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Euroatlantismo. Come l’Occidente va alla guerra

Quasi due mesi fa è stato pubblicato il 2023 Index of U.S. Military Strenght del think tank Heritage Foundation, istituto molto vicino ai Repubblicani al punto da dedicare il sostanzioso studio al senatore dell’Oklahoma James M. Inhofe.

Non è uno dei nomi più conosciuti al di qua dell’Atlantico, eppure Inhofe è dalla fine del 2017 uno dei più importanti esponenti dello United States Senate Committee on Armed Services, poco dopo ha avuto un ruolo chiave nel promuovere lo stanziamento record di 716 miliardi di dollari per l’anno fiscale 2019 del Pentagono e da anni è indicato da GovTrack.us – piattaforma nata con l’intento di rendere più trasparente l’attività e la composizione delle camere statunitensi – come tra i membri più conservatori del Congresso, date anche le sue posizioni da negazionista del cambiamento climatico.

Questo per chiarire le idee sull’orientamento politico dell’Heritage Foundation.

Torniamo appunto all’Index. Arrivato alla sua nona edizione, rappresenta una fonte di informazioni straordinaria non solo per conoscere in dettaglio le linee strategiche che guidano gli USA, ma – se messo in relazione con gli indirizzi degli altri attori che in un modo o nell’altro stanno facendo emergere un mondo multipolare – diventa quasi uno strumento di formazione politica, in una fase in cui lo stallo della competizione globale si è rotto.

Questo articolo infatti nasce dalla necessità di indagare la configurazione concreta che sul piano militare l’imperialismo europeo in costruzione potrebbe assumere, con un salto di qualità sospinto dalla guerra in Ucraina, per meglio sapere come e dove combatterla.

Al di là dell’evidente afflato militarista che ha preso il continente, mettere in fila alcune dichiarazioni di matrice evidentemente imperialista di alti esponenti europei suscita un impatto direi quasi emotivo, e rende palese l’utilità di un approfondimento del genere.

L’elenco è abbastanza lungo, ma comprende figure di altissima responsabilità “istituzionale”. Dunque non sono parole “dal sen fuggite” o scenati immaginati da “esperti” dala valore discutibile. Segno che all’interno di quelle istituzioni molto si sta muovendo in un certa direzione.

In occasione del varo del Chips Act europeo (riguardante appunto un settore strategico), Thierry Breton, Commissario per il Mercato Interno, disse: «dopo l’Europa della democrazia e l’Europa del mercato, apriamo ora la strada a un’Europa del potere».

Faceva eco alle parole del ministro dell’Economia francese, Bruno Le Maire: «volete che l’Europa sia un mercato unico o non volete piuttosto che sia un progetto politico, nobile e idealista?». Peccato abbia poi aggiunto che «il nazismo fu un progetto folle, pericoloso, suicida, ma era un progetto politico di cui oggi l’Unione europea è la risposta agli antipodi».

Insomma, l’obiettivo è lo stesso – costruire una superpotenza europea che riconquisti quel ruolo centrale perso definitivamente con la Seconda guerra mondiale – ma da raggiungere a colpi di “vincoli esterni” e non con le armi, almeno sul territorio continentale.

Non hanno ovviamente la stessa fortuna i popoli del Sahel che hanno vissuto la lunga dominazione francese o del “Mediterraneo allargato” fino al Golfo Persico, dove anche l’Italia gioca un ruolo centrale.

Il colonialismo che trasuda dall’azione della UE è evidente, ma ci ha pensato l’Alto Rappresentante per gli affari esteri, Josep Borrell, a fare in modo che non ci fossero dubbi, quando all’inaugurazione della European Diplomatic Academy – un progetto imperialista ha pur bisogno di un suo personale politico “ben formato” – ha affermato che la UE è un giardino rigoglioso che si erge contro la giungla del mondo, e che tale giungla deve essere irreggimentata secondo le ‘leggi del giardino’, prima che da essa venga invaso.

Questa introduzione è certo lunga, ma era necessario unire tutti i puntini di una narrazione sempre più esplicita che deve sostanziare ideologicamente una politica di potenza tutt’altro che nobile e idealista.

Queste affermazioni sembrano infatti ricalcate su una sorta di “fardello dell’uomo europeo”, «unica àncora della democrazia mondiale», come ebbe a dire Romano Prodi. Quello di cui gli alti ranghi della UE cercano di convincere persino se stessi è che, ora che l’unipolarismo statunitense è in crisi, il “Destino manifesto” di una missione espansionista e civilizzatrice avrebbe deciso di attraversare l’oceano e prendere casa a Bruxelles.

Per assolvere a questo compito serve ovviamente anche uno strumento militare autonomo, da svilupparsi dentro la cornice della NATO. È questo passaggio che risulta ostico a tanti, perché anche tra chi frequenta spesso le categorie di Marx, Lenin, Gramsci, Mao e così via, c’è poca abitudine a pensare la Storia come un processo in atto definito dalle dure leggi della dialettica, anche per le soggettività che esprimono un programma strategico preciso.

A questo punto diventa interessante indagare la costruzione della difesa europea (esercito ma anche complesso militare-industriale) proprio a partire dalle forze armate USA, per comprendere come non sia così peregrina l’idea che si possa sviluppare un’autonoma potenza militare europea, pur nell’alleanza atlantica. Il lavoro della Heritage Foundation è l’appiglio perfetto.

2023 Index of U.S. Military Strenght della Heritage Foundation

Il volume del think tank conservatore è piuttosto corposo – quasi 600 pagine – ed è anche uno dei motivi principali per cui questo contributo ha impiegato diverso tempo per arrivare a conclusione, se non ci si vuole accontentare degli articoli usciti sui media sull’Index e del sunto che la stessa Heritage Foundation ha messo a disposizione.

Bisogna comunque dire che, per chi fosse curioso di recuperare le informazioni in proprio, effettivamente gli elementi centrali sono tutti presenti in ciò che si trova al riguardo su internet, anche senza leggere l’intero testo, che ad ogni modo permette di muoversi tra di essi con facilità, anche grazie a grafici riassuntivi molto intuitivi.

La prima cosa da notare è che il giorno prima di rendere pubblico lo studio, il titolo piuttosto eloquente di un articolo della Heritage sottolineava che il non aver raggiunto gli obiettivi di reclutamento per l’US Army nell’anno 2022 era un problema più serio del cambiamento climatico, anche se l’esercito ha cominciato ad affrontarlo con un piano strategico in 50 pagine: era una sorta di annuncio di ciò che avremmo trovato nell’Index.

Siamo abituati a pensare le forze armate statunitensi come un treno corazzato inarrestabile che impone con le armi il suo dominio in tutto il mondo, e in un certo senso è vero, ma è pur sempre una valutazione relativa.

Per il dominio su di un mondo in forte cambiamento, gli strumenti militari USA sono adeguati? La risposta è riassunta magistralmente all’inizio delle conclusioni delle quasi 600 pagine: «The Active Component of the U.S. military is two-thirds the size it should be, operates equipment that is older than it should be, and is burdened by readiness levels that are more problematic than they should be. Some progress has been made, but it has been made at the expense of both capacity and modernization».

Escluso il corpo dei marines e la deterrenza nucleare, nessuno degli altri quattro rami delle forze armate esaminati (esercito, marina, forze aeree e aerospaziali) ottengono una buona valutazione. La frase, in un certo senso rivelatrice di quella che è la preoccupazione principale rispetto al futuro, che esplicita quello che per tutti è evidente da almeno un anno a questa parte è la seguente: «In the aggregate, the United States’ military posture is rated “weak”. The 2023 Index concludes that the current U.S. military force is at significant risk of not being able to meet the demands of a single major regional conflict while also attending to various presence and engagement activities».

La ritirata disastrosa di fine agosto 2021 dall’Afghanistan non è qualcosa che si può ignorare, mentre si sostiene una presenza diffusa in tutto il mondo ed engagement activities che possono andare dalla guerra commerciale e diplomatica al confronto indiretto con la Russia in Siria e Ucraina.

Del resto, il volume della Heritage è anche piuttosto esplicito nell’indicare quali sono, oltre ai gruppi terroristici, le minacce per gli Stati Uniti: Corea del Nord, Iran, Russia e Cina. In particolare, l’ultima è il vero competitor di Washington, che comincia a mandare segnali di allarme anche per ciò che riguarda l’arsenale nucleare di cui dispone Pechino.

Charles Richard, ammiraglio e comandante dello US Strategic Command, ha definito i programmi nucleari cinesi un problema a breve termine. Un articolo di una dottoranda che lavora per la stessa istituzione, uscito lo scorso agosto, aveva preannunciato la necessità di affrontare la nuova linea strategica che la Cina mostra di perseguire in merito, passando dalla deterrenza garantita da poche testate con la funzione di rappresaglia dopo un primo attacco, a uno strumento di proiezione delle sue ambizioni.

Su questo è molto chiaro anche il presidente della Heritage che nella Prefazione del volume scrive: “We need to do not simply more, but better to check Beijing’s ambitions. A strong and modern military is not enough. Congress must finally close the soft-power gap, reclaim information and technological supremacy – and end the high-tech piracy on which China has built its economic and military power. We should deploy economic policy in the effort too with tariffs, sanctions, economic and institutional disengagement from Chinese agents – and closer ties to Pacific allies”.

Da queste frasi possiamo trarre gli ultimi spunti di questa sezione dell’articolo, prima di passare al Vecchio Continente.

Il primo riguarda quella che è chiamata la «pirateria» di Pechino, in realtà un indirizzo strategico esplicito del Partito Comunista Cinese per lo sviluppo delle condizioni necessarie alla trasformazione sociale. Si tratta dell’azione cosciente di una soggettività statuale che ha deciso di utilizzare il modo di produzione capitalistico per dotare un paese degli strumenti funzionali a progettare la transizione a una società socialista.

Il secondo è che il piano su cui avviene questo confronto col modello cinese non si esaurisce nel “mercato”, nella competizione economica tra le multinazionali delle due sponde del Pacifico, ma si dispiega lungo tutte le dimensioni proprie di un’entità politico-statuale.

La classe dirigente statunitense aveva creduto o sperato che il fascino del consumismo occidentale avrebbe condotto la Cina a un cambiamento simile a quello avvenuto in Unione Sovietica a cavallo tra anni Ottanta e Novanta; ma oggi, di fronte al fallimento di questa strategia, si trovano a riorganizzare quell’insieme di apparati centrati su Washington nella direzione di uno scontro a tutto tondo con Pechino.

Del resto, persino gli USA non sono altro che la cornice legale che legittima specifici consorzi padronali e costituisce lo strumento, modellato attraverso provvedimenti di propri rappresentanti politici, della proiezione di potenza per questa specifica borghesia imperialista.

Quindi non solo dazi e sanzioni – evidentemente molto distanti dal “libero mercato” spesso evocato – ma anche bracci di ferro diplomatici e minacce militari.

Il piano dello scontro tra compagini che esprimono precise linee strategiche va ben oltre (e a volte, ad un primo sguardo, addirittura contro) le semplici ragioni dell’economia.

Questa osservazione diventa piuttosto esplicita in un altro articolo di una ricercatrice della Heritage, Maiya Clark, in cui la tendenza al monopolio, tipica della fase imperialista del capitale, viene criticata anche nel settore della difesa, perché ciò garantisce alti prezzi a fronte di una minor spinta all’innovazione.

È chiaro che servono grandi aziende, con grandi capitali e che possono approfittare delle economie di scala e così via, per stare al passo con il livello degli armamenti di oggi, ma un po’ di competizione dovrebbe essere promossa non come fine in se stessa – come in un certo modo vorrebbe la teoria economica – ma con l’obiettivo di una difesa nazionale più forte.

Il terzo e ultimo spunto è che la sfida da portare alla Cina passa da legami più stretti con gli alleati del Pacifico. Il Quad, la «NATO asiatica» che comprende India, Giappone, Australia e Stati Uniti, e l’Aukus, l’accordo tra gli ultimi due paesi citati col Regno Unito, con risvolti anche sul dispiegamento di sottomarini e armi nucleari, sono due esempi evidenti.

Da qui ci ricolleghiamo all’Index della Heritage Foundation. Nel multipolarismo di fatto che si va affermando, gli USA non sono in grado di reggere da soli il confronto su tutti i fronti, e provano perciò a promuovere quello che Wang Yi, ministro degli Esteri cinese, ha definito “multilateralismo selettivo”, con una netta declinazione anticinese.

Anche se si differenzia rispetto alla postura esplicitamente aggressiva dell’unilateralismo trumpiano, la sostanza è la stessa: mantenere l’egemonia mondiale che si va indebolendo, e mantenerla con un ruolo di primus inter pares tra gli alleati, anche a loro discapito.

Sin dal suo insediamento Biden ha parlato di rivitalizzazione dell’alleanza atlantica, che secondo Macron era in stato di “morte cerebrale”, e la guerra in Ucraina ha chiaramente assolto a questa funzione. La NATO è tornata ad essere il vettore determinate gli indirizzi di politica estera dei paesi UE, segnando un punto anche su alcuni dossier contrastati, come il Nord Stream 2, e ponendo una seria minaccia alla sopravvivenza stessa del settore industriale del paese guida della comunità europea, la Germania fortemente dipendente dal gas russo.

A Berlino non abbandonano l’idea imperiale di giocare un ruolo autonomo nella competizione globale, come ha dimostrato Scholz nella recente visita in Cina, dove è stato accompagnato dai vertici dell’automotive tedesco, con lo scopo dichiarato di passare alla “ricerca e sviluppo” non più “in Cina per la Cina”, ma “in Cina, per il mondo”.

Ma il punto centrale rimane che la NATO è viva e vegeta, e nella nuova guerra fredda che va delineandosi contro il «dispotismo asiatico» è un tassello fondamentale, non senza interessi della UE che, al di là dei 100mila soldati a stelle strisce nel continente, non può ignorare la profonda integrazione con l’altra sponda dell’Atlantico.

C‘è da sottolineare: un tassello di uno scontro su vari fronti in cui Washington non può fare a meno dei tradizionali alleati europei. Se le risorse militari sono inadeguate e vanno indirizzate verso il quadrante del Pacifico, è necessario che la linea della vecchia Cortina di Ferro, oggi spostata un po’ più ad est, venga difesa da altri.

Tutto ciò è scritto nero su bianco da Elbridge Colby, analista dell’amministrazione Trump dietro la Strategia per la difesa nazionale del 2018, nel suo libro The Strategy of Denial, uscito lo scorso anno, ed è ribadito in un’intervista apparsa un mese prima dell’attacco russo in Ucraina sulla rivista Formiche.

Che sia l’unilateralismo perseguito dal precedente inquilino della Casa Bianca o il multilateralismo selettivo dell’attuale, questo sembra un indirizzo piuttosto conclamato sul ruolo che deve assolvere il versante europeo dell’alleanza (ricordiamo che i suoi membri decisero l’allineamento della spesa militare al 2% del PIL al vertice del Galles, che si tenne durante la presidenza Obama e qualche mese dopo l’annessione della Crimea da parte di Mosca).

Insomma, gli Stati Uniti hanno bisogno del riarmo dell’Europa, e la borghesia transnazionale europea più accorta sa che non può fare a meno delle armi del Pentagono di fronte a Russia o Cina, ma sa anche che dentro la Nato, pur con le ingerenze statunitensi e proprio in virtù della loro necessità di un Vecchio Continente armato, c’è la possibilità di costruirsi un proprio strumento di proiezione militare.

Indizi concreti della Strategic Compass della UE e il posto dell’Italia

Il 21 marzo scorso il Consiglio dell’UE ha approvato il documento Strategic Compass for Security and Defence, risultato di due anni di trattative che arriva in perfetta concomitanza con l’escalation militare in Ucraina.

Nel momento in cui lo stallo degli imperialismi si è rotto, l’edificio imperialistico della UE fa un passo avanti determinante, con l’orizzonte assai vicino del 2030, per stare al passo della competizione strategica anche su un piano militare.

Unità di dispiegamento rapido, condivisione di intelligence e cybersicurezza, diverse modalità e livelli di partenariato, ma l’elemento davvero qualificante è l’inclinazione del modello europeo verso un warfare state con cui investire più e in maniera più efficiente in un sistema di difesa europeo in un rapporto di complementarità dentro la NATO con gli altri membri dell’alleanza.

Per assolvere a questo obiettivo, che palesa una forte consapevolezza di sé della borghesia su base continentale, devono essere superate alcune lacune critiche e le tante dipendenze strategiche della base industriale europea del settore, rafforzandola e procedendo in una maggiore integrazione e nell’innovazione tecnologica, che approfitterà delle possibilità del dual use civile-militare.

Poiché il portato politico e strategico di questa iniziativa è stato in realtà ampiamento analizzato dalla Rete dei Comunisti – per mezzo di articoli, eventi pubblici e la presentazione del numero di Contropiano uscito lo scorso gennaio Unione Europea: da polo a superstato imperialista?l’intento è in questo caso quello di mettere sotto i riflettori alcune piste concrete di come questo processo stia già avvenendo, con una specificità dettata dal particolare frangente storico e dalla cornice unica della governance della comunità europea, in cui non manca un certo grado di concorrenza interna.

Questo è il nodo al cui scioglimento si vuole dare un contributo: come si sviluppa un sistema di difesa europea in un rapporto di complementarità con l’asse anglo-sassone, che sembra però muoversi come considerasse gli altri membri dell’alleanza atlantica dei semplici vassalli?

Come può la UE assumere una propria visione strategica se c’è concorrenza tra le aziende dei suoi paesi?

Sono domande estremamente cerebrali se si usa stare nel dominio dell’astratto, invece di osservare ciò che concretamente avviene intorno a noi, e se non si usa distinguere la fotografia del presente dal processo storico determinato dalle leggi tendenziali del capitale, e dal ruolo che può avere l’intervento di una “soggettività cosciente” come può essere una borghesia transnazionale continentale.

Innanzitutto, va sottolineato che la concorrenza è una condizione attiva anche tra le aziende di uno stesso stato-nazione, ma ciò non esclude il fatto che essa esprima nelle sue istituzioni una comune progettualità imperialista. Il fatto che il mercato unico europeo non sia un paradiso aziendale non dice nulla più del fatto che siamo ancora immersi nel Modo di Produzione Capitalistico.

Ciò su cui semmai bisogna interrogarsi è se esista un capitale finanziario monopolistico su base nazionale che, in essa, trovi gli strumenti necessari ad esprimere la propria autonomia strategica.

Poiché questi strumenti, tra cui i quattro filoni delle politiche economiche (fiscale, monetario, industriale, commerciale), sono stati progressivamente tolti alla disponibilità delle singole compagini statuali, in virtù di una cornice concorrenziale comune da cui far emergere i «campioni europei» – ossia multinazionali con la stazza sufficiente a competere con i competitor statunitensi e cinesi che troveranno proprio negli istituti comunitari gli strumenti della propria proiezione imperiale – la risposta vien da sé.

E che alcuni paesi siano più ligi di altri alle “regole” deriva solo dai rapporti di forza definitisi negli anni: che la borghesia italiana sia la più debole tra i grandi del continente, per struttura produttiva e cultura imprenditoriale, è lo scotto che pagano i nostri padroncini parassitari, amanti della rendita e con poca propensione al rischio d’impresa.

Non che non si possa imboccare una via strategica alternativa, ma ce la vedete Confindustria – che campa sui sussidi pubblici e sullo sfruttamento intensivo – immaginarsi un modello diverso ed edificarci intorno un nuovo sistema di relazioni internazionali?

Come detto, però, si vuol parlare qui non per analisi, ma per esposizione di cosa sia oggi la difesa europea. Un articolo di Leone Grotti sul mensile Tempi è stato tra i primi stimoli per il reperimento delle informazioni che sono state poi sistematizzate in questo sostanzioso contributo. Cominciamo dunque da lì.

Una notizia che non sembra abbia ricevuto la giusta attenzione è che lo scorso 13 ottobre 15 paesi dell’Europa hanno firmato una lettera di intenti per sviluppare la European Sky Shield Initiative (ESSI). Questo scudo antimissile, dice Grotti già nel titolo, affossa (di nuovo) la difesa comune europea, poiché è un’iniziativa di Berlino che dovrebbe avvalersi dei missili Iris-T Slm, Patriots e Arrow-3, rispettivamente tedeschi, statunitensi e israeliani, facendo fuori il progetto Mamba a cui lavorano Italia e Francia.

Varie fonti affermano che per l’Eliseo equivale a rinunciare alla creazione di un sistema d’arma completamente made in EU e dunque segna una rinuncia all’autonomia strategica più volte invocata da Macron.

Ma è davvero così? Si cede troppo spesso a pensare a questi processi a partire dalla fine, ovvero dalla fisionomia di un ideale esercito e di un’altrettanto ideale industria degli ‘Stati Uniti d’Europa’, invece di affrontarli nello sviluppo concreto che hanno nel presente.

Un articolo pubblicato a giugno di quest’anno su Affari Internazionali a firma Alessandro Azzoni, diplomatico italiano impegnato anche nella Politica Estera di Sicurezza Comune (PESC), è piuttosto chiaro sul fatto che bisogna “partire da problemi concreti e progetti specifici per far fronte alle difficoltà economiche e tecnologiche e favorire economie di scala e l’integrazione tra quei Paesi che la desiderino, abbandonando un’unanimità impossibile a favore di decisioni prese da un gruppo limitato ma trainante di Paesi chiave”.

Quale paese svolge un ruolo chiave più della Germania? Inoltre, Azzoni non parla di un unico sentiero percorribile, ma addirittura di tre strade non alternative e coesistenti per avanzare sulla difesa europea, concludendo che per modellare una base tecnologica e produttiva comune per il settore, “oltre alle possibilità già garantite dai trattati, sarebbe bene partire identificando progetti di interesse comune, troppo impegnativi sul piano tecnologico e finanziario per essere affrontati dai singoli Stati”.

Insomma, sembra stia parlando dell’ESSI, guidato in autonomia dalla Germania, in maniera non troppo differente da come, tra il 2017 e il 2018, la Francia fece con la European Intervention Initiative (EII), a cui anche l’Italia si è associata nel 2019, facendo storcere il naso sia a Washington che a Berlino.

Periodicamente la difesa europea è data per morta, e tuttavia ci ritroviamo a commentare suoi passi in avanti anno dopo anno, come la Joint Procurement Task Force: è la differenza tra dibattito politico quotidiano e l’incedere storico di qualcosa di inevitabile per la borghesia continentale, seppur le forme non possano essere decise a tavolino.

Anzi, questo “caso di studio” ci aiuta a capire ancora meglio come ci si stia avvicinando ulteriormente ad una Unione militarizzata.

Innanzitutto, all’iniziativa tedesca partecipano 14 paesi NATO, ma anche la Finlandia che non ne fa ancora ufficialmente parte ed è invece nella UE dal 1995. Tale scudo missilistico trova un suo complemento nel lavoro delle forze ucraine per coordinare e integrare insieme vari sistemi arrivati con gli invii di armamenti del Blocco Euroatlantico, con la prospettiva non lontanissima di un’adesione della stessa Kiev, in un rapporto win-win reso esplicito dallo European Council on Foreign Relations, think tank che si occupa di questi argomenti: l’Ucraina migliorerebbe le sue capacità belliche e chi è parte dell’ESSI otterrebbe importanti informazioni ed esperienze ottenibili solo sul campo.

Lo scudo arriverebbe fino alla frontiera euroatlantica del Dnepr, mettendo in capo all’Europa la sua difesa -come richiesto dal Pentagono – ma ciò andrebbe pure incontro alle aspirazioni di Bruxelles: uno dei paesi core del continente si pone al posto di comando di un programma di integrazione e razionalizzazione di capacità militari, saldando tra loro paesi appartenenti esclusivamente alla NATO – Regno Unito – ed esclusivamente all’UE – Finlandia –, dando forma, dentro l’alleanza atlantica, a una gamba europea imprescindibile e complementare piuttosto che subordinata agli Stati Uniti, come si può leggere nella Strategic Compass.

Le infrastrutture atlantiche e statunitensi manterranno un ruolo insostituibile in questo progetto, ma esso appare perfettamente allineato alle esigenze dell’imperialismo europeo.

C’è di più: la lettera d’intenti con cui si è dato vita all’ESSI non è chiusa ad altri paesi, ed è da vedere come possano interconnettersi con tale protezione balistica altri progetti, come l’intercettore multi-ruolo chiamato TWISTERTimely warning and Interception with space-based theater surveillance – coordinato dalla Francia e finanziato dallo European Defence Fund dentro la cornice della PESC.

A guidare lo sviluppo del TWISTER vi è MBDA, consorzio europeo con sede vicino Parigi e la cui proprietà si divide tra Airbus – società di diritto europeo che in questi anni ha rivaleggiato con la statunitense Boeing –, l’inglese BAE Systems e la nostra Leonardo, le prime due col 37,5% e l’ultima col 25% delle azioni.

Da qui possiamo cominciare ad approfondire il posto dell’Italia in questa filiera della morte, e in particolare quello della Leonardo, dodicesima impresa del settore al mondo e prima in Unione Europea, di cui l’azionista di maggioranza è il Ministero dell’Economia.

Un posto che non si limita al TWISTER, ma è attivo su più campi, non tutti esclusivamente europei, come Enzo Vecciarelli – ex capo di Stato maggiore della Difesa – rivendicava in uno scenario di precipitazione militare che è di gran lunga antecedente all’escalation ucraina.

A inizio aprile 2021, di fronte all’ad di Leonardo, Alessandro Profumo, l’allora ministro della Difesa Lorenzo Guerini e il suo successore Guido Crosetto – all’epoca presidente della Federazione AIAD (Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza) appartenente a Confindustria – il generale già accennava al caccia di sesta generazione Tempest, che proprio sul finire di quest’anno ha preso le prime pagine dei giornali.

Questo nuovo aereo è stato indicato, ancora una volta, come la pietra tombale della difesa europea, poiché è un’iniziativa britannica che compete col Fcas franco-tedesco-spagnolo.

Ma oltre al fatto che non siano programmi nati dal nulla e che non si esclude una loro convergenza – come abbiamo visto il muoversi al di fuori degli schemi redatti dalle istituzioni UE, ma pur sempre su linee euroatlantiche e anzi creando un mix di sistemi di là e di qua dell’Atlantico per renderli indispensabili l’uno all’altro – è una delle vie per arrivare alla difesa europea.

Naturalmente è “a geometria variabile”, come ci ha ricordato il responsabile del Programma “Difesa” dell’Istituto Affari Internazionali Alessandro Marrone; e del resto cosa non lo è stato e non lo è tuttora nella costruzione dell’Unione Europea?

Lo ha dimostrato la Germania con l’ESSI, e lo sa bene la Francia che nella recente revisione del documento strategico nazionale ribadisce, tra le tante cose, di dover ristabilire un dialogo costruttivo con il Regno Unito al più presto. Indirizzo che è già in essere, ad esempio, nella progettazione del missile ipersonico Perseus, che francesi e britannici equipaggeranno dal 2030 e che, seppur sviluppato da MBDA con un interesse di riflesso anche della Leonardo, tiene fuori l’Italia dalla partita.

Ma appunto, nel capitalismo bisogna seguire i soldi per capire quel che si muove davvero sotto la superficie delle facili suggestioni che, per esempio, può produrre un singolo progetto militare, e seguire quelli della Leonardo è molto utile.

Per prima cosa, abbiamo appena visto che questo aspirante «campione europeo» ha una presenza importante anche in lavori non completamente made in UE, ma ciò rende funzionale il suo lavoro proprio in previsione della edificazione di un pilastro continentale della NATO.

Verrebbe anzi da dire che Leonardo, di fronte alla rottura del mondo globalizzato, si è fatto quasi strumento del saldarsi del Blocco Euroatlantico con il fronte del Pacifico, in un legame di reciproco bisogno alimentato con iniziative come il Tempest, a cui difatti si è unito anche il Giappone nel suo primo impegno militare senza la collaborazione USA.

Il paese del Sol Levante ha imboccato anch’esso una svolta bellicista, discutendo tre nuovi documenti sulla sicurezza nazionale, in cui le minacce sono indicate nella Russia, nella Corea del Nord e, ovviamente, nella Cina.

In un tal quadro, la famosa “autonomia strategica” non si raggiunge tout court e – a differenza di tanta sinistra – ai vertici di questo processo ne hanno piena consapevolezza e sanno come muoversi nelle pieghe della storia.

Così, mentre il tentativo di realizzare un mezzo di guerra tutto europeo procede ad ogni modo con il FCAS, che passa anzi a una nuova fase della progettazione, Leonardo con il Tempest supera i limiti che si erano incontrati con l’F-35 e per questo nuovo aereo la tecnologia sarà a piena disposizione dei partner coinvolti, tema non secondario in un settore come questo e per chi vuole fare un salto di qualità in uno scenario internazionale segnato dalla competizione sempre più feroce.

Ma il nostro “orgoglio italiano” con le mani sporche di sangue ha un peso centrale sugli obiettivi strategici individuati dalla UE anche in maniera non mediata, ad esempio con la joint venture Telespazio posseduta al 67% (l’altro 33% è della francese Thales), che opererà come distributore esclusivo dei servizi spaziali offerti dalla nordamericana NorthStar a clienti governativi dell’Europa.

Il settore dello spazio, che è un campo abbastanza «vergine» anche dal punto di vista dottrinario e legale, attira gli appetiti di un soggetto che vuole assumere una dimensione completamente imperialista in un prossimo futuro, e non a caso ha un ruolo centrale proprio nella Bussola Strategica, con la previsione di una Strategia Spaziale UE entro la fine del 2023.

I più non si saranno accorti che tra i diversi articoli delle diposizioni urgenti del famoso “decreto Aiuti”, il numero 51 ha attribuito alle Forze Armate la difesa “delle infrastrutture spaziali e dello spazio cibernetico in ambito militare, mentre a metà dicembre si è svolto il convegno “Una legge italiana per lo Spazio”, organizzato proprio da Fondazione Leonardo insieme alle università Sapienza e Bocconi.

Lì, di fronte al presidente di Leonardo Luciano Carta e in sinergia col ministro della Difesa Guido Crosetto, il ministro del made in Italy ha parlato sì di Italy, ma sempre dentro l’imprescindibile cornice europea per affrontare le ambizioni spaziali di Stati Uniti e Cina in un ambito in cui lo sviluppo tecnologico è fortemente dual use, come ci viene confermato dalla prossima realizzazione alla periferia torinese della Città dell’Aerospazio, finanziata dal PNRR e da aziende private – Leonardo in primis – e che sarà destinata al nuovo campus del Politecnico, ad aree di sperimentazione e agli uffici del programma DIANA per la ricerca su tecnologie emergenti identificate come prioritarie dalla NATO.

Sulla Città dell’Aerospazio ci possiamo fermare. Si potrebbe dire ancora molto sulla riorganizzazione di Leonardo, sulle vendite e sulla collaborazione con Fincantieri, tradizionalmente presente nel settore navale, proprio per le future sfide spaziali; potremmo discutere su come il campione italiano della morte si stia evidentemente specializzando nei sistemi ottici e di monitoraggio all’avanguardia, rafforzando al tempo stesso il legame tra la gamba europea e quella anglo-sassone dell’alleanza atlantica.

Crediamo però che la Città dell’Aerospazio possa considerarsi l’evidenza empirica più chiara di come si riesca a saldare un Blocco Euroatlantico – PNRR e NATO – all’interno dello scontro strategico col mondo multipolare, continuando tuttavia ad agire al suo interno una dinamica di competizione che alimenterà un rinnovato keynesismo militare, foriero di ulteriori disuguaglianze dentro il blocco e moltiplicatore delle occasioni di precipitazione militare all’esterno.

La sfida si svolge ovviamente sulla frontiera dell’innovazione, tramite cui sviluppare opportunità nuove che garantiscano ai vari attori di assumere una posizione di vantaggio nel confronto e – se volessimo scendere ancor di più nella concretezza di quello che abbiamo chiamato euroatlantismo – lo potremmo osservare anche nei singoli alti dirigenti dei colossi aziendali, perché alla fin fine il capitale è un rapporto sociale fatto da persone in carne e ossa.

Basti pensare al nuovo segretario generale di MBDA, Morena Bernardini, che è passata prima nelle joint venture dell’Airbus, di Leonardo e di Thales, per approdare infine al consorzio europeo che si attesta terzo nel mercato mondiale dei missili, comparto che si è già visto essere al centro dell’aggiornamento militare di tutti gli eserciti del mondo.

Prima ancora aveva studiato all’INSEAD (una delle principali scuole per manager, a proposito di quel che si diceva sulla formazione di un “personale politico imperialista”) e alla Sapienza di Roma, dove si è laureata con una tesi su come lanciare satelliti in orbita bassa usando gli Eurofighter: un progetto proiettato alla presenza della UE nello spazio, e in questo momento in fase di attuazione.

La maniera in cui il mondo della formazione e in particolare quello della ricerca universitaria sono piegati alle esigenze di un modello che si prepara alla guerra è sempre più totalizzante – e in vari gradi è sempre stato così.

Non siamo solo noi a dirlo, ma indirettamente ce lo conferma anche Pierpaolo Gambini, dirigente proprio della Leonardo, il quale ha sottolineato che l’impresa “sta raggruppando intorno a sé una rete di università di eccellenza, in Italia e nei Paesi di riferimento, per attivare collaborazioni su progetti di valenza sia accademica sia industriale. In alcuni atenei, inoltre, Leonardo è coinvolta direttamente nelle commissioni di indirizzo dei dottorati e nel collegio dei docenti”.

Ma non bisogna dimenticare che questi avanzamenti tecnologici possono liberare forze che gli apprendisti stregoni difficilmente poi sanno controllare.

In conclusione, sulla scia dell’evidente importanza del mondo della conoscenza in questa lotta per l’egemonia, dedichiamo ancora qualche riga a un tema scientifico che determina i modi di fare la guerra da quasi ottant’anni, adombrando la distruzione dell’umanità stessa. Parliamo del nucleare.

Su nuove generazioni del nucleare e futuro delle giovani generazioni

La ricerca sul nucleare è l’esempio principe del dual use. Nel contesto di guerra aperta tra Occidente e mondo multipolare che stiamo vivendo, questo dual use è riscontrabile non solo nelle applicazioni degli studi in merito, ma persino nell’importanza del versante civile di tali tecnologie per il sostegno dell’impegno bellico.

Il reshoring delle lunghissime filiere formatesi durante la fase detta “globalizzazione”, ora che la necessità è quella di ritornare alla logica di competizione tra blocchi sostanzialmente slegati tra loro, non è qualcosa che si ottiene con uno schiocco delle dita, ma gli effetti del conflitto sul tessuto produttivo euroatlantico sono già qui e ora.

Lo stiamo vedendo con i prezzi del gas, ma lo possiamo vedere anche per l’uranio. Sull’onda della retorica costruita intorno alla “transizione verde”, il nucleare è tornato all’ordine del giorno nel dibattito pubblico, in primis quello italiano, poiché dovrebbe essere una fonte energetica a zero emissioni.

Sulla parzialità e sulla falsità di queste affermazioni rimandiamo a contributi di persone ben più esperte, tra cui quelli presentati come relazioni durante l’attualissimo convegno Un ossimoro si aggira per l’Europa: è l’ambientalismo capitalista, allestito dall’organizzazione giovanile comunista Cambiare Rotta lo scorso gennaio.

Ci concentriamo dunque brevemente sull’ulteriore favore incontrato dal nucleare dal 24 febbraio in poi, cioè dopo l’invasione russa dell’Ucraina, e su cosa si nasconde dietro la spinta che riceve trasversalmente dalla politica e dai media.

Innanzitutto, ciò che non è mistificato è il fatto che la fissione viene vista come una via per fare a meno dei combustibili fossili venduti da Mosca; quel che invece viene detto raramente è che per costruire una centrale servono, oltre a ingenti capitali, dai 7 ai 10 anni.

Il corollario di questa “dettaglio” è che il nucleare non può essere un’alternativa immediata ai prodotti energetici russi, ma che serve semmai a preparare una lunga fase di scontro internazionale sempre più accentuato, a cui noi poveri cittadini qualunque dovremo abituarci, vivendo nell’ansia di un episodio che possa sfociare nella guerra mondiale. Lo sviluppo del nucleare è insomma propedeutico a reggere l’urto di un confronto prolungato.

Ma se questo vale per la UE, che è effettivamente dipendente dal gas e dal petrolio russi, e nella loro sostituzione vede perciò anche l’opportunità strategica di una maggiore autonomia energetica, bisogna capire perché gli USA – che l’autonomia ce l’hanno già – stiano ugualmente cercando di aumentare la quota di elettricità proveniente dalla fissione.

Anche qui, c’è una prima risposta piuttosto semplice e una per cui serve fare un salto nel mondo delle associazioni internazionali di capitalisti dell’imperialismo (nel senso definito da Lenin).

La prima riguarda come, a Washington, abbiano trovato la soluzione per rendersi relativamente autosufficienti dal punto di vista energetico, ovvero attraverso il petrolio di scisto. Questo non solo richiede processi molto complessi e costosi, ma si tratta in sostanza di «grattare il fondo del barile», e anche se la riserva nel sottosuolo tra East e West Coast è stimata in quantità tale che potrebbe durare a lungo, ciò significherebbe scavare più a fondo in più terreni, con costi crescenti, così come l’instabilità finanziaria delle compagnie coinvolte.

Considerato che l’OPEC+, l’organizzazione che riunisce alcuni dei maggiori esportatori di petrolio nella formula che comprende anche la Russia, non sembra essere più disposta a seguire senza fiatare i dettami della Casa Bianca, e vista la possibilità che persino i petrodollari vengano superati, gli Stati Uniti si trovano costretti a correre ai ripari, mostrando così i loro punti deboli a chi vuole vederli.

Ad esempio, i tentativi di rovesciamento del Venezuela bolivariano, tra l’altro anch’esso membro dell’OPEC, sembrano arrestarsi e rafforzano il ruolo dell’America Latina come anello debole dell’imperialismo a stelle e strisce.

In questo quadro prende posto anche la spinta sulla fissione, e così come abbiamo osservato che il cartello dell’oro nero è tutt’altro che un consesso pacifico di sfruttatori alleati contro i lavoratori, ma rispecchia in modi specifici l’evolversi degli equilibri globali, lo stesso possiamo registrare per quello del nucleare, con gli “antagonismi esistenti” che aumentano e si alimentano tra loro.

La seconda risposta ci fa dunque entrare nel merito di come la guerra sta colpendo la filiera dell’uranio.

Tra i vari pacchetti di sanzioni approvati dall’Occidente, risalta la mancanza di provvedimenti contro un tassello fondamentale del sistema di potere che fa capo al Cremlino, ovvero l’ente statale russo per l’energia atomica Rosatom.

Sembra assurdo che un’azienda con una tale portata strategica sia stata dimenticata, e lo stesso Zelensky ha sottolineato l’incoerenza di questa scelta, ma basta sciorinare un paio di dati per comprendere perché l’istituto non è stato toccato.

Euroatom, il corrispettivo della UE sul lato nucleare. posto anch’esso sotto la Commissione Europea, ha riportato che il 20% dell’uranio importato proviene dai giacimenti russi mentre un altro 23% passa comunque attraverso i canali controllati da Rosatom, che rappresenta inoltre il 40% del mercato mondiale rispettivamente della conversione e e il 46% nell’arricchimento del materiale.

L’impresa con sede a Mosca ha un ruolo tuttora insostituibile non solo nella produzione di reattori, ma anche sul versante del know-how e del riciclo del combustibile esausto. Proprio sul nodo delle tecnologie possiamo recuperare altre informazioni dirimenti per analizzare cosa avviene oltre oceano.

A fine marzo, dunque a ridosso dell’escalation, Scott Melbye, presidente dell’Uranium Producers of America che riunisce diverse società del settore, è stato ascoltato in audizione dal Senato statunitense e ha fornito un quadro piuttosto chiaro della posta in gioco: Washington finanzia Rosatom con almeno un miliardo di dollari di acquisti del metallo fissile annualmente, e soprattutto dei famosi “reattori moduli”, gli SMR che sono considerati – o meglio, propagandati – come il futuro del nucleare insieme alla per ora inesistente “quarta generazione”, sono alimentati da un particolare prodotto ad oggi commercializzato solo dalla TENEX, riconducibile al colosso russo.

Il suo nome è HALEU, High-Assay Low-Enriched Uranium, e presenta una concentrazione dell’isotopo sottoposto a reazione tra il 5 e il 20%, superiore a quella usata generalmente in ambito civile, cioè tra il 3 e il 5%. Non è di certo il 90% degli impeghi militari, ma basta pensare ai limiti stabiliti per l’accordo sul nucleare iraniano del 2015 per capire come il confine del dual use sia qui molto sfumato.

È nel sito stesso della Centrus, l’azienda che dal 2019 collabora col Dipartimento dell’Energia degli USA per produrre domesticamente l’HALEU, che sono esplicitati i risvolti che ne possono derivare sul piano bellico, sottolineando che sia la NASA sia il Dipartimento della Difesa valutano con interesse le potenzialità del suo utilizzo.

Insomma, del nucleare si parla perché viene presentato come il passaggio intermedio per la transizione definitiva alle fonti rinnovabili, riducendo intanto le emissioni. Dietro questa narrazione ci sono tuttavia le ragioni della competizione internazionale che caratterizza un comparto strategico, nonché l’opportunità di assumere un ruolo egemone in un mercato che promette nuove opportunità di valorizzazione in periodo di crisi.

Per far sì che esso maturi bisogna però sostenere la sua crescita e serve dare anche certezza di profitto a chi ci andrà a investire ingenti capitali, e se l’amministrazione Biden ha stanziato 700 milioni di dollari nell’Inflation Reduction Act per contribuire a raggiungere il traguardo di un HALEU «autoctono», da noi assistiamo ad esempio alla martellante campagna mediatica sulla necessità ineluttabile del nucleare, con la preparazione di uno sbocco commerciale per gli investimenti.

Un chiaro circolo vizioso su un pericoloso piano inclinato, e una profezia negativa fin troppo facile da individuare dietro quella positiva.

Arriviamo infine alle conclusioni. A quel che abbiamo detto va aggiunto che la precipitazione dei rapporti con la Russia sulla questione ucraina ha spinto ulteriormente lo sviluppo di filiere dell’uranio tutte occidentali, non solo per la citata autonomia energetica.

Esistono finalità di guerra più dirette, ovvero l’applicazione militare delle tecnologie studiate e il tentativo di soffocare l’economia del nemico riducendo gli acquisti, aumentando le sanzioni e rubando clienti alla TENEX. E sullo scenario non si affacciano solo corporations a stelle e strisce, ma anche europee.

C’è chi ha interessi affinché le centrali non vengano dismesse così in fretta, come l’Ansaldo, e chi sfrutta importanti siti minerari in Niger come la multinazionale francese Orano, un tassello tutt’altro che secondario del capitale europeo, della deterrenza atomica francese e nella corsa per l’HALEU.

Anche in questo settore, quindi, possiamo notare una configurazione euroatlantica, ad esempio nell’Urenco, la cui sede è vicino Londra, ma la cui proprietà è divisa tra i governi britannico, olandese e due operatori tedeschi.

Questo emerge da una “disamina concreta della situazione concreta”, mutuando le parole di Lenin, non da elucubrazioni astratte su come immaginiamo il mondo o su come vorremmo fosse. Emerge dall’approfondimento sull’infrastruttura politico-amministrativa di cui il capitale – pur senza “nazioni” in senso novecentesco – ha bisogno per valorizzarsi sul mercato; sull’implementazione di nuove conoscenze sul nucleare con scopi bellici; e infine sui soldi, quelli veri della Leonardo, sul gioco di scatole cinese messo in piedi attraverso partecipate, consorzi e tutti quegli strumenti del capitalismo avanzato e finanziarizzato.

Una lunga catena che lega insieme tutto il mondo, ma senza porre per questo alcun veto allo scoppio di conflitti.

Che una guerra mondiale fosse impossibile “perché ormai tutti i paesi erano uniti dal mercato di beni e servizi” veniva detto spesso anche prima della Grande Guerra, e il reshoring delle catene del valore di cui si sta parlando dall’inizio della pandemia sembra che possa servire anche a prepararsi a questa evenienza…

Di questa catena fanno però parte anche anelli deboli, come lo era la Russia dei Romanov, fortemente penetrata dai capitali inglesi e soprattutto francesi, che nella sua ambizione di giocarsi un ruolo nella partita dei grandi attori internazionali creò le condizioni stesse per far trionfare la rivoluzione.

L’Italia è uno di quegli anelli deboli, e in quanto comunisti abbiamo un compito storico da assolvere in questo paese. Un compito che potrebbe aiutare la causa dell’emancipazione di tutte le classi subalterne del pianeta, e di essere a nostra volta “aiutati”; cioè quello di praticare nel conflitto la rottura della gabbia euroatlantica, con l’orizzonte del Socialismo del XXI secolo.

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