In uno spot pubblicitario abbastanza noto si vedono un migliaio di calciatori scendere in campo contro una squadra con i soli undici regolamentari. In un altro un adulto sfidare un bambino a braccio di ferro. “Ti piace vincere facile?”, recita la voce in sottofondo.
Ogni potere ha la tentazione di trasformarsi in strapotere, puntando a diventare eterno per assenza o quasi di contrasto. Vale per Israele versus Gaza, vale anche per il “governo tecnico”. O per i poteri multinazionali che l’hanno installato a palazzo Chigi non diversamente da un’astronave aliena sulla Terra.
Quali strumenti usa per raggiungere il suo obiettivo?
Manganelli, disinformazione, complicità istituzionali.
In piazza, come debbono ammettere anche i media mainstream, non c’è più manifestazione – operaia, studentesca, precaria, disoccupata – che non venga brutalmente affrontata a mazzate e lacrimogeni.
Quando la brutalità supera l’ammissibile, e soltanto se provata da video e foto in quantità industriale, scatta la minimizzazione della violenza poliziesca e l’enfatizzazione della “resistenza” opposta dai manifestanti, la moltiplicazione degli “agenti feriti” e la negazione delle ferite e fratture inflitte. Una volta il poliziotto che sparava alle spalle era sempre “inciampato” e il colpo mortale sempre “accidentale”. Il problema è che oggi questa iattanza nell’”aggiustare” la versione da consegnare ai media diventa semplicemente non credibile. Perché sproporzionata e in misura ridicola.
Indossare un casco per proteggersi la testa – è lì che mirano sempre i celerini “addestrati” – si trasforma in “armati”; un libro di gommapiuma diventa una componente fondamentale della “testuggine guerrigliera”. E non sono certo quelle ninja…
In pratica, a leggere le note degli uffici stampa delle questure, l’ideale sarebbe che i manifestanti dichiarassero le generalità prima di andare in piazza; ovviamente nudi e senza scarpe, in modo da non poter fuggire; e fermi in attesa della comunque manganellata d’ordinanza. Solo in quel caso, in effetti, si riconoscerebbe di aver “ecceduto”, anche se con una commento “comprensivo” per lo stato di stress degli agenti in servizio.
Il “ministro tecnico” di polizia è un prefetto di carriera. Un poliziotto che tornerà tale a fine legislatura. E dalla sua “formazione professionale”, poco incline a cogliere le sfumature della Costituzione repubblicana, sono uscite affermazione di una evidente gravità. Non colte neppure da chi dovrebbe esser vaccinato.
«Da una parte dobbiamo garantire la sicurezza degli operatori e delle loro famiglie, dall’altra non si può fare un discorso del genere se non si fa altrettanta chiarezza su chi partecipa ai cortei travisato o armato. È un tema che va discusso anche con gli operatori di polizia, quindi anche con i sindacati, tenendo conto che occorrerà fare delle norme più rigorose per chi nei cortei più volte crea disordini, un pò come ci sono per gli stadi, tipo il daspo per i manifestanti. Ci sono diverse proposte in questo senso che vanno valutate». In questa legislatura? «Non lo so. Questa è una legislatura tecnica».
È comprensibile, ma non giustificabile, che un poliziotto non distingua tra “divertimento” e protesta sociale; da “tecnico” non gli interessa affatto la ragione per cui decina di migliaia di persone di riuniscono e muovono insieme. Per lui sono una “massa pericolosa” proprio perché fatta di grandi numeri. E quindi non vede necessità di affrontare motivazioni differenti con strumenti differenti. Soltanto in questa subcultura si può immaginare di estendere al campo politico il “daspo”. Una subcultura autoriaria ed esplicitamente fascista. Durante il Ventennio mussoliniano, infatti, era abituale convocare in questura (o presso la “milizia”) tutti gli antifascisti noti residenti lungo le strade che “il duce” avrebbe dovuto percorrere. A chi verrebbe impedito, in questo modo, di manifestare? A tutti quelli che l’hanno già fatto qualche volta, al limite. A chiunque insomma sia in grado di far tesoro dell’esperienza, ponendosi come “memoria” per le nuova ondate di “contestatori neofiti” spinti in strada dalla crisi, dall’assenza di futuro, dalla necessità di farsi sentire.
È una subcultura, vogliamo dire, in cui le ragioni dell’altro non sono ammissibili e non devono esistere. Soprattutto, non si debbono poetr “organizzare” ossia dare continuità, trasmissione di saperi, collegamento ideale.
Allo stesso modo, per questa subcultura non esistono “interessi sociali” differenti da quelli individuati e difesi sul terreno economico, del welfare, del lavoro. Solo in questa beata ignoranza si potevano fare così male i conti da provocare un esercito di “esodati” difficile persino da identificare e quantificare.
Ma dobbiamo (quasi) ringraziarli. Se non l’avevamo capito, ce lo stanno spiegando con dovizia di slide: noi non contiamo nulla (o non dovremmo aspettarci di contare qualcosa) e loro sono preparati a passarci sopra; con le camionette o la riforma delle pensioni, con i contratti aziendali o quelli precari. Per gli alieni scesi dall’astronave inviata dalla Troika, al dunque, siamo carne da lavoro; fuori dell’attività produttiva dovremmo restare automi fermi in pausa, con le batterie scollegate e magari un ago nella vena per non sentire troppo dolore. Altrimenti…
Ma qual’è lo schema subculturale che viene agito in modo condiviso da tutti i soggetti “ammissibili” (politici, “sindacali”, mediatici)?
Ne abbiamo visto una dimostrazione ieri sera, in una delle rare trasmissioni televisive che hanno proposto punti di vista davvero diversi sul tema: L’Infedele di Gad Lerner. Il tasso di civile discorsività è crollato quando “la violenza” è stata fatta entrare nel discorso.
Quale violenza? Quella “illegale” dei soggetti sociali in sofferenza, naturalmente. Quella delle polizie (in Italia ne abbiamo molte, ci dovete scusare se non le nominiamo sempre tutte…) è “giusta sanzione”.
Qui il meccanismo del “ti piace vincere facile?” si è imposto con violenta naturalezza. “Violento” diventa tutto. Il lancio di uova (uova!!!, mica bombe…) contro un paio di sedi dei sindacati “complici”, il casco indossato a protezione della testa, la resistenza passiva opposta dai lavoratori dell’Ikea di Piacenza (seduti in terra, abbracciati gli uni agli altri), le parole con cui si cerca di spiegare che senza una mediazione sociale non ci può essere vera rappresentanza; né sul piano sindacale né su quello politico. E che, quindi, ogni conflitto è destiato così a radicalizzarsi, a prescindere dalla volontà o dalle ideologie dei “ribelli per disperazione”.
I fantasmi del passato possono essere agitati contro le proteste del presente per una sola ragione: viene fatta sparire la quantità. Una parola vale un colpo di manganello o di pistola, così come un razzetto artigianale dall’andamento incerto e dal percorso cieco vale una squadriglie di jet ultimo modello armati di missili a guida laser. Un morto “mio” ne giustifica mille “tuoi”. È una logica di sterminio molto “tecnica”, che si ripropone identica sul piano sociale come su quello militare. Ma niente affatto nuova.
Chi si illude di regnare in eterno ricorrendo a questo armamentario può vincere una o più battaglie, ma scompare presto dalla Storia. È una constatazione, non una previsione.
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