Lo svolgimento, a Rimini, del congresso della Cgil non costituisce, dal punto di vista di improbabili colpi di scena, nessuno elemento di novità rilevante su cui soffermarsi particolarmente.
La struttura poltico/programmatica del documento congressuale della maggioranza camussiana, la gestione burocratica, autoritaria e truffaldina dei vari passaggi formali in vista dell’assise di Rimini, la stessa relazione introduttiva della Camusso ai lavori congressuali e – soprattutto – lo svolgimento concreto dell’azione di questa organizzazione sindacale nel vivo delle migliaia di vertenze in corso confermano l’approccio subalterno con le compatibilità capitalistiche e la complicità con alcuni tratti fondamentali dei desiderata del complesso dell’Azienda/Italia.
Insomma la Cgil – al di là di alcuni patetici distinguo rispetto alle brusche modalità con cui l’esecutivo di Renzi sta liquidando gli ultimi retaggi di una oramai impossibile concertazione – conferma, e non potrebbe essere diversamente considerato il suo storico dna teorico/politico, la sua integrazione con gli interessi e le sorti del capitalismo tricolore sempre più in difficoltà nel gorgo e nelle accelerazioni della competizione interimperialistica.
Non è questa la sede per una disamina storica sulle caratteristiche di fondo della Cgil ma in premessa, anche solo per commentare il congresso, occorre ribadire questo dato di fondo.
E’ sempre più evidente che le attuali posizioni del sindacato della Camusso sono l’approdo naturale e conseguente di una lunga deriva che dal secondo dopoguerra in poi ha pesantemente segnato questa organizzazione e la sua pratica sociale. In sintonia con l’evaporarsi della prospettiva rivoluzionaria della sinistra politica la Cgil si è – nel corso dei decenni – guardata bene dal rivolgersi alla classe lavoratrice in quanto classe che dovrebbe incarnare una propria prospettiva autonoma ed indipendente ma ha fermamente agito considerando la classe operaia, e l’insieme del proletariato, come classe nazionale che dovrebbe farsi carico, in una fantomatica logica di scambio tra uguali, delle sorti del proprio capitalismo,.
In questo quadro di lungo periodo la recente firma dell’Accordo del 10 gennaio scorso, ben oltre gli effetti che produrrà nel breve tempo, è paradigmatica del lungo processo di sussunzione della forma sindacato nelle moderne forme di governance della società e costituirà uno spartiacque serio tra chi si batte per la costruzione del sindacato di classe e chi intende legarsi, mani e piedi, alla propria frazione di capitale nazionale.
In un simile contesto la differenziazione politica che sta producendo Landini si rivela nella sua marcata inconseguenza e, allo stato attuale, non produce nessun avanzamento di una prospettiva di classe per i lavoratori.
Non basta più, come spesso Landini si incarica di fare, enunciare il proprio dissenso o denunciare alcuni aspetti particolarmente odiosi dell’offensiva padronale e governativa. Non basta più urlare alla democrazia calpestata o all’accentramento dei poteri decisionali da parte della segreteria confederale se poi – nel vivo delle conflitto – si abdica ad organizzare ed orientare il dissenso ed il mugugno presente tra i lavoratori anche al costo di infrangere la gabbia della “disciplina di organizzazione”. La prestigiosa storia del sindacalismo di classe del nostro paese ha bisogno di un fatto politico rilevante, di una rottura dei sindacati complici, a cominciare della CGIL, che lo porti fuori dalla “morta gora” attuale e che riavvii un processo indipendente dell’organizzazione del conflitto di classe all’altezza della sua storia.
Questa contraddizione, cha data almeno dall’Accordo di Pomigliano del giugno 2010, si è consumata nelle pieghe di una sterile battaglia interna alla Cgil e non è stata in grado di produrre una decisa ed efficace inversione di rotta del corso collaborazionista di questo sindacato.
Anzi dalla vicenda di Pomigliano in poi, passando per tante altre vertenze e snodi politici in cui la Fiom ha urlato il suo dissenso, si è conseguito un arretramento politico che ha disorientato e disperso molte energie militanti di tanti delegati e lavoratori che avevano dato credito ai proclami di Landini ed alle sue mirabolanti dichiarazioni di opposizione ad oltranza.
L’attuale congresso della Cgil segna, inequivocabilmente, un tempo scaduto per quanti – anche su posizioni di sincera opposizione – intendono battersi per la riconquista di questa organizzazione ad un programma ed una prospettiva di classe.
Un problema che investe anche i compagni e gli attivisti della Rete 28 Aprile ai quali, almeno, va dato atto di aver scritto cose condivisibili nel loro documento per il congresso e di aver mantenuto, anche nei mesi e negli anni scorsi, un possibile rapporto di confronto e di unità con il sindacalismo indipendente e conflittuale.
Sia chiaro nel ribadire questo concetto non nascondiamo, assolutamente, le complicazioni che afferiscono al processo di ricostruzione di una moderna organizzazione sindacale di classe.
Pesanti sono le devastazioni prodotte dagli effetti della gigantesca ristrutturazione capitalistica la quale ha devastato ciò che residuava dell’unità politica e materiale del “nuovo” e del “vecchio” proletariato. Un lungo ciclo controrivoluzionario che ha scompaginato la composizione di classe ed ha espunto dalla generalità della coscienza politica dei lavoratori ogni anelito al cambiamento dello stato di cose presenti.
Non è un caso che anche nel corso di lotte e vertenze di tipo esemplare, dal punto di vista della loro centralità nei processi di accumulazione, e radicali, nelle forme di lotta, il dato prevalente riscontrabile resta, senza ombra di dubbio, quello di un sentire tradeunionistico il quale non travalica l’ambito categoriale e settoriale.
Da questa situazione oggettiva occorre ripartire, con un lavoro di lunga lena, ricostruendo identità, andate smarrite, nuove forme organizzate nei posti di lavoro, nei territori e contenuti programmatici adeguati al corso della crisi capitalistica ed al contesto politico in cui siamo immersi (l’Unione Europea e i suoi dispositivi politici, economici e sociali) ribaltando la vulgata renziana dei giovani contro i vecchi, dei “garantiti” contro i non garantiti. Il rilancio del sindacalismo di classe all’altezza delle sfide attuali deve ripartire anche da nuove modulazioni organizzative che sappiano ricomporre le contraddizioni prodotte strutturalmente e politicamente dall’avversario di classe; sindacalismo conflittuale ed indipendente e confederalità sociale sono le due facce della medaglia dello scontro di classe con le quali misurarsi per ridare alla nostra storia sindacale la dignità che gli spetta.
La Rete dei Comunisti, da sempre, ha dato il suo sostegno politico allo sviluppo del sindacalismo di base particolarmente negli anni del pesante ed autoritario monopolio di Cgil,Cisl e Uil.
Oggi, mentre lo sviluppo delle contraddizioni offre, almeno potenzialmente, nuove opportunità per il definirsi di un riqualificato processo di sindacato di classe (confederale, metropolitano, meticcio ed internazionalista) il compito della soggettività comunista organizzata si carica di nuove responsabilità politiche con la consapevolezza che il rafforzamento di una azione sindacale è condizione imprescindibile per mantenere aperta, nella società, una prospettiva di alternativa e di rivoluzione.
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