Pubblichiamo un estratto dal testo “Autonomi XI – L’Autonomia Operaia meridionale” (Derive Approdi edizioni) dedicato alle lotte, alle organizzazioni e al contesto storico e sociale degli anni Settante e Ottanta nel Meridione d’Italia.
Il contributo che pubblichiamo narra la importante e significativa vicenda del Terremoto (23 novembre ’80), il poderoso ciclo di lotte popolari che prese il via dalla quella tragedia e il complesso delle questioni che i vari attori politici svolsero in quel contesto. Temi e contraddizioni che, a vario titolo, ancora riverberano nell’area metropolitana napoletana e nella nuova funzione che la capitale del Mezzogiorno assurge nella odierno corso della crisi.
’O Terremoto!
La scossa. Il sisma si presenta
Era una domenica – precisamente le 19.34 del 23 novembre 1980 – quando il sisma si scatenò entrando, prepotentemente, nella vita, negli affetti, nel lavoro e nell’insieme delle relazioni sociali di una ampia area del meridione d’Italia. Dalle zone del Sud Pontino laziale fino giù verso la costa Tirrenica Calabrese, passando per l’intera Campania – con particolare virulenza in quel «cratere» localizzato nel cuore dell’Irpinia – e allargando il suo raggio di morte fino ai paesi del versante potentino della Lucania. Un’ampia zona, dal mare alla catena appenninica, attraversata da un sisma che provocò – secondo le cifre ufficiali – 2914 morti, 8848 feriti e circa 280.000 sfollati e senza tetto. Un disastro di proporzioni enormi i cui effetti, ad ampio raggio, sono riverberati fino ai giorni nostri.
Basta interloquire con una persona campana o lucana che abbia superato di poco i 40 anni e si coglie subito che nei ragionamenti generali, nei modi di interpretare il tempo andato, ‘o Terremoto costituisce un prima e un dopo, una sorta di frattura temporale e di originale parametro di periodizzazione della propria e altrui esistenza. Insomma – senza scomodare sociologi o altre figure accademiche – posso affermare che ‘o Terremoto è stato un evento totalizzante, spalmato per decenni lungo diverse generazioni ed entrato nei comportamenti e nelle modalità di vita e di riproduzione sociale di milioni di persone nella più importante area del Meridione d’Italia.
Ero fermo, seduto nella Fiat 126 di mio padre, con una mia amica dell’epoca, in via Repubbliche Marinare (zona orientale di Napoli) quando avvertii un sobbalzo improvviso. Mi voltai preoccupato, credendo di essere stato tamponato e immaginando già le reprimende di mio padre circa gli eventuali danni provocati all’auto, ma non c’era nessuno dietro di noi. Era la terra che sussultava e, qualche istante dopo, il tipico moto ondulatorio che si avverte in simili avvenimenti mi fece comprendere che si era verificata una scossa di terremoto.
Alzai lo sguardo e vidi i lampioni stradali che oscillavano disegnando fasci di luce in movimento e iniziai ad ascoltare le urla delle persone che cominciavano a precipitarsi verso la strada dalle proprie abitazioni. Salutai velocemente la mia amica e mi diressi, immediatamente, verso casa a San Giorgio a Cremano, che dista pochi chilometri dal punto in cui ero fermo, ma impiegai più di un ora perché le strade erano affollate di gente impaurita, scossa e disorientata.
Lungo il percorso notavo calcinacci e pezzi di intonaco che si erano scollati dagli edifici e mi accorsi che molte persone avevano la radiolina alle orecchie. In pochi minuti erano passati dall’ascolto delle allora abituali trasmissioni della domenica sera, cronache e commenti sportivi soprattutto, alla ricerca spasmodica di eventuali notiziari dove apprendere qualche notizia.
Allora non esistevano i telefonini e la radio (specialmente le radio libere, non necessariamente «alternative»), attraverso la modulazione di frequenza, era uno strumento molto presente nelle abitudini di vita delle persone. Arrivai a casa e dopo essermi assicurato che i miei genitori non avessero alcun problema, ridiscesi per strada e incominciai a rendermi conto della enormità di quello che era successo, anche perché i primi telegiornali iniziavano a dare conto della vastità del terremoto e cominciavano a emergere i numeri dei morti e delle immani distruzioni che si concentrarono particolarmente in Irpinia, nei paesi dell’alto Salernitano e del Potentino.
Tra le prime cose che mi vennero in mente fu la sorte dei compagni che erano ristretti nel carcere di Poggioreale. Qualche settimana prima erano stati arrestati, nel napoletano, numerosi compagni nel corso delle varie inchieste giudiziarie che in quel periodo vivisezionavano le organizzazioni rivoluzionarie e i movimenti sociali. Per cui sapevo che nel padiglione della Grande Sorveglianza di Poggioreale erano rinchiusi alcune decine di compagni e, naturalmente, mi preoccupai della loro integrità.
A quel punto recuperai un’altra auto e assieme ad alcuni compagni di San Giorgio a Cremano ci recammo verso il carcere con l’obiettivo di raccogliere notizie. Arrivati nei pressi dell’edificio del penitenziario fummo fermati da un enorme cordone di polizia e carabinieri che avevano circondato il perimetro del carcere impedendo qualsiasi avvicinamento alla cinta muraria.
Dall’esterno – a diverse centinaia di metri dalle mura – ascoltavamo attoniti il fragore che proveniva dal carcere. Notavamo sugli spalti e a ridosso delle garitte che gli agenti di custodia con i caschi in testa e impugnando i mitra si muovevano scompostamente e abbastanza nervosi. Comprendemmo che era in corso una rivolta e che i padiglioni erano tutti nelle mani dei detenuti. Subito dopo la prima scossa, infatti, i secondini in servizio nei piani dei vari padiglioni erano scappati buttando in aria le chiavi delle celle.
Bastò poco, ai detenuti in preda al terrore, per distruggere i cancelli delle singole celle e riversarsi nei rispettivi piani dei padiglioni fino a raggiungere la parte interna dell’ultimo muro esterno di cinta dove si erano riposizionati gli agenti di custodia coadiuvati da celerini e carabinieri giunti in forze. Un dispiegamento che serviva a evitare una fuga di massa ma che lasciava, di fatto, lo spazio interno del carcere totalmente nelle mani dei rivoltosi.
Per alcune giornate – giorni non ore – i padiglioni divennero un allucinante girone infernale, ben descritto senza alcuna esagerazione cinematografica dal film di Giuseppe Tornatore Il Camorrista1, in cui le squadre della morte della Nuova camorra organizzata (NCO) regolarono i conti, attraverso efferati omicidi, con i loro avversari appartenenti alle «paranze» dei clan rivali.
Quei giorni di morte e terrore a Poggioreale servirono, nei mesi a seguire, a solidificare i nuovi equilibri nei rapporti di forza interni ai circuiti della criminalità organizzata e contribuirono al consolidamento di un grumo di interessi (che solo riduttivamente possiamo ricondurre alla figura di Raffaele Cutolo e alla sola NCO) che fin dalle prime settimane seguenti al terremoto entrò, prepotentemente, in campo nei processi legislativi ed economici che si sarebbero messi in moto, con il sisma, in città e nell’intera Campania.
Troveremo, infatti, la mano pesante dei poteri criminali – si badi bene – sempre in intreccio/sintonia con l’allora ceto politico di comando in tutti i passaggi topici di quello che, nei mesi successivi al terremoto si delineerà come il lungo percorso di ricostruzione post sisma ancorato legislativamente, in gran parte, alla Legge 219/81.
Ma ritorniamo al racconto di quella notte tra il 23 e il 24 novembre che passai con i compagni sotto le mura di Poggioreale dove assistemmo attoniti a quella rivolta di cui si conobbero la reale portata e i dettagli solo nelle giornate successive. Solo dopo diversi giorni venimmo a conoscenza della sorte dei compagni detenuti che, in virtù della condizione di semi isolamento a cui erano sottoposti2, riuscirono a restare esclusi dalla rivolta e dal successivo mattatoio che prese corpo quella notte.
La mattina del 24 novembre ci consegnò uno scenario urbano di desolazione e di diffusa mestizia. La città era ferma, centinaia di migliaia di persone trascorsero la notte all’addiaccio e nelle auto. Per molti giorni le piazze di Napoli si trasformarono in accampamenti rischiarati, durante le ore di buio, da falò e ceppi ardenti. I danni alle abitazioni apparvero rilevanti a fronte della già pessima qualità del patrimonio immobiliare della gran parte dei palazzi. Il numero dei morti in città superò il centinaio e tranne qualche anziano che morì per infarto la grandissima parte derivavano, unicamente, dall’edificio crollato a via Stadera3.
La sera del primo o del secondo giorno ci riunimmo nella sede del Centro di documentazione Arn, situata nel prestigioso Palazzo Marigliano, in via San Biagio dei Librai, nel cuore del centro antico di Napoli. L’Arn era l’acronimo di Associazione risveglio Napoli, creata a metà degli anni Sessanta da Vera Lombardi e da altri intellettuali napoletani tra cui Fabrizia Raimondino e Goffredo Fofi, attivisti dell’allora sinistra socialista lombardiana ed esponenti del mondo cattolico di base e del dissenso.
L’Associazione sviluppava una attività che ora definiremmo di «mutualismo» ma che – considerate le condizioni di degrado e di indigenza che in quel periodo allignavano nel centro storico napoletano – costituiva un impegno di autentico pionierismo culturale e di grande passione politico/pratica. Sul finire degli anni Settanta, a seguito del lungo ciclo di lotte e di sviluppo delle organizzazioni comuniste e di classe, la sede dell’Arn aveva cominciato a ospitare riunioni di collettivi studenteschi, associazioni di familiari di detenuti e, anche, alcuni gruppi di compagni che, a vario titolo, erano riconducibili all’area dell’Autonomia Operaia.
In quel periodo – parliamo di un anno dopo la grande retata nazionale del 7 aprile 1979 e quasi 11 mesi dopo un’inchiesta giudiziaria (10 gennaio 1980)4 che aveva colpito i «compagni del Vomero», tra cui Achille Flora e Fulvio Ricci, afferenti al circuito politico della rivista milanese «Rosso» – la sede dell’Arn era un punto di incontro di compagni come me, ed altri, in rapporto con i Collettivi Politici Veneti per il Potere Operaio e impegnati nel progetto del Movimento Comunista Organizzato, ma anche di attivisti e militanti di comitati di quartiere e di collettivi territoriali che si collocavano in una area politica, molto meno strutturata, che genericamente potremmo definire di Autonomia sociale.
L’Arn, inoltre, svolse – con intensità organizzativa alternata che risentiva, di volta in volta, del pesante clima repressivo e di azzeramento di ogni soggettività militante che caratterizzò tutti i primi anni Ottanta – una discreta attività di controinformazione, di solidarietà con i prigionieri politici e di internità militante in diverse situazioni di conflitto metropolitano.
Il Centro di Documentazione Arn fu parte integrante del nuovo tentativo dell’area dell’Autonomia operaia di ricostruire uno proprio spazio politico nazionale all’inizio degli anni Ottanta tramite la partecipazione attiva alle esperienze del Coordinamento nazionale antinucleare antimperialista e del Coordinamento nazionale liberare tutti.
Ai blocchi di agosto e di dicembre 1983 all’esterno dell’aeroporto militare Magliocco di Comiso in Sicilia, al corteo nazionale, ferocemente attaccato dalla polizia, contro il supercarcere femminile di Voghera, agli scontri attorno alla centrale di Montalto di Castro, di Caorso e di Trino Vercellese, negli appuntamenti di mobilitazione al Pec del Brasimone in Toscana, a Cerano e Carovigno in Puglia, negli abituali Campeggi antinucleari sono stati presenti, lungo tutti i primi anni Ottanta, compagni del Centro di documentazione Arn tra cui il sottoscritto.
Poi – attorno al 1987 – il Centro di documentazione Arn cessò la sua attività e alcuni dei giovani compagni che, nel corso degli anni erano approdati alle attività del Centro iniziarono una nuova stagione politica e organizzativa con l’occupazione di un’ex fabbrica nella zona orientale della città, a Gianturco, denominandola Officina 99. Personalmente non partecipai a tale nuova avventura politica. Ma questa è un’altra storia.
La prima riunione post/sisma
Per la riunione del post sisma vennero alla sede dell’Arn – in un centro antico della città chiuso al traffico per il pericolo di crolli e insolitamente silenzioso e triste – non solo i compagni delle strutture dell’Autonomia ma anche i compagni dell’allora Comitato Banchi Nuovi.
Questo Comitato aveva ripreso da pochi mesi un processo di riaggregazione dei disoccupati dopo che un anno prima si era concluso un grande ciclo di lotte vittoriose da parte di tutti i movimenti cittadini dei disoccupati con assunzioni di massa negli ospedali e in altri enti regionali.
Gli echi positivi di quella vertenza vittoriosa e la disillusione generale verso la funzione degli Uffici Pubblici di Collocamento – ritenuti, non a torto, autentici covi del clientelismo e del malaffare – spinsero molte persone a iscriversi a questo Comitato per avviare una nuova vertenza per il lavoro.
Nel Comitato Banchi Nuovi erano attivi, con un ruolo di direzione politica, i compagni del Centro di Iniziativa Marxista, un gruppo presente a Napoli e in alcuni paesi del napoletano e del casertano: Acerra, Maddaloni e San Felice a Cancello. Tale gruppo era il prodotto di una scissione locale dell’allora nascente formazione politica Democrazia Proletaria5.
Questi militanti si erano sperimentati in occupazione di case nella cintura urbana napoletana e nell’esperienza di lotta dei manovali che costruirono l’allora Alfa Sud (l’attuale FCA di Pomigliano d’Arco) i quali rivendicarono direttamente l’assunzione nella fabbrica che avevano contribuito a edificare.
La vicenda politico-sindacale dell’Alfa Sud meriterebbe una narrazione a parte in quanto registrò la trasformazione di figure sociali povere e disgregate come quella dei manovali edili – abitualmente chiamati a faticare clientelarmente dai parroci della zona o dai ras locali della Democrazia cristiana – in soggetti uniti e organizzati che rivendicavano autonomamente il lavoro sicuro e, finalmente, regolato contrattualmente in un contesto sociale dove regnava la piaga del lavoro nero, malsano e sottopagato.
Da qui – per indicare la figura operaia dei primi assunti Alfa Sud – il neologismo «metal/mezzadro» entrato poi in uso nel lessico delle variegate inchieste sulla composizione di classe per interpretare e categorizzare tale figura sociale spuria che si concretizzava materialmente in quel momento e in quel contesto specifico e temporale.
La prima riunione post sisma – a cui praticamente si aggregarono rappresentanti di tutte le aree antagoniste della città iniziò con interventi che invitavano all’organizzazione dei tanti senza tetto che il terremoto aveva provocato e con altre sollecitazioni e testimonianze di questa o quella condizione sociale che si trovava in un particolare stato di sofferenza e di emergenza.
Alcuni compagni – colpiti dalle catastrofiche immagini che a distanza di giorni ancora arrivavano dalle zone interne della Campania dove i danni erano stati infinitamente più grandi e dove la macchina dei soccorsi istituzionali aveva mostrato la sua criminale inefficacia – proposero di partire, immediatamente, per l’Irpinia e la Basilicata e di unirsi a quanti, da ogni parte d’Italia, stavano raggiungendo quelle zone per portare assistenza e quant’altro.
A questo punto intervenne Pietro Basso – all’epoca il leader del Centro di Iniziativa Marxista – e, con la determinazione che la situazione necessitava, affermò che i compagni di Napoli dovevano restare nella metropoli perché dopo il terremoto naturale si sarebbe verificato un altro terremoto, quello sociale. Un intervento deciso, senza fronzoli ideologici o politicisti e immediatamente diretto all’attenzione dei compagni presenti a quella convocazione.
Pietro Basso richiamò tutti all’enorme numero di senza tetto che il sisma aveva provocato, rivendicò al nascente nuovo movimento dei disoccupati organizzati una possibile funzione di traino organizzativo verso il resto del proletariato urbano e chiese a tutti i militanti (e alle varie strutture politiche presenti) di unirsi in una mobilitazione che avrebbe dovuto investire la città e, di conseguenza, impattare, necessariamente, con l’operato delle varie istituzioni locali e nazionali.
Debbo riconoscere che, come compagni dell’Autonomia organizzata, non comprendemmo da subito tale impostazione. Anzi – questa volontà di restare sul territorio metropolitano – ci appariva come rinunciataria verso un campo di lotta che immaginavamo si sarebbe dato in gran parte fuori da Napoli dove i morti erano stati numerosi assieme al complesso delle distruzioni materiali che reclamavano vendetta o quantomeno una immediata giustizia sociale.
I nostri compagni/cugini dei Comitati Autonomi Operai dei Volsci, inoltre, erano calati in Irpinia dove avevano organizzato alcuni Comitati Popolari che iniziavano a scontrarsi, per la loro attività sociale e di autorganizzazione diretta della popolazione, con i potentati locali e con la inevitabile repressione di Prefetti e carabinieri. Infatti, appena questi Comitati Popolari iniziarono a costituire un problema per la Democrazia cristiana e per il locale sistema di potere, i compagni dell’Autonomia romana furono, dopo neanche un mese di presenza in loco, allontanati da quelle zone manu militari con «fogli di via» ed altri provvedimenti giudiziari.
Con il passare dei giorni da quella discussione – però – ci accorgemmo che la scelta politico-organizzativa proposta dai compagni del CIM era la cosa giusta che una composizione politica organizzata di militanti comunisti doveva compiere a fronte di una diffusa insorgenza che iniziò a prendere forma in tutta l’area metropolitana partenopea e che nel giro di pochi mesi diede vita a episodi di conflitto durissimi e a un ciclo di lotte che è durato almeno, a fasi alterne, per altri 10 anni da quel novembre 1980.
Con epicentro nel quartiere San Giuseppe – Porto, dove aveva sede, in Vico Banchi Nuovi 7, il Comitato dei disoccupati e nell’attigua Piazza Banchi Nuovi, che divenne, quasi naturalmente, l’agorà delle assemblee, essendo la sede del Comitato ampia appena 15-20 metri quadrati, iniziò un convulso ciclo di riunioni tra disoccupati e abitanti del centro storico che avevano le case lesionate e/o inagibili che sfociarono in una prima manifestazione verso la Prefettura durante la quale, al terminal bus di Piazza Garibaldi, furono incendiati alcuni autobus e poi in una serie infinita di cortei al Comune e ad altre sedi istituzionali per rivendicare il diritto alla casa, al lavoro e misure urgenti di assistenza alle tante famiglie che ancora dormivano nella zona interna del porto, in auto o in forzata coabitazione con chi aveva conservata la casa senza particolari lesioni.
Ma l’episodio centrale che sancì l’avvio di un poderoso movimento di lotta per la casa, che si diffuse non solo in tutta la città ma anche nei paesi della prima cintura metropolitana, fu l’occupazione delle Vele di Scampia. Parliamo del complesso edilizio, frutto della Legge 167, che all’epoca era nella fase finale di edificazione, la cui notorietà è giunta fino a oggi per le mistificanti narrazioni tossiche della serie televisiva Gomorra e per l’immagine negativa costruita nel corso degli ultimi decenni a causa della perdurante guerra di camorra tra i vari clan in lotta per il predominio economico e territoriale nello spaccio di droga.
L’occupazione di migliaia di appartamenti negli edifici delle Vele diede al nascente movimento di lotta per la casa una forza propulsiva enorme favorendo la generalizzazione di un articolato ciclo di occupazione di case sfitte in tutto il perimetro metropolitano. Senzatetto a causa del terremoto, senzatetto storici, giovani coppie che aspiravano a una abitazione dignitosa e famiglie che vivevano in coabitazione compresero che dovevano unirsi in un unico movimento superando artificiose divisioni frutto delle diverse condizioni materiali a cui erano materialmente costretti dalle ordinarie «politiche per la casa» e istituzionali e, ancora di più, da ‘O Terremoto.
La piazza, le occupazioni, il conflitto organizzato
Le Vele occupate divennero una sorta di base rossa da dove si pianificavano occupazioni di case sfitte di edilizia pubblica ma anche privata. A Miano, a Piscinola, ad Agnano, nel centro storico nella zona di Montecalvario, a Volla e in numerose altre zone della città furono numerosi gli edifici presi d’assalto da folle di senza tetto che subito dopo l’occupazione costituivano un Comitato – con «delegati di scala e di palazzo» – che interagiva con le altre occupazioni.
Persino al quartiere Vomero – che allora come oggi presentava una composizione sociale di piccola e media borghesia – furono occupati alcuni parchi residenziali di un noto immobiliarista cittadino, Vincenzo Sagliocco, il quale era uno dei più ricchi e potenti palazzinari tra quelli che, nel corso degli anni precedenti il sisma avevano materializzato le famigerate mani sulla città così ben raccontate dall’omonimo film di Francesco Rosi che narra il sacco di Napoli subito dopo il boom economico degli anni Sessanta.
Ed è nel gorgo sociale di queste occupazioni che, nei primi mesi del 1981, a Miano, a via Janfolla, che alcuni sgherri del clan camorristico dei Capitoni aggredirono un gruppo di compagni del comitato di lotta che organizzava l’occupazione di questi stabili ferendo, con un colpo di pistola alle gambe, uno degli attivisti più in vista della zona: il compagno Gaetano Marati che, all’epoca, era un attivista dell’occupazione e negli anni successivi sarà uno dei fondatori del sindacalismo di base e conflittuale a Napoli (prima le RdB e successivamente l’Unione Sindacale di Base).
Ma nonostante questa pesante intimidazione l’occupazione andò avanti superando l’ostacolo rappresentato dalla presenza di bande della camorra che agivano impunite e che non tolleravano processi di autorganizzazione popolare, di tipo indipendente, di consistenti pezzi di quel segmento sociale che, storicamente, ruotava nell’orbita dell’economia extra-legale ritenuto il bacino di forza-lavoro e la base materiale per la valorizzazione dei traffici della criminalità.
I mesi che seguirono il sisma del 23 novembre furono un crescendo di mobilitazioni, scontri, occupazioni e, naturalmente, di repressione statale con centinaia di arresti e teste fracassate dalla violenza della polizia che non si faceva scrupolo di intervenire pesantemente contro tale insorgenza sociale.
Citiamo alcuni episodi di una cronologia che è complicato realizzare ma che, in ogni caso, danno il segno tangibile di una insubordinazione popolare che costituì una spina nel fianco al tentativo – di parte statale – di scaricare sui ceti subalterni della società gli effetti antisociali derivanti dal terremoto. Si disse – nei ragionamenti politici e nella controinformazione militante di quei mesi – «Terremoto sociale», e infatti un vasto conflitto sociale e politico si concretizzò in tante e molteplici forme in tutta l’area metropolitana.
Occupazioni di alberghi con scontri duri, come all’Hotel Oriente e all’ex Hotel Londra, occupazione del collocamento in via Marina e dalla Camera del Lavoro della Cgil in via Bologna, assalto e distruzione di alcune sedi della Democrazia cristiana ai Colli Aminei e a Capodimonte, oltre a una infinita serie di blocchi alla stazione Centrale, sulla tangenziale e nei principali varchi di accesso alla città.
Ingaggiato lo scontro, la metropoli fu attraversata da un moto sociale di ampia portata in cui le pratiche della illegalità di massa erano forme di lotta consolidate, diffuse nei vari movimenti di lotta popolari e non percepite come elemento di «sovradeterminazione militante» come, purtroppo, spesso era accaduto, negli anni precedenti, nei vari movimenti di massa.
È interessante ricordare una prassi creativa – che divenne una simpatica quanto collaudata consuetudine – rappresentata dalle modalità «originali» con le quali si svolgevano le manifestazioni per il diritto alla casa. Da Scampia, San Giovanni a Teduccio, Capodichino i manifestanti – spesso donne con al seguito i loro bambini – uscivano dagli stabili occupati, fermavano il primo autobus che transitava (onestamente devo riconoscere che in quegli anni la periferia urbana era servita da molte più linee di bus rispetto a oggi), salivano sul mezzo senza pagare il biglietto e lo dirottavano verso uno dei palazzi istituzionali dove era convocata la manifestazione.
Per cui ogni manifestazione registrava sempre un tasso di partecipazione e di attivo protagonismo mediamente alto in quanto il trasporto dei manifestanti era garantito e gratuito.
In quei mesi si registrarono una infinita serie di momenti di scontro che dalla periferia dilagavano nella città addensandosi attorno la sede del Comune a Palazzo San Giacomo, alla sede della Regione Campania a Palazzo Santa Lucia e a quella della Prefettura in Piazza del Plebiscito. Il centro della metropoli e il quadrilatero delle sedi fisiche del potere istituzionale erano costantemente sotto la pressione delle rivendicazioni sociali sintetizzate dal binomio casa-lavoro.
La governance metropolitana e le dinamiche dell’intervento statale
Quel ciclo di lotte dovette impattare e confrontarsi con una inedita forma della governance dell’emergenza: la costituzione del Commissario straordinario governativo per l’emergenza del terremoto. Tale alchimia istituzionale costituì un nuovo stadio delle forme di comando sul territorio e un livello più articolato nei dispositivi di controllo, di pianificazione e di gestione dell’intervento statale. A una nuova e inedita «situazione eccezionale» lo Stato rispose con una «gestione eccezionale» che modificò e integrò la legislazione ordinaria vigente.
Con tale scelta – avvenuta nei primi mesi del 1981 in Campania – l’istituto del Commissariato Straordinario compì una maturazione politica e progettuale in avanti configurando un vero e proprio strumento eccezionale che curò tutta la questione (progettazione, pianificazione, realizzazione e gestione) del mastodontico progetto di Ricostruzione post sisma.
La figura di Giuseppe Zamberletti e del suo staff costituì un’anticipazione ante litteram di quella modalità dell’Emergenza che nei decenni successivi è stata riprodotta, da parte delle classi dominanti del nostro paese, in ogni momento di crisi dei meccanismi della gestione delle crisi. Con l’esperienza campana della «gestione straordinaria del post terremoto» iniziarono a manifestarsi le pratiche di esautoramento degli Enti locali da molte competenze tra cui, quelle fondamentali relative alla ristrutturazione architettonica e urbanistica del territorio.
Una modifica marcatamente autoritaria, antidemocratica e pesantemente orientata verso la salvaguardia dei poteri forti del «partito del mattone» anche se fu normata da una legislazione speciale varata ad hoc con una sorta di consenso/concertazione da parte di tutto l’allora «sistema dei partiti».
Per meglio inquadrare questo processo di ristrutturazione della forma-Stato e del suo versante amministrativo gestionale non è indifferente ricordare come era composto il quadro politico di comando dei partiti di governo dell’epoca e il peso di rilievo – nei rapporti di forza complessivi di quello che veniva definito il «sistema dei partiti» – che esercitavano le figure politiche che provenivano dal Sud.
Non è un mistero che attorno alla gestione della lunga e complessa fase della ricostruzione scese in campo quel trasversale «partito meridionale» (che era molto potente e condizionante nell’intero ciclo politico della Prima Repubblica) che utilizzò le conseguenze derivanti dal sisma per ulteriormente consolidare il suo blocco di potere affaristico, clientelare e speculativo.
I democristiani De Mita, Gava, Scotti, Paolo Pomicino, De Vito e Fantini, i socialisti Conte e Di Donato, il liberale De Lorenzo e tutto il potente gruppo del Pci napoletano (Napolitano, Chiaromonte, Geremicca, Valenzi, quasi tutti «miglioristi», come era definita al tempo la «destra» del Pci) furono gli uomini che costituirono quella rete di interessi, di favori e di astute mediazioni politiche e parlamentari che contribuì alla definizione della Legge 219/81 e alla sua gestione materiale sul campo.
Una sapiente operazione di governance – condotta sul filo del consociativismo regolato da una accorta dialettica tra governo e opposizione – che rappresentò la fortuna politica, economica di questi soggetti e delle loro cordate economiche di riferimento (dai principali gruppi economici nazionali fino ai clan della camorra operanti nelle diverse zone passando per le corporazioni dei fiorenti studi professionali di notai, ingegneri, architetti e urbanisti).
Una Legge, quella 219/81 che, in virtù di una grande mole di fondi a disposizione, fu in grado di distribuire tantissimi posti di lavoro, assegnare decine di migliaia di case e di elargire una montagna di finanziamenti a una classe imprenditrice (in maggioranza del Nord Italia tra cui una consistente parte afferente al circuito della Lega delle Cooperative che all’epoca era legatissima a doppio filo con il Pci) la quale appena si esaurirono i flussi finanziari dismise immediatamente la gran parte degli insediamenti produttivi avviati disseminando il territorio – specie quelli del cosiddetto «osso» della Campania – di capannoni abbandonati e riversando sui conti dello Stato decine di migliaia di lavoratori che reclamavano cassa integrazione e ammortizzatori sociali.
‘O Terremoto, insomma, tra i vari suoi effetti, terremotò anche l’architettura istituzionale e le forme del comando politico e amministrativo sicuramente al Sud ma con effetti, diversificati, nell’intera impalcatura della forma-Stato unitaria nazionale.
La lotta, il conflitto e i malanni della soggettività
Le lotte di quel periodo non ebbero esclusivamente un carattere economico e meramente rivendicativo. Come è naturale che sia in ogni dinamica sociale che si mette in movimento questo ciclo di conflitto mostrò un segno politico evidente anche grazie all’intervento diretto dei compagni dell’Autonomia e delle altre formazioni comuniste rivoluzionarie.
Basta andare con i ricordi alla importante assemblea del movimento di lotta per la casa che si svolse, nella primavera del 1981, nella più grande sala cinematografica cittadina, l’allora Metropolitan di via Chiaia, dove i delegati delle varie occupazioni disseminate in città, in grande maggioranza donne, intervennero legando il tema della casa a quello del diritto ai servizi e, soprattutto, alludendo a un’idea possibile di città ridisegnata sulla scorta dei bisogni popolari e non sulla morfologia socioeconomica degli interessi capitalistici.
I contenuti programmatici di quell’assemblea furono una autentica fucina sociale in cui si discusse di temi e rompicapi teorici della tradizione marxista ma questa volta – magari senza averne neanche una consapevolezza diretta da parte di molti – erano proletarie e proletari in carne e ossa a condurre la discussione epurata dal lessico forbito e accademico con cui, solitamente, queste argomentazioni si rappresentavano nel milieu militante e/o universitario.
E come non ricordare la grande e determinata manifestazione a difesa dei compagni arrestati e inquisiti da una delle tante inchieste della Procura che – forzando oltremisura fatti e contesti – voleva assimilare le lotte sociali di quei mesi al «terrorismo».
Un’inchiesta montata ad arte da giudici e Digos che crollò miseramente nel giro di pochi mesi nonostante il supporto di una scandalosa campagna stampa tutta tesa alla criminalizzazione delle lotte e dei compagni attivi nel conflitto. Infatti all’indomani dei mandati di cattura – il 24 febbraio 1981 – contro Pietro Basso, Michele Castaldo, Franco Vicino, Raffaele Piccolo e Salvatore Amura (i primi quattro militanti del CIM e il quinto di Democrazia proletaria) un corteo numerosissimo e arrabbiato – il 28 febbraio 1981 – sfidando il divieto poliziesco sfilò per il centro di Napoli, e da quella giornata lo striscione che apriva la sfilata «Siamo tutti sovversivi» entrò, come immagine iconica, nella memoria dei movimenti di lotta di più generazioni.
Per effettuare questi arresti, al di là di alcune novità costruite «in laboratorio» dalla Procura della Repubblica, ebbe un ruolo specifico la federazione napoletana del Pci e l’Amministrazione Comunale di Maurizio Valenzi.
Il «farsi stato» del Pci di Berlinguer non era solo una linea politica collaborazionista con il capitalismo ma divenne anche l’assunzione da parte di questo partito di una lucida funzione di controllo e di disciplinamento che, in tantissimi contesti a Napoli come altrove, contribuì alle varie inchieste giudiziarie contro i movimenti di lotta e le loro avanguardie politiche.
Rispondendo a una interrogazione parlamentare a Montecitorio sul «caso Napoli» il sottosegretario Sansa affermava che «il problema reale era costituito dalla pericolosità di gruppi di autonomi che hanno egemonizzato l’occupazione della 167 a Secondigliano e che influenzano il movimento dei disoccupati»6.
Pochi giorni prima di martedì 24 febbraio, il giorno degli arresti, inoltre, una qualificata delegazione del Pci si recò dal questore chiedendo «il ripristino dell’ordine democratico in città». Sempre il «Corriere della Sera», nell’edizione del 20 febbraio 1981, riportava che il Sindaco Valenzi aveva sottolineato ai vari livelli dello Stato «la pericolosità dell’Autonomia per la tenuta civile della città».
In definitiva il Pci fornì notizie e informazioni di prima mano alla Magistratura e i giovani procuratori d’assalto, spesso di Magistratura Democratica, si prodigarono a costruire i teoremi accusatori mentre i suoi giornali dell’epoca (l’edizione napoletana de «l’Unità», «Paese Sera» e il settimanale «La Voce della Campania») coprirono il versante della disinformazione e della persuasione del consenso.
Il 5 marzo 1981 il Ministro del Lavoro Franco Foschi fu costretto, dalla «guerra quotidiana» che i disoccupati organizzati avevano scatenato per la città, a precipitarsi a Napoli dove, in un Palazzo Santa Lucia assediato da migliaia e migliaia di senza lavoro sottoscrisse un «accordo per l’avvio di 10.000 nuovi posti di lavoro» con i rappresentanti delle Liste di Lotta. Naturalmente passarono pochi giorni e quell’atto formale – sottoscritto da un Ministro della Repubblica – si rivelò l’ennesima beffa che era servita per gettare acqua sul fuoco dell’insorgenza popolare che stava rendendo ingovernabile la città.
L’irruzione delle Brigate Rosse e la “campagna Cirillo”
L’arco temporale che va dal 23 novembre 1980 al 27 aprile del 1981 fu caratterizzato, quindi, da un forte protagonismo sociale e da un’attiva partecipazione dei militanti comunisti a questo sommovimento con compiti espliciti di direzione politica e di significativa funzione verso una più avanzata politicizzazione del conflitto e delle sue rivendicazioni economico/sociali.
Accade però che la sera del 27 aprile 1981 irrompono, improvvisamente, nello scenario politico cittadino le Brigate Rosse.
Precedentemente, in città, le Br avevano inaugurato la loro presenza, circa un anno prima, con l’agguato al consigliere regionale democristiano Pino Amato. Un’azione che provocò la morte del consigliere regionale ma anche la cattura, subito dopo l’azione, dell’intero gruppo di fuoco brigatista. Da allora in città non si ebbe più segno politico tangibile della presenza di questa organizzazione.
Improvvisamente, poi, il 27 aprile 1981 le Br sequestrano l’assessore regionale della Democrazia cristiana, nonché vicepresidente del Comitato tecnico della ricostruzione, Ciro Cirillo. Nelle fasi del sequestro vengono uccisi l’autista e un agente di polizia che fungeva da scorta al noto politico democristiano.
Da quella sera e, subito dopo, nei giorni successivi fu subito evidente che tale evento inizierà a produrre una modificazione sia del generale contesto regionale (e, poi, anche nazionale) in cui la «questione terremoto» andava collocandosi ma l’intera «campagna Cirillo» condotta dalle Brigate Rosse stresserà oltremodo i movimenti di lotta, le loro dinamiche rivendicative e di contrattazione/rivendicazione con le istituzioni e produrrà un potente inasprimento di tutti i meccanismi di repressione statale.
Con il sequestro di Cirillo le Brigate Rosse si candidarono – di fatto – a una sorta di rappresentanza del conflitto verso le istituzioni e avanzarono una serie di rivendicazioni – quelle sintetizzate nello striscione collocato alle spalle della foto dell’assessore nella «prigione del popolo» – con l’obiettivo di «legarsi al proletariato metropolitano e di farsi interprete dei loro bisogni».
Sulla base di tali obiettivi le Brigate rosse – o meglio il gruppo napoletano di questa organizzazione la quale aveva assunto la denominazione di Partito Guerriglia in rottura con l’altra parte, operante in altre città, che ancora si definiva Partito Comunista Combattente – avviarono una «trattativa asimmetrica» con la Democrazia Cristiana, che è raccontata dai vari protagonisti con punti di vista differenziati.
Una trattativa che ebbe un primo sbocco, il 24 luglio 1981, nel rilascio di Ciro Cirillo nei pressi di via Stadera a Napoli a ridosso di uno dei palazzi che era crollato la sera del 23 novembre 1980. Senza entrare nel merito di un bilancio della vicenda «sequestro e trattativa Cirillo» su cui i diversi attori – dalla Magistratura alla famiglia Cirillo, dalle Brigate Rosse ad alcuni soggetti della Camorra – hanno prodotto sintesi divergenti mi preme concentrarmi sulle ricadute politiche che il «caso Cirillo» ebbe nei confronti dei movimenti di lotta6 e sulle ipoteche che pose a un possibile avanzamento politico e organizzativo di quel formidabile ciclo di mobilitazione.
Sicuramente il sequestro Cirillo fu visto con «simpatia empatica» da larghi settori popolari. Dopo decenni di malgoverno democristiano vedere che un pezzo da novanta del vero potere locale era costretto a rispondere alle domande del «Tribunale del Popolo» alimentava un genuino sentimento di soddisfazione e di sacrosanta rivalsa. Ma la politica e, soprattutto, i progetti di trasformazione sociale hanno bisogno di lucidità politica, senso del reale e di accadimenti utili all’accumulo delle forze necessarie per un qualsivoglia rottura/mutamento sociale. La «campagna Cirillo» non fu questa cosa e – a parere di chi scrive – non favorì questa processualità sociale diversamente da quando affermato dalle Brigate Rosse.
Il problema dirimente è che l’azione complessiva delle BR7 fu condotta con la classica modalità avanguardistica, senza alcun significativo legame con i movimenti di massa se si escludono alcuni «seguaci/tifosi» e sulla scorta di una concezione teorica e pratica che lungi dal produrre risultati concreti per i settori popolari contribuì – oggettivamente – alla criminalizzazione dei movimenti di massa, dei compagni che agivano in tali contesti e all’inalveamento oggettivo delle lotte le quali, per le dinamiche proprie dei movimenti rivendicativi, rifluirono o nel settorialismo o, come in alcuni casi, in una contrattazione a perdere, con le istituzioni.
L’impostazione teorica e politica che le Brigate rosse avevano messo a guida delle loro azioni, inoltre, era errata nell’analisi del corso strutturale della crisi del modo di produzione capitalistico, dello stato reale delle contraddizioni e dei rapporti di forza tra le classi vigenti in quegli anni in Italia e in tutto l’occidente capitalistico.
Su tali questioni scrivemmo, nel numero 24 di «Autonomia» di giugno ’81, un articolo firmato con la sigla Movimento comunista napoletano. Riporto uno stralcio che, a distanza di decenni, mi sembra che renda ancora bene le critiche che avanzavamo all’azione delle BR e alla gestione politica del sequestro di Ciro Cirillo:
“Bagnoli, Secondigliano, il Centro Storico di Napoli non sono campi di battaglia in cui la rivoluzione si può fare con la divisa da «nuovo partigiano»; queste zone e tante altre di Napoli e del Sud sono i lager diffusi e i laboratori sociali dove il comando del capitale in tutta la sua violenza esercita il controllo ed estorce il profitto per la sua riproduzione. In queste zone il proletariato in tutte le sue sezioni – sia esso marginale o di fabbrica – è disperso, frammentato e costretto a sopravvivere tra mille forme di illegalità, di sfruttamento e di miserevole assistenza. Nella memoria di classe di questi strati non è sedimentato nessun percorso storico rivoluzionario ma solo ribellismo e una grossa ricchezza di comportamenti facilmente recuperabili o resi endemici.
Inoltre l’ideologia della rassegnazione e della delega è fortemente radicata soprattutto culturalmente. È tenendo presente questa situazione oggettiva della composizione di classe napoletana che va ricalibrato l’intervento politico e organizzativo. La trasformazione dei processi proletari di autovalorizzazione in autodeterminazione si dà esclusivamente sul terreno del contropotere in una accurata dialettica tra azione di massa e azione politica destabilizzante8.
Insomma – con il gergo ermetico in uso in quel periodo – criticavamo l’iniziativa delle Brigate Rosse nel metodo e, soprattutto, nel merito in un momento in cui i compagni delle organizzazioni comuniste e di classe si erano conquistate una «qualche responsabilità» nello scontro sociale in atto in città ben oltre la mera funzione di propaganda, di sostegno alle lotte o di marginale partecipazione a queste che, solitamente, caratterizzava il peso specifico dei comunisti nelle mobilitazioni. Infatti, gli esiti finali di quella «campagna napoletana» delle Brigate Rosse furono, inevitabilmente, fuorvianti e controproducenti per lo sviluppo e la sedimentazione dell’iniziativa di classe nella metropoli partenopea.
L’intera gestione pubblica di tutta l’operazione delle Brigate Rosse fu sussunta nelle mani della comunicazione dei media ufficiali e fu totalmente schiacciata sul connubio «brigatisti/camorristi» alimentando la saga, giunta fino ai giorni nostri, della «trattativa Stato/Brigate Rosse/Camorra». Una narrazione che opacizzò e distrasse dalla sua oggettiva centralità il tema del collaudato malgoverno democristiano e l’intero corollario di responsabilità politiche di una classe dirigente prima e dopo il sisma del 23 novembre 1980.
Sicuramente la Democrazia cristiana al massimo livello nazionale scese a patti con la Camorra e organizzò (tra i suoi imprenditori di riferimento) la raccolta dei soldi per il pagamento del riscatto di cui, però, solo una parte arrivò alle Brigate Rosse8 ma tale fatto – anche per le modalità con cui venne alla luce – contribuì a oscurare, ulteriormente, i contenuti politici e sociali dell’iniziativa delle Br derubricandola, oggettivamente, a un caso di «cronaca nera».
La città e il punto di vista dei comunisti dell’Autonomia Operaia
Le strutture dell’Autonomia che agivano in quel periodo a Napoli non si limitarono esclusivamente a dare voce, forza e rappresentanza politica alle esigenze popolari. I compagni non espressero solo solidarietà, vicinanza e partecipazione alle lotte ma si sforzarono di essere soggetti politici a tutto tondo in una congiuntura nuova ed eccezionale del conflitto sociale.
Al Vomero, al centro storico, nell’area Vesuviana e nella zona Flegrea i militanti autonomi furono in prima fila nell’organizzazione dei disoccupati, dei senza tetto e nelle tante vertenze, grandi e piccole, afferenti al disagio economico e sociale che attanagliava in quel contesto la metropoli partenopea. Oltre alla sede del Centro di documentazione Arn esistevano altri punti di riferimento fisico tra cui a Discesa Lacco, al Vomero, il Centro Studi Mediterraneo animato dai compagni della zona.
Al Rione Traiano era attivo il CAT (Comitato Autonomo Traiano) anche se la composizione politica era più variegata a causa di molti compagni che professavano una sorta di emmellismo/movimentista che li rendeva particolarmente attenti all’intervento sociale in un territorio caratterizzato da una grossa presenza di proletariato extra-legale e/o marginale. Altri gruppi di compagni autonomi erano presenti nella zona di Piazza Carlo III9, a ridosso dell’Università Centrale e di alcune piazze del centro storico.
Se il sisma del 23 novembre 1980 fu un doloroso imprevisto le sue conseguenze sul versante della ristrutturazione architettonica, urbanistica, produttiva e sociale dell’area metropolitana napoletana e della Campania non trovarono i compagni dell’Autonomia a digiuno di questi argomenti.
Da anni – su sollecitazione della tradizione teorica dell’operaismo che riservava grande attenzione alla dimensione analitica e di approfondimento riconducibile all’impegno politico/militante – vari compagni, in forma individuale ma, spesso, collettiva sviluppavano ricerca, inchiesta sul campo e si cimentavano a cartografare i processi di trasformazione del territorio e della struttura produttiva a seguito dell’avanzare della crisi economica e del complesso dei processi di ristrutturazione.
Inoltre, a completamento di questa analisi, in gran parte economica e strutturale, si aprì una riflessione con l’obiettivo di iniziare a interpretare il complesso mutare delle forme del comando politico sulla metropoli10 che cominciavano a delinearsi in quello scorcio temporale.
I compagni intuirono che occorreva dotarsi non solo di un aggiornamento che affrontasse l’incidere materiale del corso del capitalismo ma occorreva indagare e comprendere la nuova tipologia della governance che mostrava i tratti di una maturità e una complessità notevole a fronte delle passate esperienze di gestione dei nessi amministrativi.
A Napoli e nel Sud Italia l’affermazione dei «sindaci rossi» nelle elezioni amministrative del 1975 e le prime sconfitte elettorali della Democrazia Cristiana avevano provocato una più convinta integrazione del Pci nei dispositivi di governance e, quindi, il prodursi di nuove modalità di gestione dei vari Enti locali in cui questo Partito si candidava attivamente al ruolo di più coerente fattore della «modernizzazione del Meridione» sposando in pieno le compatibilità capitalistiche e la «logica del comando dell’impresa».
Si consumava sull’altare della governabilità ciò che ancora residuava del Dna del vecchio Pci e si andavano evaporando i ricordi e il portato fondato delle mobilitazioni degli anni Sessanta e Settanta e della stagione delle lotte meridionali afferenti, particolarmente, la riforma Agraria11.
In tale contesto alcuni attivisti/ricercatori riuniti attorno al collettivo redazionale della rivista «Quaderni del Territorio»12, ma anche nei Collettivi e nei Gruppi di studio alla Facoltà di Architettura e di Economia e Commercio, avevano avviato studi analitici sui progetti che i grandi gruppi industriali, immobiliari e le varie cordate affaristiche e speculative avevano approntato per il «futuro di Napoli».
La realizzazione, a opera della Mededil, del Centro direzionale, l’avvio dei progetti che avrebbero portato poi allo smantellamento dell’ex Italsider a Bagnoli a cura dei padroni multinazionali della siderurgia, la progettazione e l’avvio della realizzazione degli assi economici nell’area di Nola e Pomigliano che poi si sarebbero concretizzati nella costruzione del CIS e del grande Interporto del Sud Europa ma – soprattutto – lo svuotamento e la deportazione (di questo si trattava) di decine di migliaia di persone dal Centro antico e storico di Napoli verso le nuove periferie erano le dinamiche in corso dello sviluppo/sottosviluppo capitalistico della questione/contraddizione meridionale nella nostra città che stava per approssimarsi alla fine del secolo.
Particolarmente sul versante della nuova configurazione urbana e metropolitana dell’area partenopea ‘o Terremoto costituì un fattore nuovo e uno snodo decisivo – il più importante – dei progetti antipopolari. Dobbiamo a questo retroterra teorico, culturale e all’accumulo di veri e propri saperi antagonisti se sul finire degli anni Ottanta la grande operazione di speculazione e di saccheggio del Centro antico/storico di Napoli (il più grande d’Europa) denominata Il Regno del Possibile13 non si concretizzò.
Il merito di questo risultato politico può essere ascritto sia all’ostinata opposizione di un vasto arco di forze costituito da vari Comitati di Lotta, che provenivano dal ciclo di mobilitazione post/terremoto, ma anche da una intellettualità diffusa che incominciò a prendere atto che si stava consumando un ennesimo scempio sulla città.
Una generazione di intellettuali, giornalisti e opinion maker che si era «abbeverata» teoricamente e culturalmente a quei concetti analitici e a quelle categorie interpretative che erano frutto delle elaborazioni, a vario titolo, dei militanti Autonomi sul finire anni Settanta/inizio anni Ottanta. Il portato delle lotte del post/terremoto – oltre a concretizzare la conquista del diritto alla casa ed al lavoro per migliaia di persone – aveva agglutinato una cultura della città e dello spazio urbano che faceva a cazzotti con i nuovi appetiti speculativi che puntualmente, in ogni ciclo politico, hanno sempre fatto capolino sulla metropoli partenopea.
Ma qui dovrebbe cominciare un nuovo racconto che ci porterebbe a ridosso dei giorni nostri e – inevitabilmente – usciremmo fuori tema!
1 Il camorrista, regia di G. Tornatore, con B. Gazzara, Titanus prod. 1986.
2 Il padiglione della Grande Sorveglianza era, all’epoca – a Poggioreale – un reparto dove vigevano ristrettezze superiori a quelle in uso nei normali padiglioni ma non era ancora (nell’ambito del regime di differenziazione in uso in quegli anni nel sistema carcerario) uno stato di detenzione paragonabile a quello pesantemente limitante della sezione Speciale;
3 Le inchieste che seguirono quel crollo svelarono che al momento della costruzione i palazzinari che avevano lottizzato quell’area lesinarono abbondantemente sulla qualità e la quantità del cemento armato utilizzato;
4 Il 10 gennaio 1980 vengono arrestati un gruppo di compagni (alcuni sono costretti alla latitanza) del Vomero. In effetti viene sostanzialmente azzerata la struttura napoletana di «Rosso». Le accuse mosse ai compagni (attentati ad alcune concessionarie della Fiat in occasione dei 61 licenziamenti politici a Torino e altri episodi simili) si basano sulle testimonianze di un personaggio, frequentatore di Piazza Medaglie d’Oro, il quale dichiarò agli inquirenti di aver partecipato ad alcuni di questi episodi assieme ad alcuni degli arrestati. Dopo circa un anno l’inchiesta si ridimensionò non senza avere, di fatto, interrotto un processo di crescita politica e organizzativa in corso nell’area metropolitana di Napoli;
5 Democrazia Proletaria nacque nel 1978 dalla fusione nazionale tra Avanguardia Operaia, Partito di Unità Proletaria e Lega dei Comunisti ma la maggioranza dei compagni che diedero vita al CIM provenivano da una comune precedente militanza in una delle tante formazione marxista-leninista dell’epoca molto attive in Campania (OCML-Fronte Unito);
6 A fine luglio 2017 è morto Ciro Cirillo. In tale occasione si rimise in moto la grancassa mediatica sul presunto accordo Brigate rosse/Democrazia Cristiana/Camorra. Mi è sembrato, quindi, utile – dopo circa 40 anni – intervistare, per il quotidiano comunista on line «Contropiano», uno dei protagonisti della vicenda, Vittorio Bolognesi che all’epoca era un dirigente di primo piano della colonna napoletana delle Brigate rosse-Partito Guerriglia. A questo link l’intervista: https://contropiano.org/news/politica-news/2017/08/01/sequestro-cirillo-intervista-v-bolognesi-094419
7 Durante le settimane del sequestro Cirillo l’azione delle Brigate rosse si completò, in quel periodo, con il ferimento di due esponenti politici: Rosario Giovine, un dirigente della Democrazia Cristiana noto in città per le sue pratiche clientelari nella compravendita di posti di lavoro e Uberto Siola del Pci docente alla Facoltà di Architettura ed «esperto» di trasformazioni urbanistiche e territoriali tra cui i progetti, che alla metà degli anni Ottanta, saranno posti in essere nella ricostruzione post/bradisismo dell’area Flegrea;
8 Risulta che dei tre miliardi di Lire raccolti e che dovevano essere consegnati alle Brigate rosse solo la metà arrivarono all’organizzazione combattente. Precisamente un miliardo e quattrocentocinquanta milioni. Nei continui «passaggi di mano» i vari «soggetti coinvolti» fecero la «cresta» sulla cifra a dimostrazione dell’oggettivo piano inclinato in cui si collocò questa vicenda;
9 In questa area della città fu attivo un collettivo con un riferimento politico al circuito nazionale della rivista «Senza Tregua» che all’epoca del Terremoto aveva smesso, da un paio d’anni, le pubblicazioni per approdare ad altri progetti organizzati che non erano riconducibili in toto al filone originario dell’Autonomia;
10 Nell’ambito del lavoro di supporto alle lotte e di analisi delle trasformazioni che il terremoto del 23/11/80 aveva accelerato è utile citare il libro – un istant book ante litteram – realizzato dal Centro di Documentazione ARN a pochissimi mesi dal sisma: “Terremoto, comando capitalistico e sovversione sociale”;
11 Per comprendere bene la mutazione genetica del Pci (e del riformismo di tale natura) nel Meridione occorre ricordare l’atteggiamento che questo partito (e tutta la «sinistra») assunsero nei confronti della rivolta di Reggio Calabria la quale fu liquidata, sbrigativamente, come «reazionaria». Su tale snodo fondamentale delle lotte nel Sud d’Italia ho scritto un articolo, un anno fa, sul quotidiano comunista on line Contropiano.org: https://contropiano.org/fattore-k/2019/07/15/luglio-1970-la-rivolta-di-reggio-calabria-i-problemi-del-conflitto-metropolitano-0117322
12 La rivista «Quaderni del Territorio» di cui uscirono 4/5 numeri (uno era con numerazione doppia), edita dalla CELUC Libri, era diretta da Giancarlo Capitani, Alberto Magnaghi, Augusto Perelli e Cesare Stevan. Hanno scritto su questa rivista: Romano Alquati, Silvia Belforte, Ferruccio Gambino, Fabrizio Bertuzzi ma anche i meridionali Fiora Pirri, Achille Flora, Mario Nicoletti, Peppe Zollo e Pino De Nigris;
13 Il Regno del Possibile fu il funambolico nome che fu dato al grande progetto di trasformazione del Centro antico/storico di Napoli. Erano coinvolti in questa intrapresa che si configurò come un nuovo sacco della città esponenti politici, pezzi importanti del sistema produttivo, delle banche e del mondo delle professioni. Nel dicembre del 1986 alla Mostra d’Oltremare di Napoli si tenne una Convention Nazionale per illustrare le virtù mirabolanti di questo progetto. Tra i partecipanti possiamo registrare i maggiori nomi del ceto politico di comando dell’epoca: Camillo Federico, Antonio Fantini, Enzo Giustino, Paolo Savona, Innocenzo Cipolletta, Gabriele Scimeni, Gian Maria Gros Pietro, Riccardo Tetrella, Giorgio Pastori, Scimeni, Sergio Basile, Hall Petes, Albers, Pommelet, D’angelo, Sergio Vitiello, Ferroni, Borsi, Petracca, Rino Ricci, Sandro Amorosino, Franco Borsi, Bruno Vespa (Rai), Giuseppe Galasso (Ministro del Governo in carica), Rino Formica (Psi), Valerio Zanone (Ministro del Governo in carica), Alessandro Natta (Pci), Ciriaco De Mita (Dc).
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