Le provocazioni sono il sale dell’intelligenza. Anche se non si è d’accordo (l’idea che si possa “prendere il Pd”, immaginandolo come una stanza vuota, anziché un dispositivo di potere molto ben protetto, è un tantinello fantasiosa), costringono a pensare, affrontando un altro punto di osservazione della stessa realtà. Per non dimenticare che un “punto di vista”, preso seriamente, non è un narcisistico “dire la mia”, ma un riferire onestamente “da qui vedo questo”; e l’immagine di come è ridotta la sinistra – sia “radicale” che “antagonista” – non è delle più entusiasmanti.
Naturalmente, la si può e deve vedere anche da altri punti di osservazione. Ma seriamente.
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Che è successo dal 2011 a oggi, in questi tre anni di processo a Berlusconi in cui ci siamo fatti distrarre dai commenti più moralistici e oziosi, in cui mi sono ritrovato più d’una compagna scrivere su Facebook: “Almeno Monti è una persona perbene”? Un bilancio forse è necessario che i più persuasi tra noi lo facciano, e non sulla natura balorda dell’ex leader di Forza Italia – in realtà grande genio situazionista, degno di Bifo, che ha fatto benissimo il mestiere – quanto sulle conseguenze del vuoto di potere da lui lasciato, almeno all’apparenza.
Il gruppo di Renzi ha tanti aspetti discutibili, ma una cosa noi compagni non possiamo negarla: che ha costituito davvero un drastico ricambio per una classe dirigente che perdurava da 20 anni, mandando in pensione volti francamente insostenibili. Il problema è il crollo della Seconda Repubblica ha favorito tutti tranne la sinistra: l’opposizione interna al Pd è ridicola, la crisi e la disperazione ha reso gli under 35 italiani, in cerca di un ruolo sociale sempre più intolleranti e permalosi, più incapaci di sopportare qualunque dissenso che li porti fuori dalla loro “comfort zone”, è una cosa che avverti sulla pelle e nelle conversazioni tra “futura classe dirigente”. Intanto la destra liberista langue in Parlamento e alle urne, ma la stampa è quasi tutta schierata per un mercato senza freni, per il positivismo tecnologico, la fiducia nel Capitale e nelle imprese.
Giornali come Il Manifesto, l’Unità, Liberazione sono morti o moribondi. I media radical languono o restano di nicchia mentre sopravvivono beffardi i neocon di scuola ‘Foglio’. Come ha scritto quel furbacchione di Claudio Cerasa, Repubblica non può criticare il Jobs Act anche se dovrebbe, perché non ci sono alternative a Renzi, e il Corriere (che presto passerà nelle mani di un chierichetto renziano come Calabresi) non può elogiarlo anche se dovrebbe, perché non gliela vuole dar vinta al Pd.
Certo all’interno del Partito Democratico molti nomi volenterosi e onesti diranno che la mia è una questione solo di purezza e di nessuna sostanza, e che in realtà conta solo ciò che avviene in Parlamento, e che la questione dell’identità lascia il tempo che trova. È difficile dar torto a chi è saltato sul carro renziano al momento di metter su famiglia, di comprare la prima casa col primo flebile contratto, e sperando in una collaborazione, un incarico, un progetto che lo sollevi dal precariato e dalla marginalità. Il partito dell’Accettazione – i cui confini vanno ben oltre il Pd – è irresistibile non solo perché il nemico è fortissimo e le maggioranze scelgono di stare dalla parte di chi più le illude e le lascia campare tranquille, ma anche perché l’opposizione militante è risultata spesso poco preparata, incapace di organizzarsi, troppo asserragliata nella sua vocazione minoritaria anziché cercare di “fare rete”.
Verrebbe quasi da proporre, per provocazione o forse nemmeno troppo, ai più persuasi tra i militanti una strategia su due livelli – o multi-platform, come direbbero gli anglofili. Un’operazione opposta ma speculare a quella compiuta dai trenta-quarantenni renziani: occupare le stanze del Pd che saranno lasciate vuote dal troppo potere e dalla caduta della vecchia nomenclatura, ma farlo “da sinistra”, senza rompere il cordone ombelicale con i movimenti e la contestazione. Portare dentro un partito ormai irriconoscibile – o forse fin troppo riconoscibile, appiattito sul liberismo di tipo blairiano o clintoniano – principi apparentemente inconciliabili, ma che a mio avviso possono e devono convivere: opposizione allo Stato delle carceri e battaglia per uno Stato del welfare, diffidenza per i guru aziendali e ricerca di robot che lavorino per noi; critica ad ogni nazionalismo e la fiducia in una nuova Europa federata, l’opposizione alla sorveglianza ossessiva e la fiducia nello stato di diritto; la lotta e il governo, l’autostima di gruppo e l’individualismo.
Quanti intellettuali sarebbero disposti a valutare una strada simile? Del resto, detto in tutta franchezza, se ci sono riusciti gli attuali membri di governo che propriamente giganti del pensiero non sono, è giusto che molte menti brillanti e attive si condannino all’irrilevanza, lasciando lo spazio soltanto ai retori e ai buonisti professionali? Parafrasando Colin Ward, è vero che una società anarchica difficilmente riuscirebbe a costruire un Concorde o a mandare un uomo su Marte, ma c’è ancora bisogno di fisiologi della società che studiando, indagando, connettendo, facciano in modo che le conquiste della tecnologia siano efficienti in termini di risorse ad esse dedicate e soprattutto rappresentino un beneficio complessivo per la comunità che le ha prodotte.
In questi tre anni molto è cambiato, ma quelli che chiedevano moralità nel caso Ruby, i “non vedenti” che confondevano il dito con la Luna, i repressori del desiderio e i difensori dell’Esistente sono, in realtà, quelli usciti meglio dall’attuale mutamento antropologico. Dopo tre anni l’Italia è un Paese dove il centrosinistra si sta trasformando in una nuova Dc – costretto a vincere per mancanza di avversari – e l’opposizione è fagocitata non da un nuovo Pci ma da una Lega sempre più estrema. Un Paese dove i giovani non sono mai stati così informati e antirazzisti e open minded, ma dove c’è meno spazio per l’avventura e l’utopia rispetto a 20 anni fa.
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