Menu

Il bacio del principe

Sembrava che la bella addormentata – non si parla del film di Bellocchio ma della variegata società araba teatro delle tanto pubblicizzate e tanto travisate «primavere» – si fosse svegliata da sola. Era questa la versione ufficiale, persino a costo di minimizzare pressioni, convenienze e intrusioni. Tornava utile a tutti esaltare quella liberazione come un prodotto autonomo e maturo del ciclo positivo innescato dal trionfo della democrazia e del mercato impersonati dall’Occidente. Persino la morte di Gheddafi, dopo il ludibrio del suo corpo, fu attribuita ai libici, sorvolando sul particolare che a centrare la sua macchina era stato un drone proveniente da Sigonella, questa Guantanamo d’Italia, e guidato a distanza da un computer sito in California.

Da quando la transizione, almeno nei paesi in cui c’è stata una prima sommaria stabilizzazione, non corrisponde del tutto alle immagini o alle aspettative, si sta facendo strada un’altra narrazione, che lamenta l’ingratitudine verso chi sarebbe stato il vero autore di quella «liberazione». I più cinici, o più ingenui, arrivano a dire che dopo tutto gli Stati Uniti, ora sotto tiro in molte capitali arabe, hanno compiuto il beau geste di «sacrificare» i loro fedeli alleati (e si pensa soprattutto a Mubarak perché la posta vera, anche per Israele, è ovviamente l’Egitto).

Dai commenti prevalenti non risulta in modo chiaro chi avrebbe tradito chi, ma il significato della deplorazione è che in realtà la bella addormentata è stata riportata alla vita dal bacio di un principe. Se ne deduce che su quelle labbra c’era qualche goccia di veleno. Nell’occasione dolorosa dell’assalto al consolato americano di Bengasi, con la morte violenta dell’ambasciatore Chris Stevens e di altri funzionari, sia Obama che Hilary Clinton non sono stati irreprensibili. Il presidente ha rivendicato la fermezza degli Stati Uniti su un principio irrinunciabile, che è risultato essere non la difesa della libertà o la giustizia ma la leadership del mondo. Il segretario di stato ha dichiarato che «la tirannia della piazza non può sostituire la tirannia dei dittatori» passando un bel colpo di spugna sulla mitologia di piazza Tahrir e delle altre rivolte, non propriamente pacifiche e alcune ancora in corso.

Forse non era il modo migliore per l’ultimo saluto allo sfortunato diplomatico che – come hanno testimoniato anche alcuni giornalisti italiani rivelando per una volta le loro fonti – si trovava a Bengasi già nelle prime settimane della guerra civile a «coordinare» i ribelli in armi. Non è qui il luogo per ricostruire la complessità del movimento che da Tunisi si è andato espandendo in gran parte del mondo arabo. Anche i più sprovveduti sapevano o capivano che si stavano confrontando forze di segno diverso che partivano da premesse diverse e perseguivano obiettivi diversi. Inevitabilmente, sarebbe venuto – e in parte è già venuto, ancorché con responsi provvisori – il momento dei conti e delle verifiche. Tirare delle conclusioni affrettate a un anno circa dagli avvenimenti può essere una conseguenza della cultura del web ma è anche un espediente per ipotecare nella direzione preferita sbocchi ancora tutti da definire. Le oligarchie rimaste al potere per decenni si accreditavano presso i loro protettori occidentali asserendo di essere un baluardo contro il «fondamentalismo»: se era solo un pretesto, la profezia si è autorealizzata. Con le elezioni o con la collera ha preso il via un’altra pagina di storia. Sorprende che a tanti anni dalle denunce degli equivoci dell’«orientalismo» siano ancora in voga analisi pre-Said, che interpretano il mondo araboislamico non per le sue dinamiche reali ma per i pregiudizi e gli interessi dell’Occidente.
È questo a ben vedere il vero tradimento delle Primavere arabe. Fra i tanti fraintendimenti il più pericoloso è quello, di inconfondibile stampo coloniale, che concepisce le guerre del Nord civilizzato come un atto dovuto e sostanzialmente a senso unico. La reazione di Obama ai fatti di Bengasi si spiega solo con un sistema che si regge sui postulati di un universalismo rigorosamente eurocentrico. Non solo il nemico esiste solo per essere colpito o sterminato, ma tutti gli «altri», come del resto è insito nella tradizione liberale, non hanno diritti.
Fino a ieri si fingeva che la Libia fosse un paese sovrano eppure, come in un Afghanistan o una Somalia qualsiasi, gli Stati uniti mandano in Cirenaica marine s e squadriglie di aerei e missili per dare la caccia ai colpevoli. Fra qualche giorno il candidato democratico alla Casa Bianca potrà forse confermare la sua fama un po’ sinistra di «presidente che sa uccidere». Non mancheranno poche o tante vittime fra i civili, ma, come negli assassinii mirati in Pakistan e Yemen, saranno danni collaterali che non fanno notizia.
Sarebbe troppo chiedere a Barack Obama una riflessione sulla politica della sua amministrazione nel Medio Oriente, in Palestina, verso l’Iran e l’islam, dopo il discorso al Cairo del giugno 2009 che gli meritò di fatto il Nobel per la pace?

da “il manifesto”

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *