I talebani hanno vinto, le potenze occidentali hanno perso.
Gli sconfitti si portano dietro quel sistema di relazioni, ormai oggettivamente indebolite, che aveva caratterizzato la fine del mondo bipolare.
Perde quindi un mondo che aveva scommesso sul complesso militar-industriale e le “guerre infinite” come motore principale di sviluppo – tagliando sul Welfare e aumentando il Warfare – in una mutazione castrense e poliziesca della funzione dello Stato.
Gli USA avevano pensato che quel meccanismo inaugurato di fatto dalla Reaganeconomics, con la corsa agli armamenti contro l’Unione Sovietica, avrebbe pagato all’infinito.
Un mondo che, come riflesso culturale indotto, non si accorgeva che oltre il suo Limes mentale un paese della periferia integrata – la Cina – stava diventando “la fabbrica del mondo” di prodotti ad alto valore aggiunto, mentre la Russia cessava di essere una “potenza regionale”, come la definì Obama in maniera quasi spregiativa, per diventare un global player cui non è conveniente pestare i piedi.
Ora quel mondo è costretto ad inseguire in affanno il principale competitor, la Repubblica Popolare, sul terreno dello sviluppo delle infrastrutture e dell’industria. Lo fa con una ripresa economica minata dalla gestione catastrofica del Covid-19, e ribadendo (attraverso la NATO) la propria ostilità alla Federazione Russa.
Per Biden, ipse dixit, Xi è un “delinquente” mentre Putin un “assassino”. A questo punto dopo la catastrofe afghana, qualcuno – a Mosca o a Pechino – potrebbe tranquillamente dirgli che lui, in fondo, è ormai solo un guappo ‘e cartone.
Facendo due conti, il costo economico della ventennale guerra afghana, solo per gli USA, è stato pari a 2,2 mila miliardi di dollari, cioè più del doppio della prima tranche del pacchetto di rilancio economico complessivo che, con non poche difficoltà politiche, Biden ha fatto passare al Congresso – dove per ora ha la maggioranza -, e ora presenterà in Senato, dove però ha bisogno – per il meccanismo del filibustering – dei voti repubblicani.
Detto sinteticamente: o gli USA ridiventano una potenza economica, collegando la propria finanza ai settori core della sfida tecnologica, ancorandone la valuta, o perdono in partenza la sfida del futuro.
Sono con le spalle al muro.
Da qui ne deriva la difficile equazione politica su come ridefinire le proprie priorità in politica estera, senza che questo scateni un evidente effetto “rinculo” che ne mini eccessivamente il ruolo internazionale. Ma non gli sta andando benissimo.
Dicevamo: è un mondo al crepuscolo, in cui siamo stati immersi e che in parte “ci è entrato sotto pelle”, che sostanzialmente credeva nelle frottole che andava raccontando.
Quella che hanno spacciato per “ricostruzione” di un Paese è stato il semplice foraggiare un po’ di amministratori corrotti e le loro limitate clientele, senza costruire uno straccio di struttura statuale stabile di cui potesse beneficiare una parte della popolazione, ossia una base sociale per il consenso agli occupanti.
Da qui il fiasco del nation building nonostante la coloritura “progressista” del “business umanitario”.
Le armi, ed il personale che è stato addestrato e che non ha quasi “sparato un colpo” (350 mila uomini in tutto) durante l’offensiva finale degli insorti, ora sono una risorsa preziosa per i Talebani che se ne sono impossessati (compresi elicotteri ed aviazione) e base, probabilmente, del futuro esercito dell’Emirato che ringrazia per 83 miliardi di dollari indirettamente ricevuti in dono.
Certamente si sarebbe trattato di una sconfitta anche nel caso in cui si fosse assistito ad un “ritiro ordinato”, frutto di un accordo per la fine delle ostilità nel più lungo e dispendioso teatro bellico in cui sono stati impegnati gli Stati Uniti nella loro storia.
Ma così non è stato.
Kabul è caduta su pressione dell’avanzata talebana – con i soldati americani ed europei ancora con i boots on the ground – mentre il personale residuale occidentale era ancora nella capitale.
Quindi ben prima del 31 agosto, data annunciata i primi di aprile da il neo-eletto presidente degli Stati Uniti Biden in continuità – a parte il posticipo di qualche mese – rispetto ai tempi precedentemente fissati da chi l’aveva preceduto.
Lo strabiliante effetto domino dei Talebani ha sorpreso gli analisti militari ma anche gli stessi “studenti coranici”, visto che uno dei loro più navigati ed importanti dirigenti a Doha ha dichiarato: “abbiamo conseguito una vittoria che non ci aspettavamo“, nei tempi e nei modi in cui è maturata.
Persino i russi non se l’aspettavano (o almeno hanno dichiarato così), ed insieme ai cinesi – le loro delegazioni diplomatiche non chiuderanno – ricordano che l’ultimo leader afghano, prima dello scatenarsi della guerra civile tra il 1992 ed il 1996, Mohammed Najibullah, resistette tre anni dopo la fine dell’aiuto sovietico, avvenuto – confrontato a quello attuale – molto ordinatamente.
E giusto per ricordare la tempra diversa di chi ha attraversato a testa alta la tempesta della storia, Najibullah non fuggì all’estero dopo le sue dimissioni volontarie, ma si rifugiò in un compound dell’ONU per tutto il tempo della guerra civile, fino all’entrata a Kabul dei Talebani a fine settembre del 1996. Edificio da cui lo prelevarono, trucidandolo.
Ashref Ghani, ex funzionario della Banca Mondiale – quello che “sfotteva” i sovietici per la dipartita dalle colonne del Los Angeles Times -, dopo avere pervicacemente negato l’evidenza è fuggito in aereo (non si sa esattamente dove) senza uno straccio di exit strategy per il Paese, riempiendo di soldi alcune macchine ed un elicottero, come un ladro.
Nell’unico punto di Kabul dove ancora governano le Forze Armate USA – l’aeroporto – è il caos totale (in parte rientrato), mentre il resto della città pattugliata dagli insorti appare tranquilla: nessun conflitto e nessun regolamento di conti generalizzato, di cui la “narrazione” occidentale avrebbe potuto approfittare per costruire l’immagine dell’instabilità.
Una parte del personale che aveva collaborato con l’occupazione occidentale è stato letteralmente lasciato a terra. Le immagini di quelli caduti dopo il decollo da un aereo militare statunitense – a cui si erano disperatamente aggrappati – consolida il paragone della fuga da Saigon.
L’interesse per i collaborazionisti, più “narrato” che altro, è solo per quella ristretta élite che ha davvero goduto dell’occupazione, lasciando nella miseria o nella condizione di profugo i propri connazionali.
Dal Vietnam, almeno, erano riusciti ad evacuare circa 110mila dei loro servi!
I tedeschi, i più presenti in Afghanistan a livello militare, hanno potuto evacuare solo in minima parte i propri protegé. Nella più impegnativa missione militare della Germania Unificata hanno fatto cilecca, come tutti.
83 miliardi di dollari spesi per le Forze Armate Afghane, e circa 2.500 militari Usa morti (ed un numero molto superiore di mutilati, circa 10 volte tanto), oltre 240mila soldati impegnati nel ventennio, sono stati gettati nel cesso. Senza nemmeno parlare dei morti afghani.
Uno sforzo che ha solo rallentato i tempi di una crisi sistemica evidente che ora, come un effetto boomerang, si abbatterà all’interno degli USA soprattutto se, come sta avvenendo, continueranno ad emergere le voci di ex-combattenti che si sentono “traditi”.
Non vi è sconfitta militare estera che non abbia ripercussioni all’interno.
In estrema sintesi: se hai basato la tua egemonia sulla centralità della tua valuta, sul peso della tua finanza e le tue capacità militari – sfere profondamente intrecciate, che determinano le scelte politiche complessive – e poi perdi una guerra in questo modo, l’edificio si mostra molto più fragile di come veniva rappresentato ed in qualche modo, se puoi, devi correre ai ripari.
Ne risente il tuo rating. Ma non ci sono grandi “piani B” all’orizzonte.
Trump si sfrega le mani e chiede le dimissioni di Biden, per cui comunque era già finita la “luna di miele” con gli statunitensi, già prima di questo disastro.
The Orange Man è di nuovo in pole position per riconquistare il Congresso nelle elezioni mid-term del prossimo anno, e sfidare Sleepy Joe (o un altro democratico) per le presidenziali nel 2024. L’ala progressista che ha basato la sua strategia sull’appoggio a Biden, dopo la sconfitta di Bernie Sanders alle primarie, osserva un silenzio imbarazzante su tutta la vicenda.
Perdono tutti quegli Stati, compresa l’Italia, che avevano contribuito ad appoggiare con un ruolo subordinato, ma non secondario (compresa la Germania), quest’avventura militare che aveva ridefinito in primis le gerarchie della catena di comando imperialista e “occupato” il centro euro-asiatico: uno spazio geopolitico che ora, torna ad essere fondamentale.
La conquista talebana pone le basi per la vittoria del Grande Gioco del XXI Secolo da parte di Cina, Russia e Iran futuri possibili partner dell’Afghanistan, che ora è senza una forza che sia realisticamente in grado di minacciarne la sovranità nazionale, se a sua volta non viene minacciato.
Forse per la prima volta nella storia contemporanea non sarà più solo uno “Stato cuscinetto”.
Sarà tutto lineare? Niente affatto. E sarà forse più impegnativo per la Russia, votata comunque ad un “estremo pragmatismo” rispetto alla Repubblica Popolare. Entrambe a luglio avevano incontrato i Talebani con tutti i crismi protocollari che la diplomazia riserva per i rappresentanti ufficiali di uno Stato, più che ad una organizzazione di insorti.
La vittoria talebana elimina un ostacolo al progetto alla Nuova Via della Seta cinese e fa da ponte geografico alla partnership strategica sino-iraniana, ostacolata fino ad ora dalla presenza militare occidentale.
L’occupazione afghana era forse l’ultimo bastione di quella politica che prima voleva realizzare – fallendo – il “Grande Medio Oriente” sotto Bush, e poi – fallendo una seconda volta – il “Pivot to Asia” durante Obama.
Crollato l’avamposto afghano, anche la Nuova Guerra Fredda contro la Cina perderà parte del suo slancio e probabilmente alcuni potenziali alleati. Si pensi al rischio che corre l’India, nell’andare eccessivamente dietro a Washington…
Perché seguire l’ennesima follia nord-americana, penseranno da oggi gli statisti più intelligenti, anche a libro paga degli americani, ad ogni latitudine?
Allo stesso tempo, l’ascesa talebana può essere un volano per una maggiore cooperazione contro il terrorismo islamico che ancora infesta gli Stati caucasici, a danno della Russia, e lo Xingiang ai danni della Cina.
Visto il “nostro” ruolo nell’occupazione militare del Paese e nella “Ricostruzione” al fianco degli anglo-americani, abbiamo compromesso ulteriormente la nostra posizione internazionale ma, ancor più rilevante, rimane il fatto che in venti anni, tranne lodevoli eccezioni individuali, nella composita compagine politica che ha avuto responsabilità di governo TUTTI (Rifondazione Comunista nel Prodi-Bis e Movimento 5 Stelle) hanno votato “per crediti di guerra”, pensando che il dominio USA e NATO, e la subalternità alle loro politiche guerrafondaie, non potesse essere messa in discussione.
Ora sono stati tutti storditi – anche a sinistra – dalla scoperta che si trattava di “un gigante dai piedi d’argilla“, che faticherà non poco a rinsaldare il legami di fiducia con i propri alleati europei e quelli asiatici.
Con l’entrata dei Talebani a Kabul, è finito un mondo. Dai suoi rantoli potrebbe nascere una nuova configurazione geopolitica verso un mondo effettivamente multipolare, che assicuri una “pace duratura”, come ha giustamente affermato il nuovo premier iraniano.
Paradossalmente i Talebani, molto attenti alle trasformazioni intercorse in questi vent’anni su una popolazione molto più “urbanizzata”, metà della quale è sotto i quaranta anni, si sono affrettati a fare dichiarazioni di apertura a destra e a manca: verso le minoranze etniche, le donne e chi ha collaborato con il governo, promettendo l’amnistia.
Già una decina di anni fa alcuni analisti prevedevano che gli yankees sarebbero usciti con le ossa rotte dal Paese Asiatico.
Ma se vogliamo andare più vicino nel tempo, dopo gli “Afghan Papers” pubblicati alcuni anni fa dal Washington Post nessuno, nonostante l’evidenza, ha voluto mettere in discussione nel nostro ridotto nazionale l’avventura militare e la parte di “bottino di guerra” che sembrava di poter sfruttare.
Sembrava, appunto.
Il Karma occidentale è finito, prendiamone atto senza alcun rimpianto.
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alessandro baccarin
Grazie per questa analisi limpida e chiara.
Ho un solo dubbio: il ritiro americano, forse, nelle intenzioni più nascoste dei pensatoi geostrategici nordamericani, doveva essere utilizzato in funzione anti-iraniana e anti-cinese. La presenza dei Talebani, che non bisogna dimenticare sono un altro coniglio uscito dal cappello della CIA e company nei lontani anni ’90, avrebbe dovuto costituire un bastione anti-scita, come lo è di fatto, e una spina nel fianco molle della Cina, il fianco delle minoranze islamiche. Forse i calcoli sono stati sbagliati, e non è la prima volta che ciò accade. In ogni caso l’immediato futuro è difficilmente prevedibile per l’area. Mentre senz’altro questa vicenda è l’ennesimo tassello del declino americano.