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Renzi, il trionfo del passato remoto

Matteo Renzi è pagato per fare discorsi, per “comunicare”. È la sua unica attività, visibile 24 ore su 24. A governare ci pensa con tutta evidenza qualcun altro. Per studiare uno solo dei cento dossier su cui il governo interviene dovrebbe infatti stare chiuso a studiare – e rimanere zitto – almeno un paio di giorni. Ci è riuscito solo dopo le manganellate agli operai della Ast.

Analizzare la sua retorica è dunque importante proprio per combatterlo. È fin troppo facile, ma non serve a molto, spiegare che dice una cosa e fa l’opposto, che copre con parole di miele attacchi furiosi alle condizioni di vita di chi deve lavorare per sopravvivere. Lo capisce solo chi viene colpito direttamente – magari con una manganellata – da quel che fa. Ma prima sembrava convincente…

La sua grande forza di persuasione sta in una sola cosa: questo paese è malato e deve essere cambiato. È così vero che potremmo essere tutti d’accordo, persino noi. Dov’è il trucco? Diciamola semplice, come farebbe il premier: bisogna operare il malato, ma una cosa è asportargli il tumore, un’altra tagliargli la testa. Renzi sta tagliando la testa al lavoro dipendente, creando una situazione istituzionale e gestionale che esclude possa avere rappresentanza collettiva. Sta cambiando il sistema di riproduzione e redistribuzione della ricchezza sociale. Naturalmente noi lo faremmo in un senso del tutto opposto, asportando il tumore dell’interesse privato come motore della vita economica, ma la gravità della “malattia” è davvero a livello di sistema.

Per opporsi a questo assioma bisogna aver chiaro questo, altrimenti si accetta, nonostante tutto, di accettare la parte che lo stesso Renzi assegna a chi lo contesta:  quella dei“conservatori”. Non si può infatti difendere una situazione “malata” e riconosciuta come tale da tutti. È “innovatore” chi vuol cambiare, non chi vuole mantenere alcuni capisaldi, dei diritti, delle garanzie; perché in un sistema malato terminale nessuno riesce più a vedere delle “parti sane”.

Posizione ottimale, la sua, a patto che la crisi e/o l’opposizione sociale gli lascino il tempo di fare quel che ha in testa. Purtroppo per Renzi, entrambe stanno azzannandolo – con forza decisamente diversa: la crisi picchia più duro – e lo costringono a modulare diversamente il discorso; in fretta, sotto l’urgenza, improvvisando e lasciando quindi vedere con maggior chiarezza quanto sia falso.

A Brescia, davanti agli industriali locali, si è potuta vedere la faglia tra parole e realtà aprirsi con nettezza. Ha parlato in una fabbrica da cui gli operai erano stati espulsi, lasciati a casa senza la paga di un giorno, per decisione del padrone. Mentre fuori – al di là delle recinzioni della “zona rossa” – manifestavano lavoratori, studenti, movimenti. E ha parlato per negare l’esistenza di “due Italie”, “quella dei padroni e quella dei lavoratori”. Piroetta impossibile, stavolta; nonostante il “soccorso bianco” di tutti i media padronali…

«E’ calcolato e progettato un disegno in queste settimane per dividere il mondo del lavoro, farne terreno scontro. E’ una delle idee che ha bloccato l’Italia. Se abbiamo perso vent’anni è perché si è pensato con manifestazioni e proteste di dividere l’Italia in due, tra lavoratori e padroni. Ma non esiste una doppia Italia. Esiste un’Italia unica e indivisibile, che si faccia il lavoratore o l’imprenditore, e questa Italia non consentirà di scendere nello scontro».

Improvvisamente, l’innovatore per eccellenza ha fatto un discorso vecchio, che sa di stantio e di marcio, come l’unità nazionale, siamo tutti nella stessa barca, ecc.

Peggio ancora: ha fatto un discorso da anni ’50, evocando un “complotto” (ha saltato la parola “comunista”, perché avrebbe suscitato risate pensando alla Camusso in questo ruolo) e minacciando contestatori presenti e futuri.

Peggio ancora: ha esplicitato il suo immaginario padronale attribuendo a “manifestazioni e proteste” il ritardo accumulato in venti anni da un paese martoriato invece da privatizzazioni, delocalizzazioni, fughe degli imprenditori verso la finanza speculativa.

Peggio ancora: ha ripetuto, come un disco rotto, che “conosco un solo modo di ridurre la disoccupazione: creare posti di lavoro”. Banale e incontestabile, ma chi deve crearli? Per lui l’impresa e nessun altro, come vuole l’Unione Europea e impongono “i mercati”. Lo Stato, nella sua concezione, assume solo poliziotti o giudici, e concede magari brevi assegni di disoccupazione. Keynesiani arrendetevi, siete cancellati.

Peggio ancora, se fosse possibile: “Il mio cuore è con i cassintegrati, con i disoccupati, con i precari: non sfruttino il loro nome per attaccare l’esecutivo”. Grandioso, effettivamente. Porta nel “suo cuore” le figure più sfortunate del mondo del lavoro; ma li ama tutti come “singoli” e finché non si mettono insieme. Non sopporta che abbiano una voce collettiva, che si diano (o mantengano) una rappresentanza in grado di imporre i loro interessi come agenda di governo.

È effettivamente un cambio di paradigma. Lo Stato ridisegnato dal renzismo – o dalla Troika, fa lo stesso – non prevede più la mediazione sociale; non riconosce più “strati”, “classi”, “figure collettive”. È uno Stato che si occupa soltanto di “servire il mercato” e di impedire opposizioni significative. Peccato che non sia un paradigma “nuovo”. Né convincente.

  

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