«Istigazione a delinquere» è uno di quei reati da codice fascista che solo un legislatore distratto o fin troppo furbo mantiene in vigore. Indecifrabile alla verifica empirica, specie nei casi di opposizione sociale e politica; di scarsa utilità in tutti gli altri casi (se ti convinco a fare una rapina con me dividiamo il bottino, quindi siamo correi e condannabili entrambi a una pena molto superiore; è escluso che ti possa convincere a farla da solo o con altri e poi portarmi la mia parte).
È diventato un “reato foglia di fico”, da usare – in rarissimi casi, per disperazione o protervia – al posto dei reati d’opinione, che in effetti fanno un po’ troppo fascismo del ventennio. Mentre ora siamo moderni e liberali, quindi si deve reprimere il libero pensiero critico senza darne l’impressione.
In ogni caso, imputare un universalmente stimato scrittore per «istigazione a delinquere» è uno di quei passi audaci che o si rivelano presto un boomerang oppure instaurano di fatto un’altra costituzione materiale. Imponendo il sienzio pubblico.
Le premesse per il boomerang ci sono tutte. La fama internazionale dell’imputato, lo sconcerto scandalizzato dei giornalisti stranieri, lo stesso scarto temporale tra fatti – la resistenza attiva in Val Susa è di molto precedente l’intervista solidale di Erri – e profferimento della parola incriminata: sabotaggio.
Le premesse per il regime change anche. L’inesistenza di anticorpi culturali, una magistratura quasi completamente incapace di affrontare cum grano salis i problemi che arrivano al suo esame, una classe politica fatta di servi nominati, un giornalismo mainstream attento solo al rinnovo del contratto individuale e disposto a tutto per accontentare la proprietà. Chi ha dato una sbirciata a La Stampa o al Corriere, su questa vicenda, può farsene un’idea per proprio conto.
Nessuno sembra sapere che la Tav è un’opera inutile, che la Francia ha rinviato ogni decisione sulla sua realizzazione al 2030, che l’unico motivo per cui “bisogna farla” sono gli appetiti di alcune imprese costruttrici, con il solito codazzo di mazzette e di subappalti per “movimentazione terra” in odor di criminalità organizzata. Le uniche cose che devono “far notizia” sono gli sporadici scontri tra popolazione della valle e le forze militari inviate in loco per reprimere la Resistenza (addirittura reparti ritirati dall’Afghanistan! vedihttp://www.tgvallesusa.it/2013/11/tav-missione-val-di-susa-la-clonazione-di-herat/), oppure le voci di intellettuali che classificano la Resistenza stessa come legittima.
In parole povere: nessuno deve opporsi, neanche parlando. Tanto meno animando strumenti di comunicazioni non subalterni. Non è un caso che anche Contropiano potrebbe essere trascinato in tribunale dal dott. Caselli per due articoli pubblicati sul giornale.
E qui cadono i tanti asini della propaganda di regime. Non è neanche passato un mese da quando tutti, anche i più forcaioli nemici della libertà di parola, alzavano i cartelli con su scritto “je suis Charlie”, teorizzando che “non ci devono essere limiti alla satira”. Ora gli stessi tutti trovano normale che invece i limiti debbano esistere. E anche molto stretti.
Ne deriva, quasi come un’equazione matematica, che il limite non esiste solo quando la parola lavora per gli interessi del potere – sfottere le credenze religiose altrui è un aiuto, anche se magari involontario, ai teorici dello “scontro di civiltà”. Quando invece la parola difende interessi opposti diventa reato. Je ne suis plus Charlie?
L’assolutismo è questa roba qui.
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