Non c’erano posti e momenti sbagliati per Simone Camilli e per il collega palestinese di cui non è stata ancora diffusa l’identità. Chi va sui fronti di guerra, in zone di conflitto, nelle aree difficili del mondo per narrare cosa accade, raccogliere testimonianze, strutturare reportage con immagini, video, parole – non solo quelle dei propri commenti ma dando voce a chi vive e muore in quei luoghi – sa ciò che rischia.
Risponde alla passionaccia d’un mestiere bello e infausto e non lo fa per sentirsi un eroe, seppure ci può essere stato e c’è chi insegue la gloria che trasforma qualche reporter in star del sistema mediatico. La gran parte fa questo per servire la collettività. Poi si può essere fortunati o vedersi tranciato il filo di un’esistenza ancora giovane dalla crudele Atropo. I due giornalisti e altri cinque palestinesi, fra cui alcuni artificieri, hanno finito di vivere così, provando a documentare e a disinnescare. La loro Parca è stata un siluro di F16 fino a quel momento inesploso. Una delle migliaia di mine vaganti fra le macerie della Striscia di Gaza. Era stata trasportata dalle rovine delle case di Beit Lahiya, distretto tuttora densamente popolato, in una spianata dove il gruppo d’ingegneri e di esperti d’esplosivi mirava a renderla inoffensiva.
Purtroppo l’operazione non è riuscita. E’ diventata tragica per gli esecutori e per chi era con loro a documentare un’attività necessaria per non aumentare le vittime nella straziata Striscia. Chi conosceva Camilli, figlio d’un ex giornalista Rai, ne ricorda la meticolosa attenzione con cui s’impegnava nei territori che l’avevano già visto al lavoro, compresa appunto la terra palestinese posta sotto assedio dall’esercito d’Israele. Camilli prestava opera per varie agenzie fra cui Associated Press, una delle strutture più sviluppate e solide presenti nei luoghi caldi della politica internazionale, dalla quale probabilmente riusciva a ricevere compensi per i propri filmati. Perché uno dei risvolti d’un mestiere in quelle condizioni rischiosissimo per tutti – contrattuati e free lance – è rappresentato dallo status economico: garantito ad alcuni, promesso ad altri. Solo la collaborazione coi pochi gruppi editoriali robusti rimasti in piedi rende retribuita una professione trasformata dalla crisi e da editori senza scrupoli in passione tout court. Ovviamente neppure il più copioso salario salva qualsiasi giornalista, famoso o ai primi passi, da certi rischi.
E la lista dei “caduti sul campo” s’allunga, perché la divulgazione è diventata massiccia e con essa anche la volontà d’offrire un contributo alla sempre inseguita verità. Se per alcuni aspetti ciascun fronte ha la propria verità, sbandierata da una fitta schiera di propagandisti che facciamo difficoltà (e non per supponenza) a definire giornalisti, i contorni reali e vivi del mestiere mostrano tanti colleghi coraggiosi, che scavano, scovano e rischiano. Non i replicanti di uffici stampa ufficiali, non i cronisti per tesi, né gli schierati del mainstream, ma i battitori liberi, i cercatori in proprio, gli scrivani scalzi che raccontano il mondo come hanno imparato dai migliori narratori delle vicende del mondo. Osservandolo dal suo punto di vista naturale: quello di chi lo vive. E’ a costoro che l’informazione dev’essere grata.
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