipopolari, ha la capacità di fungere da sintesi del “nemico comune” di un’alleanza sociale tra vecchi e nuovi proletari metropolitani? E dentro questa alleanza – a nostro avviso possibile e auspicabile – i comunisti possono svolgere una funzione di massa ed egemonica? Diciamo che i comunisti rivoluzionari possono giocarsi questa partita, la sinistra radicale e i comunisti liturgici no. Se non si fa propria l’idea della rottura come preliminare fondamentale del cambiamento non si va nessuna parte e si lascia il campo libero a qualsiasi altra avventura, anche quelle peggiori.
Sulla base di queste considerazioni – che spesso ci hanno visto divergere e discutere con altri compagni in Italia e a livello internazionale – la Rete dei Comunisti intende contribuire a tutti i progetti tesi alla costruzione di un vasto ed articolato movimento popolare anticapitalista per l’uscita dall’Unione Europea nel nostro paese, alla ridefinizione di una funzione strategica nel rapporto tra comunisti e blocco sociale di riferimento, al consolidamento del sindacalismo di classe. Per questo c’è bisogno che nel dibattito sulla ricostruzione di un blocco sociale antagonista al capitale, i comunisti tornino ad utilizzare appieno un metodo di lavoro e di lotta basato sull’inchiesta, il confronto e la sperimentazione, sperimentazione che significa innanzitutto recupero di credibilità e piena internità alle lotte sociali e sindacali.
L’inchiesta di classe non è solo una buona analisi statistica o la decostruzione ragionata dei dati forniti dai centri di ricerca (Banca d’Italia, Istat, etc.) come pure ci è stato proposto quindici anni fa ed anche più recenti.
L’inchiesta di classe è un metodo di lavoro, è un approccio alla militanza, è la pratica della teoria dentro il corpo sociale per ricavarne indicazioni, contatti, per sedimentare organizzazione e tendenzialmente coscienza di classe.
L’inchiesta di classe non è una fotografia dell’esistente ma è la capacità di cogliere dentro la realtà di classe le tendenze del futuro e di verificare la soggettività con cui i protagonisti – siano essi vincenti o subalterni – sono disposti a misurarsi con esso.
L’inchiesta di classe è il modo concreto con cui i comunisti possono ancora contribuire attivamente al risveglio delle coscienza di classe evocando nuovamente – e con parole semplici – l’opzione del cambiamento e della trasformazione rivoluzionaria come una delle soluzioni possibili, a nostro avviso quella migliore.
Sergio Cararo
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