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La democratura è qui

Da un po’ di tempo – e con molta più compattezza dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina – leader occidentali, media, “esperti” di stretta osservanza euro-atlantica ci bombardano con la dicotomia “democrazie contro autocrazie”.

Le prime sono ovviamente i “paesi liberi” dell’Occidente neoliberista, le seconde tutti gli altri nel mondo, indipendentemente dal tipo di regime politico vigente.

Sulla serietà di questa dicotomia è bene nutrire seri dubbi, perché quanto accade qui in Occidente difficilmente può essere classificato come pienamente “democratico”.

L’esempio più chiaro, in questi giorni, viene dalla Francia. Un governo privo di una maggioranza parlamentare, impone una riforma delle pensioni che, secondo tutti i sondaggi, vede contrari oltre i due terzi dei cittadini.

Più esplicite ancora sono le piazze, dove la rabbia popolare viene affrontata sempre più duramente da una polizia esplicitamente ridotta a cane da guardia del potere e “dei ricchi” (Macron è il loro presidente, dicono tutti).

Il Parlamento francese (l’Assemblea Nazionale) non ha potuto neanche votare quella riforma, perché il governo è ricorso al famigerato articolo 49-3 della Costituzione gollista (la base della V Repubblica) che consente di bypassare quello che in democrazia è considerata la sede del potere legislativo.

Ma se le leggi le fa il potere esecutivo – il governo, insomma – siamo già fuori del perimetro democratico disegnato fin dai tempi di Tocqueville, entrando nel mondo opaco delle democrature. Ovvero quei regimi dove puoi comunque votare per un partito qualsiasi, ma puoi solo scegliere da chi vuoi essere vessato sul piano concreto e preso per i fondelli su quello comunicativo.

Per capire la gravità di quanto accaduto, sul piano dei “princìpi fondamentali”, basta ricordare che per approvare la mozione di sfiducia contro il governo è necessaria la maggioranza del Parlamento, mentre questa non serve per far approvare una legge che vede il paese contrario.

Aggiungiamoci il dettaglio – non secondario – che le due opposizioni maggiori (la sinistra del Nupes, sotto la guida di fatto di Jean-Luc Mélénchon, e la destra parafascista di Marine Le Pen) non hanno ovviamente sommato i loro voti, e avremo l’immagine di un Parlamento che non può contare nulla.

Del resto i deputati del gruppo di Macron (Renaissance) hanno abbandonato l’aula prima della discussione e del voto, lasciando sola il primo ministro Elisabeth Borne pur di non mostrare i propri volti in tv, e diventare quindi obiettivo della rabbia popolare nei collegi in cui erano stati eletti.

La piazza, a sua volta, aveva avvertito: “o la mozione di sfiducia, o il sampietrino!”

Alternativa riproposta in termini più politici proprio da Mélénchon: “se non volete più violenza, accettate la democrazia”.

C’è poco da girarci intorno: quella dicotomia democrazia/autocrazie e tutta la narrazione propagandistica che l’accompagna non stanno più in piedi. E non serve neppure ricordare che anche nelle cosiddette autocrazie il popolo vota, con forme in qualche caso diverse, in altri del tutto simili (per esempio in Russia, in Iran, ecc).

E’ invece proprio sull’involuzione degradante della “democrazia parlamentare” – qui nell’Occidente capitalista dove era stata elaborata – che bisogna concentrare l’attenzione e la critica.

Macron ha fatto nel suo paese ciò che l’Unione Europea fa quasi ogni giorno: approvare leggi presentate del potere esecutivo, perché l’inutile Parlamento di Strasburgo non possiede neanche formalmente quello legislativo.

Gli europarlamentari non possono insomma neanche presentare una proposta di legge. Si limitano ad approvare (e qualche volta no) quanto deciso dalla Commissione (il governo europeo) e passano il loro tempo ad elaborare pagelle di “democraticità” e “rispetto dei diritti umani”, facendosi persino corrompere per questo.

Ma i vincoli antidemocratici sono ormai diventati forma e sostanza della governance nel Vecchio Continente. Facciamo esperienza da quasi 30 anni del fatto che, qualsiasi sia la sfumatura di colore del governo, è impossibile decidere alcunché di sostanziale sulle politiche decisive: bilancio, welfare, mercato del lavoro, ecc.

Qualcuno ci dimostri, se ne è capace, la “differenza” tra un governo Meloni, Draghi, Letta, Renzi, Berlusconi, Prodi, ecc, su questo piano.

Ad ogni governo – e ad ogni passo avanti della crisi sistemica dell’Occidente neoliberista – si fa un passo avanti verso l’affermazione di un potere che non sopporta limitazioni né “lungaggini”, nel sostenere gli interessi delle imprese, delle banche e della sedicente “classe politica” che le rappresenta.

Con deformazioni del concetto stesso di “legge”, particolarmente evidenti qui in Italia, con il governo Meloni. Si parli di rave oppure di diritto di manifestare, di scioperi o di tifoserie calcistiche, di anarchici o di migranti, viene fuori con sempre maggiore nettezza l’idea per cui la “legge” è – né più, né meno – soltanto l’espressione della volontà di chi comanda.

Non si perde insomma più tanto tempo nel cercare di regolamentare quelli che sono stati sempre diritti esigibili, con più o meno difficoltà a seconda dei tempi, ma si procede con i divieti. Così che ogni pretesa di esercitare quei diritti diventa occasione di gridare all’”allarme”.

Potremmo citare quanto avviene in Israele, dove persino gli unici cittadini con pieni diritti – quelli di fede ebraica – sono ormai costretti ogni giorno a manifestare per contrastare un regime sempre più apertamente fascista, corrotto, avido e perciò forsennatamente guerrafondaio.

Potremmo parlare della Gran Bretagna, dove pure gli scioperi sono ricomparsi dopo quasi 40 anni di rassegnazione sociale. E il governo conservatore ringhia…

Lo abbiamo detto tante volte da farla diventare una frase quasi rituale: la crisi sistemica è alla radice della tendenza alla guerra. Ora la guerra è qui, e noi ci siamo ogni giorno più dentro.

La guerra – esterna, per ora – porta con sé anche una economia che le corrisponde, che mette al posto di comando certe produzioni – armi e munizioni, in primo luogo – e in secondo piano altre.

Ma la guerra militarizza anche le relazioni sociali e politiche. Se c’è un “nemico esterno” da combattere non è più ammesso che le decisioni dei vertici possano essere contestate. La dialettica politica si restringe nella stessa misura in cui i salari e i diritti del lavoro vengono compressi.

Lo si capisce dalla nonchalance con cui, quando qualcuno obietta sulla scarsa “democraticità” di un regime – quello ucraino – che ha messo fuori legge tutti i partiti di opposizione, persino l’ultimo dei conduttori tv glissa dicendo “ma c’è una guerra…”.

La “crisi della democrazia” impostata teoricamente già 50 anni fa dai think tank imperialisti sta diventando realtà concreta. La democratura è qui, al massimo si traveste con le chiacchiere dei talk show…

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1 Commento


  • Andrea Vannini

    “la democrazia é il fucile sulle spalle degli operai”

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