Nel caso egiziano, paese di maggiore rilevanza geopolitica rispetto alla Tunisia, si può azzardare a dire che c’è stato un tentativo della classe media di prendere il potere dopo essersi vista privata dei “propri diritti”, come conseguenza di due fattori: la frode elettorale che ha lasciato senza il minimo potere non gli islamici, poibiti, ma qualunque formazione elettorale di opposizione, e inoltre il peggioramento della situazione economica come conseguenza non di un sistema economico che la classe media non mette in discussione, ma da un suo proprio degrado materiale di classe di fronte all’aumento mondiale dei prezzi dei generi alimentari.
In Egitto da anni c’era sentore di insofferenza della classe media di fronte al mantenimento, senza prospettive di cambiamento, di un sistema politico ed economico centralizzato nell’oligarchia militare che dal 1952 governa il paese e ne controlla le risorse. Arroccati attorno al Partito Nazionale Democratico(partito di Sadat e poi Mubarak), questi settori dell’oligarchia hanno impedito qualunque tipo di partecipazione di una classe media sempre più irrequieta, che non solo non accedeva alla “spartizione della torta”, ma addirittura faceva difficoltà nel trovare un lavoro qualificato e all’altezza della propria formazione.
Per questo, la rivolta era solo una questione di tempo e l’esempio tunisino ne è stato il detonatore. Ma una rivolta non è una ribellione ne tantomeno una rivoluzione. Guidata dalla classe media, non c’è stata una direzione precisa delle rivolte e al suo primo apparire si è presentata come una rivolta di giovani piccolo-borghesi incatenati al computer senza la minima esperienza di lotta contro il regime. Di fronte allo spontaneismo c’era una ben istruita e unita istituzione militare che per molto tempo si è limitata a fare da “arbitro” mentre si scatenava la rabbia della popolazione e che ha lasciato astutamente la polizia come forza di contenimento da parte del regime delle “legittime aspirazioni” dei manifestanti. Con quest’attitudine, appoggiata da determinati mezzi di comunicazione e con una classe media tutta presa nei suoi discorsi sulla “protesta pacifica”, l’Esercito non si è visto per quello che veramente è, il vero
nemico se si vuole una trasformazione reale dell’Egitto.
Non c’è dubbio che è stata una mobilitazione popolare nella quale la partecipazione dei lavoratori è stata a mano a mano più attiva ed importante. Ma nel momento in cui i lavoratori prendevano protagonismo e radicalizzavano le proprie azioni come è successo a Suez, Port Said, Asyut, El Arish e Mahalla al Kubra(per citarne alcune), con l’occupazione di edifici del governo, macchine della polizia e caserme bruciate(1) e con la programmazione di una serie di scioperi in tutto il paese che hanno minacciato anche la chiusura del canale di Suez, i militari hanno deciso che poteva bastare e hanno dato la spinta finale a Mubarak facendolo abbandonare la presidenza senza lasciargli la speranza di poter compiere la bravata annunciata di mantenere il potere fino a settembre.
Si può parlare di colpo di Stato “bianco” da parte dell’Esercito. Una rivolta della classe media è facile da controllare accettando alcune riforme politiche e sociali che non mettono in discussione il sistema. Una rivoluzione, no. C’erano già prove sufficienti del potere di mobilitazione operaio, emerso negli scioperi tessili del 2007 e 2008 (2).
E si sono visti chiaramente i reali obiettivi delle rivolte della classe media: una delle icone mediatiche, il famoso blogger Wael Ghonim, legato e saziato dalla borghesia egiziana anti-Mubarak e dai mezzi di comunicazione occidentali, nel pieno delle mobilitazioni lanciava su Twitter un appello a sospendere gli scioperi (3), il giorno in cui il vicepresidente Suleiman leggeva il comunicato-imposto da Mubarak-annunciando l’abbandono del presidente e la formazione di una Giunta Militare che avrebbe diretto il paese ad interim.
Allo stesso modo quando si estendeva la rivolta, da internet si moltiplicavano gli appelli alla de-mobilitazione con una frase sospetta: “obiettivo raggiunto”. E la de-mobilitazione è stata rapida senza aver raggiunto altro se non la rinuncia, non completa, di Mubarak. Certo, non è più presidente, ma i suoi insegnamenti e i suoi uomini rimarranno invariati per molto tempo: il Consiglio Supremo delle Forze Armate(CSFA) ha annunciato sabato 12 di febbraio che avrebbe mantenuto ad interim lo stesso governo deciso da Mubarak e che l’Egitto manterrà intatti i trattati internazionali sottoscritti. Come dire, i pilastri del sistema rimangono intatti. La versione egiziana del “atado y bien atado” franchista. A conferma di ciò, le prime misure del governo di transizione annunciano un “rispetto della polizia”, chiedendone la collaborazione sorvolando sull’altissimo livello di repressione portato avanti durante le mobilitazioni, e il
mantenimento della politica economica e finanziaria.
Si può affermare che la fase iniziale della rivolta ha ottenuto delle vittorie: Mubarak è uscito dal primo piano della scena, ci sono più diritti sociali e i militari hanno promesso riforme e elezioni. Se la classe media si accontenta di questo, l’oligarchia militare continuerà a controllare le risorse dell’Egitto. E allora sarà l’ora della rivoluzione. Ma di fronte non ci sarà più la polizia di partito ma quella “democratica”.
A gennaio 2011, una settimana prima che cominciassero le rivolte, la Banca Mondiale elogiava l’Egitto e lo considerava il paese con i migliori risultati degli ultimi anni, affermando che la sua crescita sarebbe stata del 5-7% per il 2011. Macroeconomia che non raggiungeva la popolazione e che la classe media vedeva passare sotto il suo naso senza averne nessun beneficio. Per non parlare della classe operaia, obbligata a vivere con salari miserevoli di meno di due euro al giorno.
La rivolta della classe media è stata condivisa dalla classe operaia, che ha aproffittato in quest’ultimo mese per creare una nuova Federazione Sindacale Egiziana e comitati in molte fabbriche. C’è stata unità sugli obiettivi minimi -la rinuncia di Mubarak- ma poco più. L’equilibrio di potere fra le classi sarà deciso da adesso in poi.
Le conseguenze geopolitiche
Con le misure annunciate da CSFA, Israele ha dormito tranquilla per la prima volta in quasi tre settimane. USA e la UE si congratulano e perfino i molto pacati sauditi applaudono l’uscita che si è data alla crisi (il loro mercato aveva perso una media di 6% dall’inizio delle rivolte). Anche se con altri argomenti, la gioia si è estesa anche a altre zone e organizzazzioni, come Hezbollah, che era stato satanizzato e criminalizzato dal regime di Mubarak perché aveva cercato di appoggiare la resistenza palestinese quando Gaza soffriva l’attacco israeliano agli inizi del 2009. Un dato: nei primi giorni della rivolta c’è stata una fuga in massa di prigionieri, anche se alcuni hanno insinuato che era stata favorita dal regime per creare caos. Sia stato così oppure no, il fatto è che uno degli evasi era un militante di Hezbollah incaricato di formare la rete di appoggio agli abitanti di Gaza durante l’agressione israeliana, il quale è già
tornato in Libano (4).
Senza dubbio è sul piano geopolitico che la rivolta della classi media egiziana avrà maggiori ripercussioni. La prima ripercussione importante è che, nonostante tutto, la bilancia non pende più dalla parte di Israele. Se fino a oggi il principale alleato di Israele era la debolezza dei regimi arabi e lo schiacciamento delle popolazioni, da adesso in poi le sarà più difficile avere sotto controllo la situazione se ci sarà una certa liberalizzazione politica. Il semplice fatto di avere militanti islamici nei parlamenti rende più difficile la sistematica politica di sottomissione alle decisioni israelo-statunitensi e, di conseguenza, diminuisce la capacità della politica coercitiva sionista.
Gli USA non possono continuare a cercare di creare divisione ipotizzando una lotta fra sunniti e sciiti, come nel caso della sua campagna mediatica contro l’Iran. I Fratelli Mussulmani dell’Egitto, sunniti, il migliore e più numeroso e disciplinato gruppo politico ha legami storici con l’Iran che risalgono agli anni ’70. Uno degli ideologi della Rivoluzione Islamica iraniana, Ali Shariati, cita con frequenza il pensiero di uno dei principali ideologi dei Fratelli Mussulmani, Syed Qutb. E quando un comando di militanti di quest’organizzazione uccise nel 1981 il predecessore di Mubarak, Anwar Sadat, per aver firmato l’accordo di pace con Israele, i familiari della maggior parte dei membri di quel commando hanno ricevuto asilo in Iran. Per di più, di fronte all’incremento della repressione del regime egiziano contro i FM da quell’anno in poi, molti dei principali dirigenti si sono rifugiati in Iran. Per sorprendente che possa sembrare,
agli USA e Israele rimane solo Al Qaeda per fomentare la lotta interna islamica.
Non bisogna dimenticare anche che prima della rivolta della classe media, Israele aveva già perso il suo alleato tradizionale turco, come conseguenza del massacro della Freedom Flottilla, e che la Siria ha ripreso potere politico a livello regionale (5) e l’Iran ha cresciuto la sua influenza a tutto il Medio Oriente.
Note:
(1) Hossam el-Hamalawy, 9 febbraio 2011.
(2) Joel Beinin y Hossam el-Hamalawy: “El sector obrero egipcio hace frente al nuevo orden económico” http://www.nodo50.org/ceprid/spip.php?article48
(3) www.arabawy.org, 11 de febrero de 2011.
(4) The Daily Star, 8 de febrero de 2011.
(5) Alberto Cruz, “Siria logra una nueva correlación de fuerzas en Oriente Próximo” http://www.nodo50.org/ceprid/spip.php?article852
*www.corrienteroja.net
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