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Il rompicapo ucraino nella competizione globale

Nei giorni scorsi, mentre riprendevano in grande stile i bombardamenti dell’artiglieria di Kiev contro le città ribelli del Donbass, le agenzie di stampa diffondevano senza approfondire due dichiarazioni invece molto interessanti.

La prima proviene da Mosca, dove il consigliere del presidente Putin, Yury Ushakov, ha affermato che “”Rispettare” le elezioni in Donbass non significa “riconoscerle”. Ushakov ha detto che “riconoscere e rispettare sono due parole diverse” e che Mosca, che ha già riconosciuto il risultato delle elezioni di Kiev, sollecita a rispettare i protocolli di pace firmati a Minsk e richiede una nuova riunione del gruppo di contatto.

La seconda invece proviene, all’opposto, da un esponente della giunta golpista. In particolare dal governatore pro-Kiev della regione di Donetsk, Oleksandr Kikhtenko, che in tv ha ammesso che nel sud-est ci sono alcune unità delle forze ucraine – nei cui ranghi sono state incorporate milizie ultranazionaliste e neonaziste – “finite fuori controllo” e che “stanno creando problemi nella regione”.

Due dichiarazioni, queste ultime, che riassumono l’enorme guazzabuglio politico, militare e geopolitico che sta andando in scena in quello stato cuscinetto tra Unione Europea che era l’Ucraina, diventato invece un campo di battaglia aperta dopo il golpe filoccidentale di febbraio. Una battaglia sul campo, combattuta con le armi e con le bombe, in Donbass, ma anche una battaglia di tipo economico ed egemonico in tutto il paese, terra contesa da una Unione Europea che per la prima volta dispiega interamente i propri apparati di destabilizzazione, come nella peggiore tradizione imperialista statunitense, per togliere di mezzo un governo contrario alla firma del Trattato di Associazione con Bruxelles ed allargarsi ad est. Salvo poi essere surclassata dal ben più aggressivo protagonismo degli Stati Uniti che, quando ormai il presidente Yanukovich era stato tolto di mezzo, servendosi degli ultrazionalisti e dei neonazisti hanno imposto il golpe cruento e poi la guerra civile per sabotare l’espansione europea e costringere l’Ue ad un suicida muro contro muro con Mosca.

In Ucraina passa una delle faglie dello scontro in atto tra le diverse placche geopolitiche – i blocchi imperialisti alleati e al tempo stesso in competizione tra loro, e le nuove potenze regionali e mondiali in cerca del loro spazio – che spingono l’una contro l’altra per il possesso di risorse, territori, corridoi, in un mondo immerso nella più grave crisi capitalistica che l’ultimo secolo di storia ricordi e nel quale non esistono più terre vergini da conquistare. E, nella logica del “Mors tua vita mea” ognuno di questi blocchi è impegnato in una vera e propria corsa a sottrarre risorse e terreno ai competitori. Dall’Africa centro-occidentale passando per la Libia, la Palestina, il Libano, la Siria, l’Iraq, l’Afghanistan passa un vero e proprio anello di fuoco, un lungo corridoio di paesi invasi, occupati o distrutti dagli spregiudicati attori di una competizione globale sempre più forsennata e cruenta.

L’Ucraina è solo una delle ultime vittime di questa collisione, contesa com’è tra Ue, Stati Uniti e Russia. Quest’ultimo paese – aggredito fin sotto i suoi confini, accerchiato militarmente e colpito da durissime sanzioni economiche – nonostante le avvisaglie già chiare degli ultimi anni non era e non è affatto preparato allo scontro frontale, ed eviterebbe volentieri la guerra diplomatica e commerciale in corso con Bruxelles frutto soprattutto dell’avventatezza degli strateghi di Berlino e di Parigi che evidentemente pensavano di prendersi Kiev senza colpo ferire. Per Mosca l’Unione Europea rappresenta teoricamente una sponda essenziale per rintuzzare le continue provocazioni di Washington, che soffia sul fuoco dello scontro frontale per penalizzare l’economia e l’indipendenza militare europea – oltre che per colpire la Russia – ed è in questo senso che vanno letti gli ambigui interventi dell’amministrazione Putin per quanto riguarda la situazione in Ucraina ed in Donbass. Come la altrimenti poco comprensibile precisazione, da parte del consigliere presidenziale Yury Ushakov, sulla differenza che passa tra ‘rispettare’ le elezioni separate nelle Repubbliche Popolari e ‘riconoscerle’. Se è vero che senza il sostegno politico, materiale ed anche militare di Mosca – il che non vuol dire che ci siano migliaia di soldati russi a combattere sul suolo ucraino come afferma la stampa mainstream senza mai fornire una sola prova di quanto irresponsabilmente scrive – le Repubbliche Popolari di Donetsk e Lugansk avrebbero avuto vita breve, è anche vero che negli ultimi mesi, una volta scorta la possibilità di un accordo con l’Unione Europea ed in particolare con la Germania, il governo della Federazione Russa sta cercando di normalizzare il più possibile quanto si muove in Donbass. D’altronde il controllo delle Repubbliche Popolari è la dote che Mosca può portare ad un tavolo con Berlino da scambiare con un allentamento delle sanzioni e dell’isolamento. Ma se è vero che alle ultime elezioni organizzate dalle Repubbliche Popolari il 2 novembre hanno prevalso movimenti e leader inclini a seguire le indicazioni di Mosca – a partire dal rispetto degli accordi di Minsk – è anche vero che i crimini compiuti dalle forze fedeli ai golpisti hanno reso probabilmente la situazione irreversibile e difficilmente è immaginabile che i territori e le popolazioni di Donetsk e Lugansk tornino a breve sotto il controllo del governo centrale ucraino, seppure in un quadro di maggiore autonomia accordata da Kiev (che i nazionalisti si sono già rimangiati). Se è vero che la nascita e il rafforzamento delle Repubbliche Popolari ha a che fare con la reazione delle popolazioni di lingua e cultura russa allo sciovinismo intransigente dei nazionalisti che hanno preso il potere con il golpe di febbraio e i cui primi atti sono stati di esclusione e di persecuzione nei confronti della “minoranza”, è anche vero che è stato il protagonismo della classe operaia delle miniere e delle industrie pesanti del bacino del Donbass a fornire la linfa vitale per resistere agli assalti armati mettendo anche in discussione lo strapotere dell’oligarchia e imponendo forme di nazionalizzazione di alcune grandi proprietà. Un contenuto e un protagonismo di classe che non sarà facilissimo eliminare con un semplice atto amministrativo che sancisca la fine dell’indipendenza di fatto della Nuova Russia.

Che il controllo di Mosca sul Donbass sia totale, quindi, è assai dubbio.

Ma è altrettanto dubbio che dall’altro lato della barricata l’Ucraina sia stata sufficientemente normalizzata dopo il suo ingresso nella grande famiglia europea e che possa quindi essere controllata senza grandi problemi. Le elezioni parlamentari hanno in realtà sancito uno spostamento netto a destra dell’asse politico, riempiendo di estremisti di destra, squadristi neonazisti e capi paramilitari un parlamento frantumato in diverse forze politiche rissose e poco inclini al compromesso, alle dipendenze dirette degli oligarchi. In tale scenario non sarà facile, per l’Unione Europea, poter contare su un interlocutore unico, forte e credibile, al quale imporre se necessario una trattativa vera con le autorità delle repubbliche ‘separatiste’ e con il governo della Federazione Russa.

L’estrema destra, quella apertamente nazista di Praviy Sektor e di Svoboda, ma anche il Partito Radicale di Oleg Liashko e il Fronte Popolare di Arseniy Yatsenyuk (entrambi di obbedienza statunitense) non vogliono proprio saperne di trovare una mediazione con Mosca e i ‘terroristi’ di Donetsk, ed anzi già premono affinché Kiev scateni una nuova offensiva militare contro la Nuova Russia. Per non parlare dei rinnovati appelli alla pulizia etnica dell’Ucraina, diretti non solo contro i russi ma anche contro le altre minoranze.

Non solo Poroshenko e i liberali più filoeuropei sono usciti ridimensionati dalle elezioni, ma devono confrontarsi anche con una estrema destra che, armata e sdoganata per essere utilizzata contro dissidenti e milizie popolari dell’est, ora si è talmente rafforzata da minacciare e ricattare le autorità centrali di Kiev (le unità fuori controllo della dichiarazione di cui sopra…). Sono sempre più numerosi gli episodi in cui interi battaglioni della Guardia Nazionale o reparti dell’esercito sotto il controllo dei neonazisti abbandonano il fronte e assediano il parlamento e i palazzi del potere di Kiev, avvertendo che se i nuovi governanti non ‘obbediranno al popolo’ verranno rovesciati con la violenza così come è avvenuto per Yanukovich.

Se Poroshenko vorrà rimanere in sella dovrà allearsi con l’estrema destra ‘presentabile’ ma oltranzista di Yatseniuk e Liashko e scendere a patti con i battaglioni punitivi, di fatto alimentando una intransigenza e uno sciovinismo bellicista alla quale le popolazioni e le autorità delle Repubbliche Popolari non potranno che rispondere con un approfondimento dell’indipendenza da Kiev. E non è escluso che altri territori dell’est russo finora rimasti sotto il controllo ucraino possano seguire l’esempio dei ribelli di Donetsk e Lugansk e aprire altri fronti. Le conseguenze dei piani lacrime e sangue imposti a Kiev dalla troika europea e dal Fondo Monetario Internazionale – licenziamenti di massa e tagli al welfare – avranno conseguenze inimmaginabili sulla società ucraina e potrebbero contribuire ad un’ulteriore deflagrazione del paese.

In questo vero e proprio tragico rompicapo, per ora, gli unici che non hanno niente da perdere sono gli Stati Uniti. Che nella versione obamiana si sono già infilati nella crisi ucraina imprimendo a EuroMaidan una svolta golpista e violenta, e che nella versione Repubblicana potrebbero ulteriormente inasprire obbligando la Russia ad una reazione assai più decisa di quella finora messa in campo nell’ottica di una ricomposizione con Bruxelles che per ora appare assai improbabile.

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