*Lunedì, 17 Giugno 2013. Fonte: www.ilbecco.it
Ho osservato in un precedente articolo come la Turchia sia culturalmente scissa tra due anime, quella islamica e quella laica, e lo sia in modo profondo e, allo stato delle cose, difficilmente conciliabile.
Appare oggi solo mediabile, seguendo le oscillazioni del rapporto di forze tra le rappresentanze fondamentali delle sue anime: quella, oggi, del partito islamico AKP e quella, storica, autoritaria dei militari, del grosso della magistratura, a partire dalla Corte Costituzionale, e del grosso dei quadri della burocrazia statale, dei governatori locali, ecc. Sul versante laico non ci sono però solo militari, magistratura, ecc.: in posizione completamente smarcata, rappresentando una tendenza che vorrebbe il passaggio a un’effettiva democrazia parlamentare (oggi ce ne stanno solo il simulacro, la vernice, la chiacchiera pubblica, la propaganda verso l’Europa, come i fatti di piazza Taksim mettono in tutta evidenza), è anche quel tanto di società civile semisviluppata (esiste solo nelle città): i media (pavidi e opportunisti, certo: ma più liberi, paradossalmente, che in Italia), le (potenti) associazioni per i diritti umani, la confindustria locale, il tessuto scolastico pubblico, la Corte di Cassazione (un’autentica perla nel porcile giudiziario: è una sorta di tritacarne di condanne barbariche), il partito curdo legale BDP. In posizione intermedia dentro alla vasta area laica, infine, è il partito kemalista storico CHP, oggi dentro all’Internazionale Socialista, il secondo oggi elettoralmente del paese: dalle oscillazioni davvero impressionanti, fino a tempi recenti semifascista, violentemente sciovinista e anticurdo, ora aperto più di AKP alle richieste curde. In un rigurgito di dignità si è persino esposto, dopo essere stato per un po’ a guardare, sentendo odore di voti, alle richieste dei ragazzi di piazza Taksim.
Se si guarda, pur all’ingrosso, all’antropologia culturale dei poteri turchi, c’è però da aggiungere un’altra cosa, altrettanto importante: che essi tendono pressoché tutti a essere qualcosa che somiglia molto al fascismo. È un qualcosa, dunque, che prescinde dalle forme politico-istituzionali, perché in un certo senso viene prima, affonda nella storia turca e non è mai stato rettificato da niente dei sui accadimenti e delle sue crisi. Solo così si spiegano le reazioni brutali del premier Erdoğan dinanzi ai manifestanti di piazza Taksim; solo così si spiegano i suoi discorsi dementi su come la reazione di migliaia di ragazzi alla devastazione di piazza Taksim, a nome dei devastanti interessi imprenditoriali del cognato (davvero tutto il mondo è paese!), in una città ambientalmente e sanitariamente tra le più devastate al mondo come Istanbul, sia in realtà espressione di un complotto internazionale contro la Turchia; solo così si spiega la ferocia assassina della polizia turca. Quest’ultima è davvero la vetrina del rapporto sostanziale tra poteri turchi e popolo, o meglio popoli, della Turchia. Come quando, davanti al televisore, vediamo che la nazionale italiana va a rete, saltiamo in piedi urlando, così è automatico che la polizia turca spari lacrimogeni ad altezza d’uomo, manganelli tutti, scateni i cani lupo, se del caso, come è avvenuto fino a ieri nel sud-est curdo, apra il fuoco. È automatico che il magistrato di turno ordini l’arresto dei giornalisti che narrano la barbarie poliziesca. C’è anche una figura di reato, involontariamente autoironica, a disposizione: l’“offesa all’identità turca”. Ed è automatico che il premier dica idiozie fascistoidi e cerchi di mobilitare seguaci e, se ci riesce, opinione pubblica contro gli eterni onnipresenti nemici di quest’“identità”, o dell’integrità territoriale stessa della Turchia, o della sua ascesa economica e politica nel mondo. Fu automatico che, quando andavo in Turchia, il ridicolo ministro di giustizia di allora del governo AKP, tale Čiček (in turco čiček, a far ridere ancora di più, significa fiore), ogni giorno ruggisse minacce contro gli eversori curdi, i loro avvocati e i loro complici europei: in ossequio alle richieste della Corte di Strasburgo che in Turchia i processi politici fossero equi e il potere politico ne tenesse conto.
Detto altrimenti, la furia selvaggia della polizia turca è solo la fotografia di quello che in Turchia è sotto il tappeto: la violenza sistematica e feroce contro ogni cosa che infastidisca i suoi poteri autoritari. E, se è vero che il partito AKP non è assimilabile al potere militare, anzi è in conflitto ora strisciante ora palese con esso, poiché si pone come potere sostitutivo, né è ossessionato dall’obiettivo dell’omologazione linguistica della Turchia come mezzo di resistenza all’immaginario stato d’assedio in cui sarebbe tuttora questo paese, sulla scia degli eventi effettivi che smembrarono, tra fine Ottocento e primo Novecento, l’Impero Ottomano; se è vero tutto questo, è anche vero che tuttavia il partito AKP è un potere turco totalmente in tinta autoritaria con la storia mai interrotta dei vari poteri turchi.
Ricordo qui, per dare un po’ di sostanza visiva, a questo ragionamento, qualcosa delle mie esperienze di parlamentare europeo in Turchia, delegato dal Parlamento Europeo a tentare di far uscire di galera alcuni ex parlamentari curdi. Richiesi una riunione con gli ambasciatori dei paesi dell’Unione Europea ad Ankara per chiedere loro di agire di conseguenza sul governo turco (c’era da poco Erdoğan premier). Con mia sorpresa vennero tutti gli ambasciatori: e i racconti che fecero sui comportamenti della polizia turca facevano rabbrividire. Migliaia di persone scomparse nel sud-est curdo, attivisti politici, attivisti delle associazioni per i diritti umani, membri addirittura di minoranze religiose, come gli aleviti, pacifisti e democratici, fermati con un pretesto qualsiasi, rilasciati a tarda notte, prelevati dietro l’angolo del commissariato da agenti del commissariato, scomparsi. La gente fermata per violazioni del codice della strada sistematicamente picchiata. La gente arrestata per fatti politici o sindacali sistematicamente torturata negli interrogatori. La gente in carcere per motivi politici sistematicamente picchiata, torturata, messa in isolamento. Le donne fermate o arrestate sistematicamente violentate. Spesso anche i ragazzini. Gli ambasciatori di Svezia e d’Irlanda quasi piangevano parlando di queste cose. Naturalmente alle autorità europee, a parte le chiacchiere, non gli poteva importare di meno: con la Turchia gli affari economici europei prosperavano. La Turchia si era inoltre unta, per così dire, l’ufficio della Commissione Europea ad Ankara: i cui rapporti mensili a Bruxelles descrivevano la Turchia come qualcosa in marcia verso le condizioni del Lussemburgo. Unica eccezione, una ragazza italiana, che lavorava all’ufficio ad Ankara della “cellula Turchia” della Commissione Europea e che mi diede una mano importante: e che quindi sarà licenziata.
Sono peggio i servi della polizia turca o i generali o i ministri loro padroni? Sono peggio i generali e i ministri turchi o i sepolcri imbiancati che governano l’Europa?
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