Le elezioni locali – per quanto possano appassionare – restano tali. Indicano alcuni segnali ma non consentono mai – in presenza di risultati obiettivamente non omogenei sul territorio nazionale – un quadro complessivo della realtà. Lo sforzo che va fatto deve invece spingere in questa direzione.
Il primo turno delle elezioni amministrative conferma che il bipolarismo tiene, e questa è indubbiamente una jattura. Il sistema tiene nel senso che la maggioranza della popolazione chiamata a votare, continua a vivere come decisivo l’evento elettorale e a ritenere che siano solo due le opzioni che in qualche modo possono spostare le cose concentrando i voti sui candidati e le coalizioni che hanno maggiori possibilità di affermazione sul piano elettorale.
Questo sistema elettorale di fatto è un sistema blindato che nelle condizioni date continua a impedire ogni opzione di rottura dell’equilibrio bipolare.
Gli unici spostamenti sono consentiti all’interno delle coalizioni e non all’esterno di queste. Fa eccezione l’esperienza dei grillini, la quale appare però efficace solo nelle città e nelle regioni più avanzate e “progressiste” (Bologna, Torino, Milano) ma non nelle città o regioni del centro-sud (vedi Napoli).
L’altro dato che appare evidente è l’inizio della disgregazione del blocco sociale berlusconiano nel suo cuore (la Lombardia) mentre nel Sud sembra ancora reggere. Su questo ha indubbiamente pesato la crisi economica che condiziona concretamente quei settori sociali che avevano affidato la rappresentanza dei propri interessi al PdL o alla Lega. Pur non disponendo ancora di dati disaggregati dal punto di vista sociale, è evidente che dentro la pesante concretezza della crisi, l’appeal della Lega tra gli operai sia diminuita e così come quella di Berlusconi tra gli imprenditori.
Il Partito Democratico perde voti ma ne perde meno di Berlusconi. Ciò gli consente di rimettersi una costola ma non lo sottrae alla propria contraddizione: in queste elezioni ha vinto alleandosi alla sinistra radicale mentre il Terzo Polo appare congelato e inservibile per dare un impulso ad alleanze capaci di produrre cambiamenti significativi. A Torino il Pd vince da solo, a Napoli perde perché rompe con De Magistris, a Bologna e a Milano vince alleandosi con la sinistra. Possiamo dire che il cervello guarda ancora all’alleanza strategica con il terzo polo, ma l’anima deve fare i conti con l’efficacia dell’alleanza di centro-sinistra. Dunque il Pd si avvantaggia del risultato ma si trova ancora imbrigliato nei suoi problemi di prospettiva strategica.
La FdS e Sel rimangono sostanzialmente al palo (secondo l’Istituto Cattaneo), mentre l’IdV tranne che a Napoli perde significativamente consensi. La Fds sopravvive a questa tornata elettorale, si compiace del risultato milanese ma deve fare i conti con i deludenti risultati di Torino (dove andava con un proprio candidato), di Bologna (dove appoggiava il candidato Pd) e con quello di Napoli (dove nonostante il ciclone De Magistris, la FdS che lo ha appoggiato ha raccolto il 3%).
Per SEL la sorpresa è stata indubbiamente molto più amara. La sovraesposizione mediatica di Vendola, il ruolo di “stimolatore” a sinistra del PD, i sondaggi prima e i risultati elettorali generali poi, avrebbero fatto ritenere che per SEL il cammino in queste elezioni fosse tutto in discesa. I dati elettorali dicono una cosa molto diversa, e giustamente Ferrero nell’intervista a Il Fatto sottolinea a Vendola come il distacco tra Sel e FdS del passato sia oggi venuto meno.
Il problema è che sia FdS che Sel interpretano il proprio spazio di successo politico esclusivamente dentro la coalizione con il Pd. I risultati parzialmente confermano questa tesi (anche se Bologna lo smentisce). Ragione per cui FdS e Sel calcano la stessa strada e ritornano sostanzialmente al punto di partenza della stagione politica precedente. Che lo facciano insieme o separati, non segnala discrepanze sostanziali né spinte verso una maggiore indipendenza politica dal Pd.
Per le esperienze di classe alternative e indipendenti si conferma come il terreno elettorale – stante l’attuale sistema – sia un terreno difficilmente praticabile con successo. Le esperienze fatte in questi anni (in Emilia Romagna o a Roma), hanno dato sostanzialmente lo stesso risultato ottenuto della lista alternativa “Napoli non si piega”.
Le “incursioni elettorali” – come noto – non abbiamo mai ritenuto che dovessero agire come elemento principale o decisivo della sinistra anticapitalista, ma solo come un passaggio tattico finalizzato alla riaffermazione di una posizione politicamente indipendente.
Se non c’è un forte radicamento nei settori sociali non può esserci una rappresentanza politica o anche elettorale conseguenti. Da questo nodo non si sfugge, dentro o fuori le urne.
Occorre riaffermare come l’unità della sinistra anticapitalista e la ricomposizione dei comunisti rimangano un fattore propedeutico al radicamento nel blocco sociale antagonista possibile nelle condizioni date. A tale scopo le elezioni vanno valutate sempre in funzione dell’obiettivo politico principale e di un progetto strategico teso al cambiamento sostanziale dei rapporti di forza nella società. Un fattore che non possiamo affatto trascurare rimane infatti la crisi economica che condiziona concretamente il quadro dentro cui agiamo politicamente, e niente sarebbe più fatale dal ritenere che questo sia un dettaglio.
Passati i ballottaggi vogliamo augurarci che si tornerà a parlare di questo.
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Marco Pellegrini
troppo giusto! e non solo per la legge elettorale…