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15 ottobre… qualcosa di completamente diverso!

Il contributo del collettivo Break Out e del Collettivo Autorganizzato Universitario (Napoli)

Madonna che noia! Tornati a casa dal corteo del 15 ottobre, un giro sui siti, poi un salto sui profili di amici e compagni, poi per sbaglio la televisione. Ed ecco arrivare massiccio il disgusto. Disgusto sì, perché chi si può ancora incazzare per le dichiarazioni della nostrana destra fascista, per l’infamità di un giornale come Repubblica, per le dissociazioni di un Vendola o di un Casarini, questi opportunisti da operetta che inseguono disperati il potere e non riescono manco ad avere una poltrona in Parlamento?

Siamo davanti al solito schema, collaudato da almeno dieci anni: la destra che dice che i giovani sono teppisti, che i black bloc vengono dall’Impero Austro-Ungarico e che in ultima analisi la colpa è del centrosinistra e persino di Draghi che con i suoi toni rivoluzionari li incita a sfondare tutto. Il centrosinistra che nella sua vacuità paraculeggia fra piazza e palazzo, esprime solidarietà imbarazzata alle forze dell’ordine invocando misure repressive degne del Ventennio, perché sappiamo tutti dove abitano i “violenti” e li potevamo andare a prendere prima del corteo. La sinistra, da SEL alla FIOM, passando per i disobbedienti nella loro ultima trasformazione di “Uniti per l’alternativa”, sbraita contro i “cattivi”, inventa infiltrati, ribadisce la propria non-violenza mentre minaccia “regolamenti di conti” all’interno del movimento, sputa veleno intuendo che si è rotto il giocattolino che li avrebbe dovuti – solo nei loro sogni, però – portare al governo, mettendo un bel cappello antiberlusconiano sulla piazza “indignata” e candidando i propri leader alle primarie del PD, fra un comizio scontato ed bel concerto. Alla fine chi ne esce meglio è proprio Draghi che, dopo aver scritto l’agenda di lacrime e sangue che distruggerà le vite di migliaia di persone, risulta un simpaticone perché si è schierato con i manifestanti, ed il caro vecchio Napolitano, che mette tutti d’accordo difendendo il decoro urbano della Città Eterna e la gloriosa civiltà italica…

Dieci anni dopo Genova lo stesso schema, solo un piccolo “taglio” sul sangue: sarà la crisi? In ogni modo tutto è pensato per spostare il fuoco del problema, per disinnescare la rabbia della gente, per dividere i manifestanti, per criminalizzare le lotte e dire: “siamo in democrazia, il dissenso è possibile, ma solo come diciamo noi”: fate un bel flash mob ed una bella petizione su internet e vi facciamo uscire bene in TV… I più fessi, come sempre, abboccano, e da pacifinti quali sono, mettono le mani addosso a qualche ragazzino vestito di scuro mentre dicono ogni giorno “sissignore!” ai loro capetti, sul lavoro o in sede di partito. Imputano ai “cattivi” il fallimento di una manifestazione che nella loro testa ci avrebbe consegnato il giorno dopo un governo di brava gente devota al popolo, intenta a lavorare per il bene comune.  “Pacifinti” inconsapevoli (e non sempre), di far parte a pieno titolo della strategia repressiva messa in campo in seguito al corteo. Una strategia vecchia e ripetuta più volte che si è attivata immediatamente e che nei giorni a seguire ha dato il via alla “caccia al facinoroso”, in rete e non solo, ma bussando alle porte delle persone che il 15 erano in piazza o che semplicemente sono conosciute per la loro presenza nelle lotte di ogni giorno. In tutta Italia perquisizioni a casaccio, solo a Napoli 20 sono state le persone svegliate all’alba dalle forze dell’ordine. E nel tentativo di terrorizzare l’opinione pubblica sui presunti “black bloc” rientrano pienamente le dichiarazioni dei vari Di Pietro e Maroni che propongono leggi speciali per i cortei, arresti preventivi e addirittura la reintroduzione della “Legge Reale” (il provvedimento che da di fatto alle forze dell’ordine la licenza di uccidere e che durante gli anni di Piombo ha fatto ben 625 vittime).

Il loro 15 ottobre sembra tutto raccolto in questa miseria intellettuale e umana, in queste povere opposizioni buoni/cattivi, violenti/non violenti, di fronte a cui viene da esprimere un sentimento e un concetto forse semplice, ma discriminante: la vicinanza ai ragazzi e ai compagni feriti, la solidarietà agli arrestati, l’assunzione e la rivendicazione – che non vuol dire necessariamente condivisione totale – di tutto quello che la piazza ha espresso. Un atteggiamento che ci piace ritrovare nei medici e negli infermieri che hanno protestato contro il comportamento della polizia che il 15 prelevava i feriti dagli ospedali, mostrando che molte persone “normali” sanno benissimo dove passa l’unica opposizione di cui non si può discutere, quella fra amici e nemici.

Il 15 ottobre che abbiamo vissuto noi è completamente diverso e lo proveremo a raccontare… Un 15 ottobre che mette da parte l’ipnosi dei media, il “dettaglio” del coccio rotto che diventa tutto il vaso, ed assume come centrale quello che succede nei rapporti reali, nei percorsi che si costruiscono giorno per giorno, nei discorsi che ci legano e ci danno un futuro. Anche perché le dinamiche dei media non le controlliamo mica: avessimo fatto un corteo pacifico saremmo svaniti domani, avessimo rotto una vetrina sola si sarebbe comunque parlato solo di quello. In mezzo a queste due alternative la via c’è, ma è sempre molto stretta, e forse in questo caso era ancora meno percorribile del solito, perché presuppone un minimo di chiarezza, rispetto ed accordo nel movimento. Vale quindi la pena di concentrarci su quello che ci rimane di questa giornata, sperando che la nostra piccola esperienza positiva sia condivisa e spinga anche la riflessione dei compagni in un’altra direzione.

Ed allora ci viene da dire innanzitutto una cosa, che “stranamente” è scomparsa: eravamo tantissimi, quattrocentomila, per una manifestazione che aveva molto di autorganizzato. È un numero che quadruplica quelle che erano le aspettative degli stessi organizzatori a pochi giorni dal corteo, e che andrebbe interpretato. Può significare una cosa negativa: cioè che nella testa della gente c’è ancora molta logica dell’Evento, e che il lavoro politico quotidiano non è riconosciuto come una necessità, visto che le iniziative sparse delle diverse realtà politiche non riescono ancora ad aggregare numeri significativi. Ma può anche significare che – nel momento di una comprensibile, scarsa credibilità delle organizzazioni grandi e piccole – scendere in una grande piazza ha ancora un valore ed un senso per centinaia di migliaia di persone che sono incazzate, che non ce la fanno più di questo stato di cose. E questo sarebbe già un elemento da non sottovalutare affatto, perché è un sentire che non si cancella il giorno dopo una manifestazione, comunque sia andata!

Nel nostro piccolo possiamo dire che da Napoli, superando di gran lunga anche le nostre aspettative, nel giro di una settimana centinaia di persone hanno deciso di prendere il proprio posto sul pullman e di partecipare al corteo. Abbiamo parlato con tutti i ragazzi, studenti e precari, che hanno condiviso il viaggio e lo spezzone con noi, e tutti esprimevano rabbia e confusione, incertezza sul futuro e sui modi per strapparlo, ma tanta insoddisfazione, non verso il singolo dettaglio (questo governo, il mio lavoro, la mia città), ma verso il sistema nel suo complesso. Persone che hanno chiarissimo in testa quello che non vogliono, che sanno quello che vogliono, ed ignorano come noi quello che ci sta in mezzo, ma intendono provarci comunque…

Ecco, questo è il nostro 15 ottobre, completamente diverso da quello dei media: non uno colorato e scherzoso da opporre ai pochi “neri”, ma uno fatto da gente normale, da figli di lavoratori e ragazzi che si faticano la vita e che, anche se a digiuno (forzato, visto che ce lo impongono dall’alto) di politica e di ideologie, non hanno problemi a scendere in piazza insieme a noi che siamo comunisti e diciamo che vogliamo sovvertire i rapporti di classe di questa società. Gente che non ha problemi a difendere con cordoni il corteo, non si spaventa troppo di chi indossa il casco per evitare che la testa gli sia rotta dal carabiniere di turno, e che è più consapevole di tanti compagni, perché non condanna la violenza a priori, o la esalta acriticamente, ma gli interessa solo che abbia un senso e che sia espressione collettiva.

Così siamo stati uguali ed insieme in piazza, caratterizzando una parte consistente del corteo in senso anticapitalista, gridando slogan niente affatto generici ed “indignati”, provando molecolarmente, di incontro in incontro, di volantino in volantino, a riportare al centro della discussione il metodo ed il bisogno di un’altra società. Provando a dare importanza alle relazioni che si costruiscono fra di noi che ci parliamo e ci guardiamo in faccia e ci assumiamo le nostre responsabilità, relazioni che non sono mediate da nessun media, e che forse messe insieme faranno progetto politico comune.

Vista così, dal nostro piccolo ma vero punto di vista, cercando di privilegiare il momento dell’incontro con chi poi speriamo da oggi in poi sarà il movimento a livello territoriale, la giornata del 15 cambia totalmente di senso. Smette di essere l’Evento alla cui istantaneità si affida un valore assoluto di prova e di controprova, e diventa – se sapremo continuare a lavorare bene, a spiegare ragioni, a dimostrare l’efficacia delle nostre azioni – un piccolo mattone di una costruzione più grande, di una mobilitazione autunnale che può far nascere una vera opposizione in questo paese.

Tutti vedono la violenza del fiume in piena. Nessuno vede la violenza degli argini che lo costringono” … Chi sono i violenti? La potenza evocativa delle immagini di devastazioni e incendi non sembra lasciare spazio a dubbi. E’ la violenza incontenibile del fiume in piena. Ma quali argini l’hanno costretta sinora, fino a farla esplodere in maniera così devastante? E’ la violenza non raccontata dell’intero sistema capitalista, che si abbatte quotidianamente con brutalità sulle nostre vite e soffoca aspirazioni, speranze, sogni. Non ci sorprende, a differenza di altri, che la manifestazione di Roma, essendo la più partecipata d’Europa, fosse anche la più conflittuale. L’Italia in questo momento si trova nell’occhio del ciclone, pronta a subire le stesse “cure” imposte dalla Banca Centrale Europea ad altri paesi, come la Grecia, che proprio mentre scriviamo è scesa nuovamente in piazza, in maniera partecipata e radicale, assaltando il parlamento, dopo aver dichiarato uno sciopero generale di 48 ore. Inutile, dunque, parlare di anomalia italiana rispetto alle altre manifestazioni europee, inutile parlare di paradosso: “la più partecipata ma la più violenta”. Noi pensiamo che le due cose siano andate di pari passo, perché hanno la stessa causa (l’acuirsi della condizione di futuro “precario”) e che la specificità italiana (con le tre manovre finanziarie di quest’anno) abbia solo fatto da benzina ad una miccia già accesa, che a guardar vicino ha bruciato già nel 14 dicembre scorso.

Dal punto di vista generale, il 15 ottobre non è stato altro che lo specchio di quella che è la confusione del momento, anche fra le aree dei compagni. Ed è per questo che non ci deve spaventare né lo dobbiamo esaltare. A livello di massa testimonia di una giusta intuizione, quella di prendere anche la piazza per imporre un cambiamento. Ma rivela pure diverse immaturità: quella di aspettarsi ancora qualcosa dalle vie istituzionali, quella di aver introiettato il moderatismo, la subalternità e la mancanza di sogni come orizzonte di vita, quella di non saper individuare degli obbiettivi comuni su cui convergere tutti, ognuno con la sua sensibilità, quella di esaurirsi nel “bel gesto” senza nemmeno preoccuparsi di essere capiti dagli altri.

Forse, di questo 15 ottobre, si può solo dire che è stato. Al momento è una bella “X” (perché non c’è nessuno che può dire di aver vinto ieri, semmai c’è solo qualcuno che ci ha rimesso di più), una “X” con un punto interrogativo vicino… Di buono c’è che sono, se non saltati, almeno ostacolati i progetti governisti di una parte del movimento, che non ha più l’egemonia sulla piazza e che dovrebbe fare di più i conti con la rabbia delle persone, invece di provare costantemente a imbrigliarla facendo passare il corteo lontano dai luoghi (almeno simbolici) del potere. Di cattivo c’è che la giusta violenza degli oppressi non ha avuto un obbiettivo chiaro, non si è dispiegata in un tentativo di convergere verso il Parlamento, di comunicare che ci andavamo a riprendere quello che loro dicono essere nostro. La violenza ha preso di mira quello che poteva, ma non sempre quello che “si poteva” è quello che “andava fatto”.

Da questo punto di vista la differenza con gli scontri del 14 dicembre c’è tutta: lì i poliziotti e la strada erano solo un ostacolo verso un governo che aveva appena “comprato” la fiducia, non l’obbiettivo ultimo della nostra lotta. E quando tornammo a casa tutti ci dicevano “bravi”, perché avevamo interpretato un sentimento popolare, quello che tutti volevano fare, nonostante il bombardamento buonista della Repubblica e di Saviano. Tanto che per “recuperare” quel movimento a più miti consigli ci volle una gigantesca operazione con protagonista Napolitano ed i capetti del movimento che andarono a fargli visita; oggi invece potrebbe bastare ripetere all’infinito la sineddoche della camionetta bruciata e l’accanirsi contro i “soliti” centri sociali, magari comminando pene pesantissime agli arrestati. Così un po’ di amarezza resta in bocca a tutti, militanti e non, non solo per non essere arrivati al Parlamento, ma per non averci manco potuto provare perché la situazione è diventata subito ingestibile, e per non aver nemmeno terminato il corteo dove si era detto.

Insomma, il 15 ottobre è stato. Ma cos’è stato per davvero lo capiremo fra qualche giorno o qualche settimana. Dipenderà di sicuro dall’apertura mentale dei compagni, che devono lavorare non solo a decostruire la narrazione dei media, mostrando chi sono i veri violenti – le forze dell’ordine certo, ma anche Marchionne, Marcegaglia, Draghi, la Troika europea, le agenzie di rating, tutti quelli che decidono delle nostre vite –, ma anche a definire bene gli obbiettivi e la strategia per sconfiggerli. Ma dipenderà soprattutto da voi per cui scriviamo, dai tanti che sono scesi per la prima volta in piazza, da quelli che non sono scappati, da quelli che hanno voglia e coraggio per continuare.

Coll. Architettura Break Out – Collettivo Autorganizzato Universitario 

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L’intervento del Laboratorio Politico Iskra

15 ottobre: forme e sostanza

Sugli esiti dell’imponente corteo di sabato scorso a Roma si sono già prodotti fiumi di inchiostro e di caratteri digitali.

Non essendo intenzione di questo scritto aggiungersi alle annosa, eterna e politicamente idiota dicotomia “violenzanon violenza”, diciamo fin da subito che la violenza è il fondamento irrinunciabile del dominio capitalistico, tanto più nell’epoca della sua crisi sistemica, e con essa milioni di proletari del nostro paese fanno i conti ogni giorno mediante soprusi, ricatti, negazione dei più elementari diritti, forme brutali di sfruttamento, saccheggio dell’ambiente, delle risorse e dei beni comuni, massacro di intere popolazioni in nome del profitto delle multinazionali imperialiste.

E’ violenza terroristica costringere un’intera generazione a lavorare senza alcun diritto e tutela, con turni, ritmi ed orari schiavistici, e paghe di 56 euro l’ora che a fine mese servono a malapena a pagare un affitto o un mutuo da rapina; è violenza terroristica l’imposizione all’intero mondo del lavoro dipendente del “modelloMarchionne”, agitando lo spauracchio della disoccupazione e dellosmantellamento di interi impianti produttivi; è violenza terroristica quella di chi impone tagli ai servizi sociali al fine di salvare la rendita finanziaria; è violenza terroristica continuare a far pagare la crisi a chi già da trent’anni paga i costi delle ristrutturazioni padronali e si è visto ridurre all’osso il potere d’acquisto del proprio salario o della propria pensione; è violenza terrorista la continua ostentazione di sfarzo e ricchezza nelle mani di un manipolo di parassiti mentre la gran parte del paese è in ginocchio. Tra questi terroristi e coloro che sono stati bollati come tali a seguito di una giornata di rabbia e di resistenza per le strade di Roma, non esitiamo neanche un attimo ad affermare che siamo e saremo sempre dalla parte dei secondi. Parafrasando le parole pronunciate da Claudio Scajola (un nome quanto mai sulla breccia negli ultimi giorni) a luglio 2001 nelle vesti di ministro degli interni in difesa delle sue “forze dell’ordine” protagoniste della mattanza di Genova: se nel corso della giornata ci sono stati degli eccessi non c’è dubbio che essi siano da condannare, ma ciò non lede minimamente il nostro appoggio incondizionato alle migliaia di manifestanti che a San Giovanni e nelle vie di Roma hanno difeso il corteo, reagendo e resistendo per ore ai caroselli e alle cariche indiscriminate degli uomini armati al servizio di Maroni.

D’altronde, il concetto stesso di “eccesso” risponde per sua stessa natura a giudizi di valore del tutto soggettivi: la gran parte dei banditi che siedono in parlamento reputano normale che milioni di giovani lavoratori campino con 600/700 euro al mese o che migliaia di operai si ritrovino da un giorno all’altro disoccupati, ma considerano un “eccesso” anche un semplice e democratico sciopero a difesa dei posti di lavoro (basterebbe pensare al killeraggio scatenato contro la Fiom negli ultimi mesi); la piccola e media borghesia radicalchic, “indignata” contro gli effetti della crisi ma incapace di andare oltre il mugugno e prigioniera dell’intramontabile mito della “democrazia” e delle “tutele costituzionali”, ritiene eccessivo e deprecabile anche il solo scendere in piazza con un servizio d’ordine e con mezzi di autodifesa; per ciò che ci riguarda, ritenendo del tutto legittima la rabbia espressa in piazza, ci limitiamo a constatare che tra l’incendio di un SUV e il rogo di un utilitaria passa la linea che separa la lotta di classe dal ribellismo nichilista.

Al tempo stesso, chiunque abbia visto il corteo giunto a San Giovanni coi propri occhi e non per il racconto fattone da stampa, televisioni o da qualche funzionario o portaborse del politico di turno, sa benissimo quanto abissale sia stata la differenza (qualitativa, quantitativa e quindi politica) tra le azioni dimostrative isolate condotte lungo il corteo da un numero estremamente esiguo di manifestanti, e la risposta diffusa e di massa con la quale in migliaia (ivi compresi centinaia di “pacifici” che non appartenevano allo spezzone di testa) hanno respinto l’attacco delle forze dell’ordine a San Giovanni e nelle zone limitrofe. Chi parla di esigua minoranza isolata dal corteo o è in malafede o crede alla Befana.

Del resto, quella del 15 ottobre era una storia già scritta: a chi dall’interno del movimento blatera su presunte coperture e regie politiche degli scontri ad opera di aree politiche o centri sociali “non allineati”, verrebbe da rispondere che se proprio si vuol parlare di responsabilità politiche, esse ricadono interamente su chi ha per mesi ha lavorato a depotenziare la portata conflittuale della manifestazione romana, rigettando le innumerevoli proposte, provenienti dalle aree di movimento più disparate, di portare il corteo nei pressi della sua naturale controparte, assediando i fortini del potere.

Il malcelato proposito di trasformare la data del 15 in una innocua passerella, perseguito in queste settimane da un manipolo di sciacalli (questi si davvero estranei al movimento) che si sono infiltrati nella protesta con l’unico fine di traghettarla verso i sempre più maleodoranti lidi istituzionali, ha prodotto il risultato opposto; l’ipocrita e meschino tentativo di usare la protesta per parassitare qualche voto in più per SeL alle prossime tornate elettorali e per “lanciare” Vendola e compagnia come i nuovi salvatori della patria a capo di un Nuovo Ulivo, ha scatenato una sana e sacrosanta ondata di rigetto la quale, in mancanza di stabili punti di riferimento autonomi e di classe e in assenza di una progettualità politica di superamento dell’esistente, non poteva che manifestarsi nelle modalità a cui abbiamo assistito.

Mentre l’esercito della propaganda asservita ai padroni (di ogni colore e schieramento) sin dal pomeriggio di sabato ha sguinzagliato con forza inaudita il suo esercito di pennivendoli, sociologi e opinionisti prezzolati col solito corollario di scoop e dissertazioni di sociologia spicciola su violenza, non violenza, black block, teppismo cieco, gioventù disadattata, pericoli terroristi e via delirando, il tutto con l’evidente fine di distogliere l’attenzione dagli effetti catastrofici dalle ricette lacrime e sangue imposte da Bankitalia e BCE, per noi, che da inguaribili materialisti leggiamo in questa crisi e nel malcontento che essa produce nient’altro che il segno inequivocabile della ripresa dello scontro di classe, il significato e con esso la sostanza politica derivante dalla giornata del 15 ottobre è molto semplice: a Piazza San Giovanni migliaia di proletari hanno espresso la propria rabbia non solo contro un governo e uno stato che hanno rapinato loro il diritto al lavoro, alla casa e alla vita, ma anche contro chi da un lato dimostra quotidianamente il proprio asservimento a quel sistema che ha generato la crisi, dall’altro vorrebbe lucrare sul malcontento di chi quella crisi la subisce per i propri squallidi tornaconti di poltrona.

D’altra parte, è evidente che un tale tentativo di snaturare la giornata del 15 non avrebbe mai potuto attecchire senza una sponda significativa interna al movimento. Si tratta di una storia oramai trita e ritrita: gran parte della nomenclatura di movimento, della lobby degli “incendiari a chiacchiere”, dei ribelli di professione, dei tifosi delle rivolte lontane (e più sono lontane, meglio è per loro…), non appena il conflitto inizia a farsi reale e non solo virtuale, diretto e non mediato, autentico e non telecomandato, né tantomeno manipolabile a fini elettorali, passano in un batter d’occhio sull’altra sponda, alimentando il teorema della divisione tra “buoni” e “cattivi” e invocando rese dei conti tra

pacifici e “violenti”. Da questo punto di vista, non vi è nulla di nuovo sotto il sole, trattandosi dello stesso canovaccio che ha portato al rapido riflusso del movimento noglobal e che solo un anno fa portò il movimento NoGelmini a passare nel giro di una settimana dalla straordinaria rivolta del 14 dicembre alla pagliacciata delle delegazioni al Quirinale. L’unica novità è rappresentata dai nuovi proseliti che nelle ultime settimane si sono accodati al “partito dei buoni”: su tutti la Confederazione Cobas, la quale, seppur con un atteggiamento ondivago e contraddittorio finora aveva sempre avuto il merito di sottrarsi alle isterie paranoiche “antiblack block” e alle logiche da caccia alle streghe, e che invece il 15 si è contraddistinta per una condotta non dissimile da quella che da sempre essi imputano a CgilCislUil, prima schierandosi contro l’ipotesi di portare il corteo sotto ai palazzi del potere, poi sparando nel mucchio e criminalizzando indistintamente chiunque avesse osato resistere attivamente.

Non ci interessa sapere se effettivamente ci sia stato un baratto tra SeL e buona parte del Coordinamento 15 ottobre, né ci interessa conoscere l’entità della contropartita (che siano seggi al parlamento, posti da consigliere, da portaborse o anche solo la garanzia di coprire le spese di affitto di questa o quella sede) poiché per noi il dato è politico: l’atteggiamento di fronte ai fatti del 15 ottobre segna un’ulteriore e ancor più profondo spartiacque tra l’anticapitalismo e l’opportunismo, tra una pratica autonoma e di classe e le chiacchiere del riformismo in tutte le sue vesti e varianti.

Detto questo, ci pare altrettanto evidente che la trappola più insidiosa per il movimento anticapitalista sia quella di farsi schiacciare e mettere all’angolo da questa nuova strategia della tensione. Il disegno che è in atto ci appare chiaro: preparare il terreno ad una nuova svolta repressiva e reazionaria, i cui primi effetti si sostanziano nell’ondata di perquisizioni condotte in tutta Italia contro compagni delle aree politiche più disparate. La sortita sulla “nuova legge Reale”, non a caso ad opera di quel poliziotto campione dell’antiberlusconismo che risponde al nome di Antonio Di Pietro e fatta propria dai settori berlusconiani più propensi a un ipotesi di governo di solidarietà nazionale, è la riprova di come siano già in atto le grandi manovre tese a un ulteriore rafforzamento dei poteri dello stato borghese in chiave autoritaria.

In quest’ottica, questi fatti non possono esimerci dal chiedere il conto a chi, anche all’interno del movimento, in questi anni ha presentato l’antiberlusconismo, e quindi il dipietrismo, come una strada utile, se non addirittura imprescindibile, arrivando in qualche caso al punto da stringere con l’IdV accordi elettorali…

Venendo a noi, sarebbe del tutto semplicistico e fuorviante limitarsi ad enfatizzare la portata del 15 ottobre, senza al contempo interrogarsi sui limiti strutturali che caratterizzano non solo questo movimento in quanto tale, ma anche e soprattutto le capacità di intervento della sinistra di classe al suo interno.

In primo luogo pensiamo che alla strategia di isolamento messa in atto in questi giorni da parte dello stato e dei settori del ad esso subalterni non si possa rispondere, come fatto sinora, in ordine sparso o illudendosi di poter fare ciascuno da sè: se l’attacco è concentrico, la risposta non può venire dalla semplice riproposizione di un unità fittizia basata solo sul no alla repressione.

In secondo luogo, lo stesso corteo del 15 ha evidenziato una permanente rissosità all’interno dell’area di classe. Una rissosità che poggia su diffidenze reciproche e tatticismi esasperati, e che risulta sempre più appannaggio del vecchio ceto politico e sempre meno comprensibile da coloro che si affacciano alla lotta liberi dal pesante fardello dei decenni precedenti. Da questo punto di vista è necessario riaffermare la centralità della politica rispetto alle logiche di parrocchia.

Se il sistema del profitto mostra sempre più di essere alle corde, è giunta l’ora che i compagni hanno davvero a cuore le sorti del movimento e la sua autonomia dalle influenze riformiste si attrezzino con metodo e costanza per offrire uno strumento politico di dimensione almeno nazionale capace non solo di rappresentare l’alternativa in piazza, ma anche di prospettare una via d’uscita credibile dall’attuale stato di cose. Ad onta di chi vorrebbe usare i fatti del 15 per sferrare un colpo mortale alle mobilitazioni, già in questi giorni le lotte stanno riprendendo il loro corso, come dimostra lo sciopero dei metalmeccanici e la manifestazione dei NoTav in Val di Susa del 23 ottobre.

Per difendere e rilanciare le lotte è oramai imprescindibile che tutti coloro che si riconoscono nell’anticapitalismo si adoperino per dar vita a un coordinamento nazionale.

Laboratorio politico Iskra, Napoli

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