Il mistero dei gilets jaune francesi attraversa i notiziari e sconcerta, come sempre, le menti “di sinistra”. Intanto qualche leghista italico, che si confessa “commerciante”, prova ad appropriarsi del simbolo (il gilet che è obbligatorio tenere nell’auto) per consegnare a Salvini un pezzo di immaginario. A costo zero.
Il corto circuito mentale, in questo modo, è assicurato. “La sinistra” mediatica italiana – da Repubblica ai residui de il manifesto – conferma completamente il gioco salviniano, assegnandogli di default un movimento che, in Italia, non c’è e non si vede neanche all’orizzonte. Astuti come volpi, davvero…
Naturalmente non mancano i presunti “marxisti” che si dividono nei due campi (“marxisti per Salvini”, assolutamente a-problematici, e “marxisti per Macron”, assolutamente condannanti), alzando un polverone entro cui orizzontarsi è quasi impossibile.
In questo paese sembra diventato “normale” evitare qualsiasi analisi dei problemi oggettivi, o addirittura qualsiasi ricerca delle informazioni, limitandosi a decidere in base a tifoserie e schieramenti immaginari; utili soltanto a confermare se stessi nel proprio immobilismo.
Proviamo perciò a partire dai dati oggettivi.
a) Almeno 750.000 cittadini francesi (dati del sindacato di polizia diffusi 10 giorni fa, non degli organizzatori) sono ripetutamente scesi in piazza, anche sabato 1 dicembre, scontrandosi a lungo con la polizia. La protesta è partita dall’aumento del prezzo dei carburanti deciso dal governo agli ordini di Macron: 6,5 cent euro/lt e la benzina di 2,9 cent, portando il prezzo medio a circa 1,53 euro/lt. Prezzi comunque inferiori a quelli medi italiani. L’aumento è rappresentato soprattutto dalle accise (tasse governative), non da normali dinamiche “di mercato”, adducendo come motivazione la necessità “virtuosa” di iniziare a mettere in moto una transizione ecologica.
b) I protagonisti della protesta sono stati all’inizio soprattutto automobilisti e piccoli autotrasportatori dell’immensa campagna francese, degli insediamenti peri-urbani o delle grandi banlieues parigine (unica metropoli vera e propria del paese). Tutta gente che, per motivi di lavoro, deve percorrere ogni giorni discrete distanze in auto – in assenza di trasporti pubblici così ramificati ed efficienti da poterne fare a meno, presenti in pratica solo nella “piccola Parigi”, all’interno del Boulevard Périphérique – e che quindi vede una quota crescente del proprio reddito erosa dai costi di trasferimento.
A questa massa iniziale si sono poi via via aggiunti studenti, sindacati (fra cui la Cgt), comitati contro il razzismo e le violenze della polizia. I sondaggi riferiscono che l’84% della popolazione è solidale con la protesta (in pratica è la percentuale dei “non borghesi e non possidenti”).
Sappiamo benissimo che la classica analisi dei “marcsisti” (non quella di Marx) si concentra solo sulle dinamiche del salario (che sono ovviamente centrali), e quindi considera “di classe” soltanto le proteste organizzate intorno a questo tema.
Sappiamo altrettanto bene come – invece – le dinamiche sociali e di classe seguano molte altre strade, altrimenti non si potrebbero classificare come “di classe” movimenti come l’occupazione delle terre, il Sessantotto, il Settantasette, e infiniti altri che hanno caratterizzato il dopoguerra in tutto l’Occidente.
La protesta dei Gilets Jaune è partita contestando un prezzo, non il livello del salario (inizialmente). Per la precisione, un prezzo determinato in gran parte dalla tassazione indiretta, ovvero una decisione politica del governo in carica.
Una decisione che modifica la struttura dei consumi, perché costringe a spendere di più per alcuni beni e meno per altri. Tocca dunque chiunque stia al di sotto di una certa soglia di reddito, indipendentemente dal lavoro che gli consente di avere quel reddito. In questo senso è una protesta moderatamente interclassista, che coinvolge lavoratori salariati, partite Iva (o come si chiamano in Francia), piccolissimi imprenditori (dai negozianti al minuto ai “padroncini” del trasporto merci).
Chi gira in Porsche, insomma, non viene leso dall’aumento del prezzo del carburante. Anzi, magari è contento perché incontra meno traffico…
Stabilita questa relativa atipicità della protesta dei Gilets Jaune, viene da chiedersi: ci sono state, nella Storia, altre proteste popolari innescate da aumenti del prezzo di una merce decisi da un governo?
Decisamente sì. Basta ricordare quelle per il pane, a fine ‘800, in Italia. O quelle di fine ‘700, in Francia, che resero famosa una regina cretina che consigliava di distribuire brioches al popolo che chiedeva pane…
Si dirà che il pane è una merce-salario di cui non si può fare a meno, perché bisogna pur mangiare per riprodurre la propria forza lavoro.
Giusto, ovviamente. Solo che la composizione attuale del paniere delle merci-salario è molto diversa da quella di oltre un secolo fa. Allora la forza-lavoro era geograficamente inchiodata nei pressi dei luoghi della produzione: i quartieri intorno alle fabbriche, i contadini nelle masserie, ecc. La mobilità era dunque a costo quasi zero, perché limitata al consumo delle scarpe da casa al lavoro. Mentre il pane costituiva buona parte della dieta alimentare del popolo intero (anche di artigiani, servitori, piccoli commercianti, ecc).
Oggi il pane è una componente minima di quel paniere, pressoché irrilevante (spendiamo per questo, forse, 2 o 3 euro al giorno, in una famiglia di almeno tre persone). Al contrario, il costo del trasporto incide molto più pesantemente, e in proporzione al chilometraggio quotidiano. Un lavoratore (dipendente o autonomo) che debba percorrere 1.000 km al mese (30 al giorno) spende solo di carburante almeno 100 euro; o il doppio, se costretto a farne 2.000. Ecc.
Ma mentre un imprenditore, di qualsiasi dimensione, può provare a scaricare sui clienti in tutto o in parte gli aumenti, un salariato non può neanche pensarci.
Dev’essere per questo, crediamo e sappiamo, che nella piattaforma rivendicativa dei Gilets Jaune è venuto fuori, tra gli altri punti, anche l’aumento del salario minimo.
Solo chi è abituato a pensare in termini tardo-novecenteschi può dunque qualificare, spesso senza neanche informarsi bene, questo movimento come “di destra”. Solo chi immagina che “le masse” siano ancora obbedienti a questo o quel “partito di massa” (come erano comunisti, socialisti, democristiani, fascisti, gollisti, ecc) può dunque credere che, siccome non c’è un partito di sinistra che l’abbia promosso e organizzato, allora deve essere per forza “di destra”. E dire che i risultati elettorali degli ultimi 20 anni, in tutta Europa, dovrebbero aver fatto capire qualcosa anche ai più ottusi…
Al contrario, un movimento popolare di queste dimensioni diventa oggettivamente un campo di battaglia tra forze politiche diverse (escluse quelle di governo, ovviamente), in cui ci si gioca la possibilità di indirizzarlo in un senso o in un altro. Ma anche quando le “nostre” forze soggettive – quelli più simili a noi – fossero troppo deboli per conquistare la direzione unica di un movimento così, in ogni caso potrebbero accrescere la propria influenza. Uscirne insomma più forti di prima.
Chi ne resta fuori, invece, e magari si unisce a Macron (e al Pd e a Il manifesto, qui da noi) nella condanna, in realtà sta decretando la propria morte politica per decine di anni a venire.
E’ la Storia, bellezza! Il conflitto sociale non si presenta mai in forma pura e ogni volta bisogna sapersi conquistare un ruolo. Non ce lo garantisce nessuno, tantomeno se si viene da sconfitte storiche.
P.s. Un discorso a parte, ma nemmeno troppo, va fatto sulla “transizione ecologica”. Che è ovviamente una necessità assoluta di tutta l’umanità, pena l’estinzione tra atroci tormenti. Ma c’è parecchio da interrogarsi se questo obbiettivo possa essere perseguito a là Macron – aumentando i prezzi dei carburanti che la gente è costretta ad usare per vivere e lavorare (se potessero avere auto pulite allo stesso prezzo di quelle inquinanti il problema non si porrebbe in questi termini) – oppure mettendo mano radicalmente al modello di sviluppo. Che pone insomma la domanda: chi paga questa transizione? I salariati, riducendo il proprio tenore di vita, o i capitalisti senza limiti?
Tema vasto ed epocale, come si vede, che non ce la fa ad essere ristretto in solo articolo.
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