Il quadro attuale dell’Ilva è davvero preoccupante: Riva, il padrone del decimo gruppo siderurgico al mondo è irrintracciabile, la cassa sembra vuota, l’azienda vuole mettere “in libertà” 5 mila operai minacciando la chiusura immediata.
Come se non bastasse martedi una tromba d’aria si è abbattuta sulla fabbrica e sul territorio tarantino ed ha disperso per chilometri, tutt’intorno allo stabilimento, i materiali velenosi depositati all’aperto e che erano stati messi sotto sequestro dalla magistratura, a provocato decine di feriti tra la popolazione e tra gli operai. Un operaio dell’ILVA che stava lavorando su una gru al mento in cui scriviamo è disperso e, se dovesse essere dichiarato morto, si andrebbe a sommare ai 45 morti dal ‘93 ad oggi, tra quali Claudio Marsella ucciso a fine ottobre scorso schiacciato da un locomotore.
Da mesi i lavoratori dell’Ilva sono in lotta e in questi giorni hanno occupato la fabbrica per chiedere occupazione, salute pubblica dentro e fuori lo stabilimento, salvaguardia ambientale.
Il vertice a Palazzo Chigi sull’Ilva dovrebbe produrre un decreto ad hoc che potrebbe avere i caratteri inquietanti di quello che rese l’inceneritore di Acerra “zona di interesse strategico” con una militarizzazione di fatto. Sarebbe una presa in carico dei costi da parte dello Stato per mantenere in piedi l’attività, risanare per quanto possibile lo stabilimento e poi restituirlo al “privato” delinquenziale. La militarizzazione impedirebbe alla magistratura di mettere il naso in quel che accade lì dentro d’ora in poi; silenzierebbe la stampa, priverebbe la popolazione delle informazioni minime sui pericoli per salute; inchioderebbe i lavoratori ai macchinari, condannandoli al silenzio e impedendone la normale conflittualità sindacale.
Quelle che sta succedendo a Taranto non è un fulmine a ciel sereno. Da anni è una situazione denunciata da comitati locali, dall’ARPA pugliese, dall’azione della magistratura che da tempo ha istituito indagini e disposizioni di incidenti probatori, dalle Commissioni Parlamentari, senza che per questo la proprietà abbia fatto nulla o quasi, con la complicità di CGIL, CISL, UIL.
Della situazione prodotta dall’ILVA non possono essere i lavoratori a pagare il conto subendo oltre alle malattie fisiche anche la peggiore malattia sociale, cioè la disoccupazione. Sarebbe doppiamente orribile.
Misurarsi con le questioni ambientali unite a quelle del lavoro non può risolversi nell’alternativa occupazione buona o salvaguardia dell’ambiente, accondiscendendo al ricatto tra lavoro e distruzione e morte o disoccupazione e compatibilità ambientale.
La complicità dei sindacati collaborazionisti e di molta parte della sinistra del tutto consociativa con il sistema di mercato e di profitto, va oltre la condivisione di obiettivi con il padronato, configurandosi come una dipendenza intellettuale primitiva.
L’industrialismo padronale, sindacale, e della cosiddetta sinistra, si inquadra in una assunzione e condivisione dello sviluppo caratterizzati da marginalizzazione, precarizzazione, deconcentramento. Questa visione primordiale concepisce i rapporti sociali di produzione in un’idea ancora fordista dell’accumulazione, e buona parte della sinistra e il sindacato storico concertativo, compresa la CGIL, ne subisce una dipendenza intellettuale devastante.
Questo produce una assunzione ideologica dell’inevitabilità del “destino segnato”: morire di cancro e/o morire di (in) fabbrica.
Opporsi a questo crediamo sia possibile costruendo una battaglia ampia dell’intero movimento di classe dei vecchi e nuovi soggetti del lavoro e del lavoro negato, nelle diverse segmentazioni, in grado di risolvere in termini di classe le questioni del conflitto capitale-lavoro e quelle delle sue strutturali contraddizioni.
Un percorso in grado di creare una soggettività politica propria e fuori da ogni subalternità all’attuale modello di sviluppo, riattualizzando nella pratica del conflitto la concretezza dell’autonomia di classe, nella sua più ampia accezione di soggetti sfruttati e quindi necessariamente conflittuali poiché incompatibili con il sistema di sviluppo del capitale.
Non è necessario attendere il “sol dell’avvenire”, ma neanche prestarsi alla compatibilità e alla cogestione della crisi.
Bisogna avanzare proposte e programmi, anche tattici ma di netta rottura con le politiche del Governo Monti e di coloro che si candidano a sostituirlo in continuità con queste.
Per questo come Rete dei Comunisti stiamo avanzando una proposta politica.
La nazionalizzazione delle banche e delle imprese strategiche oggi è un obiettivo credibile e praticabile. Far tornare il controllo sul credito in mani pubbliche, significa poter compiere reali investimenti in senso sociale e ambientale avendo come priorità gli interessi collettivi.
Le risorse strategiche del paese come energia, trasporti, telecomunicazioni vanno nazionalizzate affinché tutte le leve fondamentali dell’economia reale siano sottratte agli interessi privati e speculativi.
Il non pagamento del debito pubblico, l’uscita dalla schiavitù dei vincoli europei e dall’eurozona, possono liberare risorse economiche da poter investire in senso sociale e ambientale. Non si tratta di tornare alla lira, proposta velleitaria, populista, nazionalista e reazionaria, ma di immaginare una nuova area monetaria e commerciale, svincolata dalla morsa dei cambi fissi, tra i paesi della periferia produttiva europea con i paesi del Mediterraneo sud basata su ragioni di scambi equi e reciprocamente vantaggiosi.
Questo a partire dalla nazionalizzazione dell’Ilva, perché continuare con la politica della privatizzazione degli utili e della socializzazione dei costi è criminale!
Una proprietà, quella della famiglia Riva e dei suoi vertici aziendali che oramai si divide tra latitanti, indagati e arroganti che si sentono forti e con le spalle al sicuro grazie ai suoi Ministri di famiglia Clini e Passera, e che deve essere “dismessa”.
Di fronte al loro fallimento di fatto e nella considerazione della sua importanza strategica, l’Ilva va nazionalizzata! Crediamo non ci sia altra soluzione, lo stesso Hollande, in Francia, ritiene possibile la nazionalizzazione delle acciaierie ArcelorMittal
Se la collettività si assume l’onere dei costi di risanamento tecnologico in termini di riduzione dell’impatto ambientale, di ripristino ambientale del territorio devastato da anni di volute politiche aziendali, di assunzione dei costi socio-sanitari derivanti dall’inquinamento, è necessario che pretenda anche gli onori di esserne proprietaria. Una proprietà pubblica strategica e non temporanea, e quindi non strumentale al suo risanamento per poi essere nuovamente “regalata” ai Riva o a chi sa chi altro, come ha recentemente proposto la Camusso sulla questione che loro definiscono “la rottura del dogma dello Stato fuori dal mercato”.
Solo dopo la nazionalizzazione potrà esserci l’impiego di denaro pubblico, che dovrà essere realmente orientato al ripristino ambientale, alla compatibilità ecologica della produzione, alla salvaguardia dell’occupazione, attraverso un controllo diretto da parte dei lavoratori e dei cittadini su tali processi.
– Nazionalizzare l’Ilva senza nessun indennizzo
– Attribuzione delle responsabilità civili e penali alla famiglia Riva per i danni ambientali, alla salute pubblica e per le morti sul lavoro e tra la popolazione
– Bonifica della fabbrica, del territorio tarantino e garanzia dell’occupazione
– No alla militarizzazione dell’impianto industriale
– Solidarietà con la popolazione tarantina e gli operai dell’Ilva colpiti questa mattina dall’uragano
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