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Afghanistan. Assalti talebani per accordi sempre più stretti

Sia che assaltino militari Isaf con un ordigno scagliato da un ragazzino, che li colpiscano vestiti da soldati afghani nelle cui file s’infiltrano, o attacchino Kabul in grande stile – all’aeroporto e nella “città proibita” delle ambasciate – com’è accaduto nella due giorni di fuoco a opera di comandi probabilmente diversi, l’ennesima campagna di tarda primavera della guerriglia talebana non lascia agli occupanti Nato un attimo di respiro. Purtroppo la popolazione è spesso vittima ignara di quel che accade sulla propria pelle. E se governi occidentali dalle decisioni ingessate, come l’attuale di Palazzo Chigi, si trastullano con l’ipotesi di un disimpegno dei contingenti nel 2014, il vero, grande, sbandierato ritiro a stellestrisce sarà l’ennesimo bluff con cui si mascherano accordi coi potentati locali in cambio di una presenza strategica duratura. E’ quanto si prevede per il futuro e l’accelerazione militare taliban serve da propaganda per alzare ulteriormente la posta sulla propria integrazione nell’Afghanistan di domani.
 
Trattative Non è un segreto come da oltre due anni il Dipartimento di Stato tramite agenti della Cia, discuta con varie componenti talebane – mullah Omar, Rete di Haqqani – sul futuro del Paese. I colloqui furono avviati non ad Abbottabad o nelle aree tribali di amministrazione federale del confine afghano-pakistano, ma in un residence bavarese. Un pezzo grosso della diplomazia statunitense come Holbrooke fece appena in tempo a sapere l’andamento degli iniziali incontri prima della fatale rottura dell’aorta che gli tranciò la vita. Dalla fine del 2010 ne sono accadute di cose ma il progetto prosegue. Prevede la spartizione delle 34 province afghane fra vari Signori della guerra – e degli affari illegali e legali – con gli stessi talebani coinvolti nel business. Un esempio è la famiglia degli Haqqani che controlla il racket delle estorsioni e protezioni di aziende impegnate sul territorio, cresciute nonostante la guerra. Oltre al presidente Karzai, che in questi tre anni ha tenuto la porta aperta ai taliban (in verità più agli uomini del mullah Omar che all’imprevedibile Jalaluddin Haqqani e ai dissidenti della Shura di Quetta), il maggior tramite fra le parti è il fondamentalista Hekmatyar, vecchissima conoscenza della guerra civile afghana sempre sulla breccia.
 
Il finto ritiro E’ lui a mediare i rapporti coi “turbanti” che si mostrano più duttili d’un tempo anche in fatto di costumi, ad esempio il mullah Omar ha fatto sapere di non osteggiare più le scuole femminili, e mostrerebbero, qualcuno non tutti, disponibilità per le cariche istituzionali. Questo già accade coi Signori della guerra presenti nella Loya Jirga e nel governo Karzai di cui Fakhim e Khalili sono vicepresidenti. Accanto alle stratosferiche cifre versate dall’Occidente per organizzare e addestrare un esercito locale che continua a mostrarsi inadeguato viaggia la vulgata del ritiro delle truppe americane, una promessa assolutamente parziale. Riguarderà soprattutto truppe di terra, sebbene la stampa con entrature fra i funzionari del Pentagono sostenga che 20.000 fra marines e altri reparti d’assalto resteranno in alcune province. Di fatto la presenza militare futura – patteggiata appunto coi combattenti locali – si concentrerà nelle basi aeree; alcune continueranno a essere basi logistiche, altre serviranno per la guerra coi droni, programma già ampiamente sperimentato e consolidato in Pakistan.
 
Cuore strategico All’ampliamento già terminato a Bagram a nord di Kabul e quello in via di ultimazione a Jalalabad a est, stanno seguendo Camp Marmal a Mazar-e Sharif verso il confine tagiko. Poi Kunar a est confine pakistano, Kandahar a sud, Herat a nord-ovest. Basi esistenti e da ingrandire, certo non da cancellare o lasciarle gestire all’esercito locale nonostante quel che sostiene la battente propaganda. Ma se i Taliban sono diventati interlocutori chi andranno a colpire i velivoli senza pilota? Talvolta loro, perché la storia della diplomazia Usa mostra passaggi repentini di accordo e scontro in spazi temporali brevi. In linea generale Washington pensa alla strategia di medio termine per il controllo di un’area che rimane strategica e di cui l’aspro suolo afghano rappresenta il cuore. Ci sono potenze regionali in concorrenza che gli Stati Uniti vogliono controllare da vicino: il nemico giurato iraniano e l’imprevedibile alleato pakistano. Ci sono le nazioni serbatoio di riserve petrolifere e gas (Turkmenistan, Uzbekistan) che non si vogliono lasciare in balìa di Russia e Cina. C’è appunto la Cina che un lembo di terra afghana carezza, e in fatto di mastodonti c’è l’India finora benevola alleata, ma in un rimpasto degli interessi mondiali chissà?
 
Nuovi sfruttamenti I giacimenti delle cosiddette “terre rare” scoperti nel sud del Paese agli inizi del 2011 da scienziati ovviamente statunitensi hanno cementato il piano di presenza duratura legandolo al controllo strategico del lontano Medio Oriente. Le “terre rare” sono elementi chimici utili per la realizzazione di apparecchiature come superconduttori, fibre ottiche, catalizzatori pane quotidiano della produzione dell’alta tecnologìa. In più il sottosuolo afghano è ricco di cobalto, litio, rame, ferro e anche idrocarburi vera manna per il businnes del sottosuolo. Infatti alcuni colossi come la ExxonMobil si sono già mossi ottenendo dal governo Karzai assegnazioni per carotaggi. Certo la concorrenza globalizzata vede la Cina impegnatissima nella partita e non disposta a essere seconda a nessuno. Le sue China National Petroleum Corporation, assegnataria assieme alla locale Watan Oil&gas di estrazioni nel bacino di Amu Darya, e la China Metallurgical Group che s’è aggiudicata contro decine d’imprese concorrenti lo sfruttamento della miniera di rame a Aynak versando nelle casse governative ben tre miliardi di dollari sonanti, mostrano quale sia la frontiera degli interessi in gioco. Negli affari di ritorno ci sono dentro Karzai, Warlords e Taliban con cui Obama e chi lo seguirà alla casa Bianca alternano approcci muscolari e carezze. Una tattica che ormai Omar e Haqqani hanno imparato alla perfezione, praticandola.

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