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Pietro Secchia, la degenerazione del PCI e il “centrismo”

Cinquant’anni fa, moriva in circostanze ancor oggi non chiarite un grande dirigente comunista: si chiamava Pietro Secchia, era piemontese e apparteneva alla seconda generazione di “costruttori del partito”, quella che aveva operato nella lotta clandestina contro il fascismo, nella resistenza armata contro il nazifascismo e nelle dure lotte sociali e politiche del secondo dopoguerra.

Secchia era infatti uno dei giovani più attivi e motivati fra quelli che aderirono al nuovo partito comunista, e assieme a Luigi Longo fu dirigente di spicco della Federazione giovanile comunista.

Alla fine degli anni Venti la «svolta» della III Internazionale in direzione di un inasprimento della lotta contro le socialdemocrazie, con la previsione di una situazione a breve insurrezionale, vide premiato il radicalismo dei giovani, ed essi saranno i protagonisti della ripresa di una diffusa attività clandestina nell’Italia fascista.

Una scelta, questa, che si rivelò molto costosa sul piano degli esiti con la cattura di gran parte dei dirigenti inviati nella penisola, benché sempre rivendicata a posteriori dai protagonisti (non solo Secchia, ma anche Giorgio Amendola) come errore ‘provvidenziale’ che aveva riportato l’organizzazione clandestina del PCd’I in Italia, ponendo le basi per la futura esplosione di massa nella Resistenza. 

In questo frangente Secchia rivelò le sue doti di «ferreo organizzatore» (che avrebbe confermato nel periodo della Resistenza) e maturò quel profilo del «rivoluzionario di professione» che è stato una figura importante e centrale della politica novecentesca. 

La cattura da parte dei fascisti gli procurò un lungo periodo di prigionia, dall’aprile del 1931 all’agosto del 1943, e gli impedì di prender parte all’esperienza dei Fronti Popolari e della guerra civile spagnola.

Furono però per Secchia anni di studio, dedicati alla lettura di Clausewitz e di altri classici del pensiero militare, insieme con l’aggiornamento sugli sviluppi della politica sovietica nel periodo della costruzione del socialismo. Quando i tempi saranno maturi, la resistenza armata contro il nazifascismo coinciderà perciò con l’ascesa politica, ideologica e militare di Secchia nel movimento comunista e partigiano.

Fermo restando l’incondizionato apprezzamento per lo stile etico-politico rigoroso e per una sensibilità di classe più elevata rispetto a quella di altri dirigenti storici del PCI, va detto che le differenze rispetto alla linea togliattiana riguardavano il ruolo politico e strategico attribuito ai CLN rispetto all’impianto costituzionale fondato sulla democrazia parlamentare, che il PCI stava realizzando nel Sud.

Limitando l’esame al periodo della Resistenza, occorre rammentare che la valutazione della politica di unità nazionale che fu data dai dirigenti del PCI al Nord poneva l’accento su aspetti diversi da quelli sottolineati da Togliatti al Sud. In effetti, mentre al Sud la partecipazione del partito al governo Badoglio si situava all’interno di un gabinetto che andava dai monarchici ai comunisti sotto l’occhiuta tutela del governo militare anglo-americano, la presenza del PCI al Nord, nel CLNAI, era invece una presenza massiccia ed egemonica, degna di una vera avanguardia della lotta antifascista. Sennonché proprio l’abilità e il prestigio dei quadri centrali che dirigevano il partito al Nord (mi riferisco ovviamente a Pietro Secchia e a Luigi Longo) spingeranno le masse, nel momento dell’insurrezione, a credere che la politica di unità nazionale fosse la prima tappa di una rivoluzione ininterrotta verso il socialismo/comunismo.

Ma la sostanza era ben diversa, ed emerge senza attenuazioni e perifrasi da una nota, risalente al 24 giugno 1945, del “Promemoria autobiografico”, in cui Secchia scrive:

«Gli “alleati” erano i veri padroni, il governo italiano contava poco, eppure era tutto un indaffararsi di carattere governativo ed anche i nostri da un anno erano ormai inseriti in questo lavoro ministeriale-parlamentare, nei mercati delle vacche e in tutti gli intrighi e le cucine dei diversi ministeri e relativi sottobanchi, tutti volti a problemi ben diversi da quelli che costituivano l’attività quotidiana nel Nord… Fui assai amareggiato da queste situazioni. Compresi che per la seconda volta eravamo stati fregati».

In realtà, come era già accaduto nel biennio 1919-1920, il freno maggiore del processo rivoluzionario era da individuare, ancora una volta, nel ‘centrismo’, consistente, per quanto riguarda il comportamento politico-ideologico di Secchia, nella oscillazione tra l’egemonia togliattiana di chiara impronta revisionista e un radicalismo rivoluzionario incapace di fuoriuscire dal quadro strategico della ‘via italiana al socialismo’.

Per contro, Togliatti fu sempre molto chiaro nell’illustrare i contenuti, le modalità e i fini della sua prospettiva revisionista.

Il ruolo centrista svolto da Serrati nel ‘biennio rosso’ sarà così assolto da Secchia, il quale, malgrado la disincantata lucidità del suo sguardo, deciderà di ‘coprire’ a sinistra Togliatti vanificando la spinta rivoluzionaria delle masse del Nord con l’illusione politico-ideologica della politica del ‘doppio binario’, cioè con la prospettiva di un’azione che avrebbe mirato, nel momento opportuno, ad obiettivi rivoluzionari.

Il paradosso storico fu pertanto che il lavoro organizzativo di tipo leninista svolto da Secchia e da Longo aveva creato, sia sul terreno militare sia sul terreno della lotta di massa, una serie di strutture che, una volta ampliate e rafforzate, avrebbero potuto sostenere un processo di rivoluzione ininterrotta anche di lunga durata. Ma quelle strutture furono completamente abbandonate non appena l’Italia fu liberata dai tedeschi.

Estendendo il discorso da fare in questa sede alla parabola del revisionismo italiano, occorre chiarire che è del tutto infondato il giudizio storico-politico secondo cui il revisionismo, cioè l’abbandono, nei fatti, di una prospettiva rivoluzionaria e la sua sostituzione con una strategia riformista, sarebbe cominciato nel periodo della direzione di Berlinguer, mentre il periodo precedente (1945-1970) sarebbe stato un periodo immune dal virus revisionista.

Al contrario, un’analisi storica non superficiale basta a dimostrarci che la degenerazione revisionista risale perlomeno al 1945, ossia alla gestione semi-opportunista della “svolta di Salerno”, laddove la ‘svolta’ fu una scelta giusta, poiché la contraddizione centrale era in quel momento la contraddizione tra il fascismo e la Resistenza, e l’errore di Togliatti, all’inizio minima deviazione angolare, destinata a diventare poi una forbice sempre più ampia nei cinque lustri successivi, fu quello di trasformare una scelta tattica in una prospettiva strategica di collaborazione con la borghesia.

Perché questo processo involutivo è potuto avvenire? Per rispondere a questa cruciale domanda occorre ribadire che, al netto dell’azione di contrasto esplicata, con l’appoggio di Stalin, da Secchia e da una frazione minoritaria formalmente antirevisionista, la trasformazione del PCI in “partito operaio borghese” (secondo la classica definizione di Engels e di Lenin), prima della sua finale liquidazione ad opera di Occhetto e di Napolitano, non è stata semplicemente l’opera soggettiva di un gruppo di dirigenti revisionisti (quasi che il PCI fosse un ‘corpo sano’ con una ‘testa malata’).

Questi dirigenti infatti erano l’espressione di una precisa realtà sociale, rappresentata dal crescente predominio, all’interno di quel partito, dell’aristocrazia operaia, della burocrazia sindacale, della piccola borghesia e degli intellettuali borghesi e piccolo-borghesi: predominio dovuto alla politica di corruzione dei quadri comunisti praticata dai ceti dirigenti del capitalismo sul piano sia economico che ideologico.

«Oggi – scriveva Lenin già nel 1916 – il “partito operaio borghese” è inevitabile e tipico di tutti i paesi imperialisti… Nella lotta fra queste due tendenze – continuava Lenin riferendosi alla lotta fra il revisionismo di cui è portatore il “partito operaio borghese” e il marxismo rivoluzionario di cui sono portatori i comunisti – si svolgerà ora inevitabilmente la storia del movimento operaio, poiché la prima tendenza non è casuale, ma economicamente determinata».

Evidentemente, come rivela l’involuzione delle formazioni comuniste create e poi sciolte in questo ultimo decennio, non è né facile né semplice liberarsi dal retaggio identitario, opportunista e revisionista, del PCI, se non si fanno i conti con quella che è stata a suo tempo felicemente definita come l’ideologia della “rivoluzione senza rivoluzione” e, più in generale, con il gramscismo.

Una lezione che certamente Secchia meditò negli ultimi anni della sua parabola politica, quando fu colpito dal movimento studentesco, nel quale ravvisò somiglianze col ribellismo della propria generazione, ma che interpretò sempre facendolo rientrare nei canoni leninisti della sua formazione teorica.

Frutto di questa simpatia e, in particolare, dei legami stretti con il Movimento Studentesco di Milano fu la sua collaborazione con l’editore Giangiacomo Feltrinelli, che si tradusse nella cura della rivista “Annali” e in quel libro sulla “Guerriglia in Italia” (1969) al quale si deve la grande influenza esercitata nella formazione del mito postumo del suo autore.

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2 Commenti


  • Francesco Pelullo

    analisi interessante!! la svolta di Togliatti
    deluse una intera generazione, che avevano pagato duramente, anche con la loro giovine vita.
    Mi riferisco ai partigiani, antifascisti, a tutt quella minoranza che riscatto’ il nostro paese, dalla barbarie nazifascista.
    Che tristezza oggi vedere quel seme mortifero al Governo di questo bel paese.


  • Giancarlo staffo

    Il Rivoluzionario di professione zi6 ripropone oggi come figura indispensabile per Partito di Quadri con basi di massa. Pietro Secchiaed altri di quella leva sono esempi da studiare

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