In una recente intervista rilasciata ai microfoni di “Presa diretta”, il sindaco di Firenze – nonché coordinatore della Conferenza delle città metropolitane e vicepresidente di Eurocities – Dario Nardella ha ribadito che anche le città metropolitane, oltre alle Regioni, dovrebbero partecipare alla gestione dei fondi europei.
Non è la prima volta che il sindaco esprime tale posizione, ma in questi mesi tali dichiarazioni assumono un peso maggiore alla luce sia del dibattito in corso sulla gestione dei miliardi in arrivo (in arrivo?) del “Recovery fund”, sia della disputa sugli ambiti di intervento tra Stato e Regioni, soprattutto in coda alla disastrosa gestione della pandemia nella scorsa primavera.
La questione sarebbe dirimente per la conformazione statuale del prossimo futuro, ma nell’opinione pubblica viene presentata come una semplice scelta di chi-gestisce-cosa in base a più o meno accertate competenze, su cui ovviamente ogni attore in campo, da Nardella a Zaia a Conte, a seconda del ruolo istituzionale ricoperto, rivendica una maggiore preparazione e quindi legittimità di accesso ai fondi.
Tuttavia, quel viene celato è il significato profondo che un’ulteriore ripartizione della gestione finale dei fondi pubblici rappresenterebbe per l’organizzazione statale, nonché per la più generale salute della “democrazia liberale”.
Se nessuna delle due istituzioni è stata in assoluto un punto di riferimento nella storia del movimento operaio, in una fase di transizione verso un nuovo e ancora incerto assetto dei rapporti di forza tra i vari blocchi in competizione su scala mondiale, la comprensione del “campo di battaglia” è condizione primaria per qualunque tipo di proposta e di intervento politicamente orientato.
Le città metropolitane nella fase attuale
Come più volte scritto su questo giornale, le città metropolitane sono il luogo fisico dove il processo di produzione e riproduzione capitalista fissa i magneti di attrazione per i movimenti di capitali, merci e persone, divenendo i luoghi per eccellenza dello sfruttamento (in primis della forza-lavoro) e delle diseguaglianze.
L’uscita di Nardella allora è perfettamente coerente con il sistema di produzione e di pensiero imposto qui a partire dal processo di integrazione europeo, e nel resto del mondo (almeno quello “occidentalizzato”) dalla salita al potere di Reagan negli Stati uniti e della Thatcher nel Regno unito, sistema divampato con la caduta del Muro di Berlino e la sconfitta del blocco sovietico (biennio 1989-91).
In sintesi, questo prevede l’arretramento del ruolo dello Stato dalle funzioni pubbliche e il primato della competizione come modellatrice dei rapporti sociali, sempre basati sulla proprietà privata e la divisione del lavoro.
Nel Vecchio continente quest’indirizzo di massima si è incarnato nel sistema di Trattati dell’Unione europea, che nel corso degli anni ha rosicchiato elementi di sovranità ai vari organismi nazionali, come la politica monetaria (sottratta), economica (appaltata) ecc.
È in questa faglia che va inserita la proposta per le città metropolitane di “risorse dedicate, funzioni autonome e certe, e pari dignità istituzionale” a Stato e Regioni, dalle parole del sindaco di Firenze.
Lo smantellamento delle funzioni dello Stato…
Infatti, concettualmente parlando la massima decentralizzazione è possibile solo a partire da una massima centralizzazione, e ciò è valido sopratutto per le funzioni pubbliche.
Lo spacchettamento verso il basso – o “i territori”, come rivendicano gli interessati – dell’autonomia di risorse e di bilancio allora è il riflesso della cessione di potere decisionale dallo Stato alle istituzioni sovranazionali europee, ossia da Roma a Bruxelles-Francoforte-Strasburgo. Il ritorno ai Granducati non è altro che il dividi et impera possibile a partire dalla concentrazione lenta ma continua dei poteri in favore dell’Ue, funzioni coercitive a parte.
Per dirla in breve, “austerità”, “autonomia differenziata” e “Recovery fund per le città metropolitane” sono tre elementi dello stesso modo di intendere l’organizzazione sociale e produttiva, la stessa che da trent’anni a questa parte si abbatte contro i lavoratori e le lavoratrici, gli abitanti delle periferie, le lotte sociali, lo stato sociale, ecc.
Un esempio? Due settimane fa la città metropolitana di Milano ha consegnato all’Anci ben 34 progetti per un valore complessivo di 4,5 miliardi di euro per l’accesso al Recovery fund, riguardanti in particolar modo infrastrutture per la mobilità, messa in sicurezza, digitalizzazione e adeguamento energetico. Tutti i temi su cui punta l’Ue, nessuna alternativa possibile.
…in favore dell’Unione europea
La cinghia di trasmissione Unione europea – città metropolitane (o Regioni) è tutta qui, nelle direttive imbastite dai centri di potere europei (alto) a cui bisogna “solo trovare un referente istituzionale sui territori” (basso) in grado di rispettare il mandato.
Se aggiungiamo che nell’Ue l’unico organismo eletto direttamente dalle popolazioni è anche quello meno influente, ossia il Parlamento (ne conoscete altri senza neanche funzioni legislative?), l’eclissi di ogni possibilità di indirizzo al futuro di un paese, e cioè delle persone che lo abitano, mediante il mantra del voto è oramai palese.
La società civile, l’associazionismo, il protagonismo sui social, le organizzazioni no-profit, sono tutti orpelli la cui profonda ragione di esistenza è quella di celare la vera tendenza dell’influenza (e di rimando, sulla partecipazione) sulla vita politico-istituzionale di un paese da parte di chi lo abita: zero.
Di peggio c’è solo il municipalismo – autonomia di bilancio a un livello ancora inferiore, perciò più divisivo –, che rappresenterebbe l’acuirsi delle criticità di questo modello.
La fine della “democrazia liberale”
In altri termini, dove comincia l’Unione europea finisce anche la “democrazia liberale” (il Parlamento non può legiferare!), quella suo malgrado imperniata sugli organi di rappresentanza, per definizione a metà strada tra società civile e politica. L’indecenza della nostra classe dominante e la sottomissione di Cgil Cisl e Uil al padronato sono esempi attuali di questa traiettoria.
La concentrazione di investimenti in pochi territori mirati amplifica le diseguaglianze con quel che ne rimane attorno (prima erano le campagne, oggi si aggiungono le periferie), drena denaro e persone verso le metropoli e sviluppa una “società a macchia di leopardo”, diseguale per Costituzione.
La fine insomma di un’idea generale di paese, di distribuzione della ricchezza, di emancipazione dai bisogni essenziali, di comunità.
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