Un responso chiaro, inequivocabile, forse inatteso. I Conservatori di David Cameron ricevono un mandato forte dall’elettorato britannico, assicurandosi la maggioranza assoluta e la possibilità di procedere alla formazione di un governo monocolore dopo la “scomoda” co-abitazione coi Liberal-Democratici degli ultimi cinque anni. Tories da soli al comando, dunque; non accadeva dal 1992, dal successo di John Major.
L’esito della consultazione consegna uno scenario denso di implicazioni, molte delle quali sottovalutate o poco considerate dagli organi d’informazione di casa nostra, che, nella consueta corsa alla faziosa semplificazione, poco hanno colto la vera essenza del voto britannico: un regolamento di conti interno al capitalismo, in cui i mass-media di regime (orchestrati e controllati dai grandi monopoli privati) hanno giocato un ruolo decisivo.
Una premessa: il Sistema elettorale britannico
Le elezioni per la Camera dei Comuni (come, del resto, quelle dei consigli comunali) sono regolate, in Gran Bretagna, dal sistema elettorale first-past-the-post: nient’altro che un uninominale di collegio secco. L’intero territorio del Regno Unito è suddiviso in 630 constituencies; ciascuna di esse invia a Westminster un unico rappresentante, il più votato. Le implicazioni di questo meccanismo sono molteplici: su base storica, infatti, è possibile identificare collegi sicuri (in cui esiste una consolidata tradizione politica, ed è improbabile produrre uno swing, ovvero un cambio di colore). Dunque, la campagna elettorale si concentra (sia in termini di risorse investite dai partiti; sia in termini di coinvolgimento di una residuale militanza), di fatto, nelle circoscrizioni in cui il risultato appare più incerto. Ne discende un peculiare ruolo dei partiti, non più corpi intermedi di rappresentanza sociale, ma comitati elettorali locali (legati al parlamentare di turno).
Un sistema simile (di cui abbiamo avuto limitata prova in Italia, all’epoca del Mattarellum, al netto della correzione proporzionale) favorisce la corsa al centro e l’auto-conservazione del ceto politico, taglia le “ali estreme”, favorisce i partiti regionali e a forte concentrazione geografica, a discapito di quelli medio-piccoli con una presenza uniforme sul territorio nazionale. Soprattutto, rende complicatissima, l’ipotesi di una rappresentanza politica autonoma delle classi subalterne.
Le forze in campo
In questo contesto, alle elezioni del 7 Maggio hanno preso parte le seguenti 7 compagini politiche maggiori:
Il Partito Conservatore (Conservative Party, i cui membri sono comunemente indicati come Tories), guidato dal primo ministro uscente David Cameron, braccio politico delle oligarchie finanziarie e dei grandi monopoli; ideologicamente ultra-liberista e thatcheriano.
I Liberal-Democratici (Liberal-Democrats), partner di coalizione dei Tories nel governo in carica, guidati dal vice-premier uscente Nick Clegg; partito che si auto-definisce di centro-radicale, euro-entusiasta e liberista.
Il Partito Nazionale Scozzese (Scottish National Party, SNP), compagine indipendentista scozzese, artefice, nello scorso autunno, della campagna referendaria per la secessione della Scozia dal Regno Unito. La nuova leadership di Nicola Sturgeon (attuale primo ministro scozzese) ha confermato il sensibile spostamento delle posizioni del SNP, caratterizzato oggi come partito inserito nell’alveo della socialdemocrazia classica, le cui posizioni nazionaliste accentuano, oggi, un forte carattere anti-conservatore, contrario alle misure di austerità implementate dal governo Cameron. Coerentemente alla propria definizione, lo SNP ha partecipato alle elezioni presentando candidati esclusivamente in Scozia.
Il Partito del Galles (Plaid Cymru), partito indipendentista gallese, dalle posizioni socialdemocratiche, espressione di un nazionalismo di sinistra e progressista. Ne è leader Leanne Wood, auto-definitasi socialista e repubblicana. Coerentemente alla propria definizione, il Plaid ha partecipato alle elezioni presentando candidati esclusivamente in Galles.
Ulteriori partiti minori hanno partecipato al voto. Da notare la semi-estinzione dei fascisti del British National Party (il cui seguito è stato fagocitato dalla versione in doppio-petto UKIP, più presentabile e funzionale alle esigenze dell’establishment), presenti appena in otto constituencies.
Sul versante della sinistra di classe, degna di nota la presenza della Coalizione Sindacale Socialista (Trade Unionist and Socialist Coalition), cartello elettorale di partiti socialisti e trotzkisti, forte dell’appoggio di alcune trade unions come la combattiva RMT (sindacato dei ferrovieri, affiliata alla Federazione Sindacale Mondiale), presente in ben 135 circoscrizioni. In declino la presenza di RESPECT (coalizione di sinistra radicale, poi evoluta in partito, in passato anche affiliata al Partito della Sinistra Europea), presente in appena quattro circoscrizioni (tra cui Bradford West, con il parlamentare uscente George Galloway).
Discorso a parte per quanto concerne il variegato arcipelago comunista tout-court britannico. La principale delle piccole organizzazioni operanti nel Regno Unito, il Communist Party of Britain (con all’attivo circa 1000 iscritti, e, a tutt’oggi, un minimo di influenza nel mondo sindacale; allineato, nel campo del movimento comunista europeo, alle posizioni del Partito Comunista Portoghese) ha promosso, come tradizione, un appoggio attivo (e alquanto incondizionato) ai candidati del Labour Party, prendendo parte alla competizione, in maniera simbolica, in solo 9 collegi (tradizionale appannaggio dei Laburisti; quasi in modo da non disturbare il manovratore). Simili le posizioni del New Communist Party (parte della mini-internazionale promossa dal KKE, ma dalla scarsa presenza di massa). Il Revolutionary Communist Party of Britain (Marxist-Leninist) ha invece promulgato un appello al generic voto contro la coalizione governativa e per candidati anti-austerità. Posizioni astensioniste sono state espresse da altre organizzazioni minori (Communist Party of Great Britain Marxist-Leninist; Revolutionary Communist Group).
Il Contesto
Al termine di cinque anni di governo di coalizione, la Gran Bretagna ha sperimentato un ulteriore inasprimento delle ataviche disuguaglianze sociali che da sempre caratterizzano la Terra d’Albione. Ad oggi, infatti, le mille famiglie più abbienti del paese controllano una ricchezza totale di 547 miliardi di sterline. Un incremento del 112% rispetto ai livelli pre-recessione del 2008; tale ricchezza cumulata supera quella totalizzata dal 40% più povero della popolazione Britannica [1]. Un risultato, quest’ultimo, coerente con la natura anti-popolare del Partito Conservatore, autentico baluardo dei privilegi dell’aristocrazia e della borghesia britanniche. I Tories, nel quinquennio 2010-2015, hanno implementato un programma di feroce austerità, i cui risvolti sulle sezioni più deboli e vulnerabili delle classi popolari e del sottoproletariato britannico sono stati drammatici. Un programma fatto di tagli selvaggi alla spesa sociale per i programmi di welfare (che includono, ad esempio, indennità di disoccupazione, sostegno ai redditi bassi, accesso all’edilizia popolare), ai servizi pubblici essenziali offerti dagli enti locali e di progressiva privatizzazione del servizio sanitario nazionale (NHS) e dell’istruzione (si veda, in materia, l’ampia letteratura prodotta in questi anni, ad esempio [2] e [3]). A queste misure anti-popolari, ha fatto da contraltare una precisa e coerente operazione redistributiva verso l’alto, fatta di elargizioni e facilitazioni fiscali ai grandi monopoli privati e al settore finanziario, disimpegno del settore pubblico e crescenti privatizzazioni, accompagnata da contentini (quali l’abbassamento delle tasse sulle compravendite immobiliari e sgravi tributari) per la middle class.
La crescita tanto sbandierata dal governo Cameron (+2.4% nel primo trimestre del 2015 rispetto allo stesso trimestre dell’anno precedente, confrontata con il minimo record del -5.80% riportato nel primo trimestre del 2009 – vedi Figura 1) è dunque una crescita finanziata con il sangue ed il sudore della classe lavoratrice britannica; una crescita di bassi salari. Dal 2008 al 2014, i lavoratori britannici hanno subito sei anni consecutivi di caduta delle retribuzioni reali; i salari, rapportati al costo della vita, sono dunque tornati ai livelli osservati alla fine del secolo scorso, secondo i dati ufficiali forniti dall’Ufficio Nazionale di Statistica [4]. Nonostante la legislazione sindacale restrittiva (che, nell’ordine: vieta lo sciopero politico, e, di fatto, quello generale; richiede lo svolgimento di un referendum per l’indizione di una astensione dal lavoro; prevede che solo gli iscritti ad un sindacato possano scioperare), e la natura concertativa della maggioranza dei sindacati britannici, nell’ultimo quinquennio sono stati molteplici gli scioperi nel pubblico impiego (in cui il tasso di sindacalizzazione è ancora elevato): insegnanti, docenti universitari, pompieri, impiegati comunali hanno ripetutamente incrociato le braccia (prevalentemente per questioni relative ai rinnovi contrattuali ed ai sistemi pensionistici di categoria).
In questo contesto, il 20% della forza lavoro risulta percepire salari inferiori alla soglia di povertà, con punte del 50% nelle ex aree industriali e minerarie del Nord dell’Inghilterra e del Galles [5].
Figura 1: Tassi di crescita economica nel Regno Unito
(fonte: www.tradingeconomics.com – Dati Office for National Statistics)
Anche gli altri successi parte della narrazione del governo conservatore-liberale nascondono verità poco piacevoli. Le statistiche sulla disoccupazione, ad esempio, narrano di un lusinghiero (soprattutto se confrontato all’11.4% dell’Eurozona) 5.7%. Tuttavia, il dato è drogato dall’indiscriminato utilizzo degli Zero Hours Contract (letteralmente, Contratti a Zero Ore): una forma di impiego a chiamata, per la quale il padrone non è tenuto ad assicurare alcun livello occupazionale minimo al lavoratore, né diritti elementari quali ferie e malattia pagate; a quest’ultimo, al contrario, è richiesta disponibilità assoluta in risposta ad improvvisi cambi di turnazione. Le ultime statistiche (giudicate, da molti sindacati, al ribasso) parlano di 697000 lavoratori (pari al 2.7% della popolazione attiva) impiegati tramite questo strumento giuridico ([6], [7]).
In tale quadro generale, non sorprendono i dati drammatici sulla povertà diffusa. Negli anni 2013 e 2014, oltre 20 milioni di pasti sono stati distribuiti (si stima ad un milione di persone bisognose) dalle Banche del Cibo [8]; oltre due milione di famiglie (corrispondenti a circa il 15% del totale) risultano avere difficoltà nel pagamento della bolletta energetica nei mesi invernali, con oltre 30,000 morti annuali causate dall’impossibilità ad affrontare adeguatamente le temperature rigide [9].
La Campagna Elettorale e il Ruolo dei Media
La lunga campagna elettorale ha raggiunto il proprio apice nei mesi di Marzo e Aprile, quando i programmi elettorali (nel gergo britannico, manifesto) dei partiti maggiori sono stati resi pubblici.
Stabilmente in testa nei sondaggi per tutto il 2014, e dato per favorito a causa del diffuso clima di malcontento per le misure di austerità adottate dal governo liberal-conservatore, il Partito Laburista si è caratterizzato per una campagna elettorale giocata, paradossalmente, tutta in difesa. Dallo sbiadito Ed Miliband, nessuna proposta di riforma radicale. Argomenti quali la rinazionalizzazione di ferrovie e compagnie energetiche, la lotta all’evasione fiscale sistematica praticata dai grandi monopoli commerciali e finanziari, la limitazione del potere delle grandi corporations, una ripresa dell’investimento pubblico nell’istruzione e nei servizi pubblici essenziali, che pure incontrano il favore della vasta maggioranza della popolazione britannica [10] e sono ritenuti autentici vote-winner, sono rimasti tabù. Il Labour ha anzi accettato il mantra neo-liberista dominante della necessità di procedere ad ulteriori tagli alla spesa pubblica.
D’altronde, le timidissime proposte elettorali del Labour (quali il blocco di aumenti alle bollette energetiche sino al 2017; l’abolizione di qualche odioso privilegio fiscale per i cittadini britannici in grado di procurarsi una residenza di comodo all’estero; ripresa delle assunzioni nel Servizio Sanitario Nazionale per turare le falle derivanti dai recenti tagli; un progressivo aumento del salario minimo) hanno scatenato l’uso del potente manganello mediatico dei tabloid.
È questa la vera chiave della politica nel Regno Unito: un mondo dell’informazione (anch’esso controllato da grandi monopoli; su tutti, il gruppo Murdoch) completamente al servizio del grande capitale, capace di orientare l’opinione pubblica (e vasti strati di working-class e sottoproletariato urbano) tramite testate dall’impostazione di destra populista quali The Sun, Daily Mail, Daily Star, Daily Express (i cosiddetti tabloid) fedelmente schierate a favore del Partito Conservatore. Durante i mesi cruciali della campagna elettorale, i tabloid hanno a più riprese descritto Miliband (soprannominato come Red Ed) come un pericoloso sinistrorso telecomandato dai leader sindacali, pronto a mettere le mani nelle tasche dei britannici tramite un aumento della tassazione, e a riportare il Regno Unito indietro agli anni’70. Una narrazione quanto mai lontana dalla realtà (vista l’ormai ridottissima influenza delle Trade Unions nelle dinamiche interne al Labour), ma orchestrate in maniera efficace, tale da esercitare egemonia su di una parte consistente della middle class inglese.
Allo spettro del pericolo rosso agitato dai media, si è, inoltre, aggiunto quello dell’attentato all’unità nazionale. La vera, inattesa, stella della campagna elettorale è stata, infatti, Nicola Sturgeon, primo ministro scozzese e leader dello Scottish National Party. Dopo aver sfiorato il successo nel referendum per l’indipendenza tenutosi a Settembre (racimolando un clamoroso 45%), lo SNP ha giocato una campagna elettorale d’attacco, raffigurandosi come partito socialdemocratico, progressista ed anti-austerità (marcando anche una certa discontinuità con la propria tradizione e con le proprie esperienze di governo locale). I sondaggi hanno segnalato, con grande anticipo, la possibilità di una valanga nazionalista al di là del Vallo di Adriano; valanga dalla quale sarebbe stato travolto, irrimediabilmente (a causa del sistema elettorale), il Partito Laburista, che proprio in Scozia conservava una delle proprie storiche roccaforti.
Il sicuro successo dello SNP ha escluso, sin dalle prime schermaglie, la possibilità di una maggioranza assoluta Laburista. La Sturgeon, prontissima ad escludere ogni collaborazione coi Conservatori, ha più volte lanciato la proposta di una coalizione progressista anti-austerity a guida Laburista e con l’inclusione dei nazionalisti di sinistra gallesi del Plaid Cymru e dei Verdi. Un’offerta prontamente rispedita al mittente da parte del timoroso Miliband, preoccupato di non indispettire ulteriormente i tabloid (già pronti ad etichettarlo come pronto ad allearsi con chi avrebbe voluto mettere fine al Regno Unito come entità statale) e consapevole di non poter promettere marcate differenze in termini di politica economica.
Al centro dello schieramento politico, come nel 2010, la proposta politica dei liberal-democratici. Reduci dal migliore risultato (in termini di seggi ottenuti) della storia nel 2010, i Lib-Dem, dopo l’ingresso a sorpresa, da azionisti di minoranza, nel governo a guida conservatrice, hanno pero’ affrontato cinque anni complicati, in cui hanno dovuto far digerire al proprio elettorato (in maggioranza giovane e genericamente “progressista”) molteplici bocconi amari (su tutti, l’aumento delle tasse universitarie e i tagli alla spesa pubblica per l’istruzione). Il leader, Nick Clegg, ha impostato la campagna elettorale conscio di dover limitare i danni legati alla profonda disaffezione del proprio elettorato. “Forniremo un cuore ad un ipotetico governo conservatore, ed un cervello ad uno a guida laburista”; questa la frase chiave della campagna elettorale di Clegg, votata, essenzialmente, ad un unico scopo: conservare, a fronte di consistenti perdite di seggi, una posizione di governo, a qualunque costo, con qualunque partner.
In questo contesto, il premier uscente Cameron, assertore di uno stato minimo e della eliminazione definitiva di ogni residuo di welfare state (attraverso ulteriori dodici miliardi di sterline di tagli alla spesa programmati), ha avuto gioco facile nel presentarsi come miglior garante degli interessi del capitalismo monopolistico e delle oligarchie finanziarie. Blindato il voto middle-class grazie alle citate astute mosse pre-elettorali, e a qualche ulteriore promessa a buon mercato intesa ad intercettare anche i consensi in uscita dai Lib-Dem (riduzione dei costi per gli asili nido; aumento delle misere pensioni di stato), il primo ministro è riuscito a rassicurare l’ala euroscettica del proprio partito e a frenare una potenziale emorragia di consensi verso UKIP annunciando un referendum circa l’adesione della Gran Bretagna all’Unione Europea. L’impatto del partito di Farage sull’avvicinamento al voto è stato minimo (nonostante la grancassa mediatica) a causa del menzionato sistema elettorale, per il quale le più ottimistiche previsioni prevedevano la possibilità di competere per il successo in al più tre seggi.
Negli ultimi quindici giorni di campagna elettorale, i sondaggi rivelavaano un clima di sostanziale incertezza: recupero dei Conservatori, crollo dei Lib-Dem, Labour in affanno, valanga SNP in Scozia. Il responso più probabile, tuttavia, sembrava quello di un hung parliament, ovvero di una Camera dei Comuni priva di un partito in grado di raggiungere una maggioranza assoluta.
I Risultati Elettorali
La sera del 7 Maggio, sin dai primi exit poll annunciate dalla BBC, il responso è stato sorprendente quanto inequivocabile. Le previsioni della vigilia sono smentite: i Conservatori stravincono, ottenendo, addirittura, la maggioranza assoluta (331 seggi). Il tracollo dei Liberal-Democratici (capaci di perdere 48 seggi) è dunque totalmente assorbito dal partito di Cameron. I Laburisti risultano travolti nella vecchia roccaforte scozzese (perdendo 40 seggi) dalla crescita dell’SNP (che si accaparra tutti i seggi, tranne tre), non riuscendo a compensare le perdite in Inghilterra: il Labour, infatti, riesce ad affermarsi solo nelle aree metropolitane e nelle sue zone di tradizionale radicamento (coincidenti con le vecchie aree industriali e minerarie delle Midlands e del Nord) (Figura 2).
In Scozia, nella debacle laburista finiscono travolte vittime eccellenti, tra cui il leader scozzese del Labour Party, l’ultra-imperialista, amico di Israele, Jim Murphy, e l’ex ministro Douglas Alexander.
Pesante sconfitta per UKIP: la destra euroscettica raccoglie il 12.6% dei consensi, ma, a causa dell’uninominale secco, si aggiudica un solo seggio. Lo stesso Farage non risulta eletto; a conti fatti, la sua formazione si caratterizza per conquistare voti in un elettorato working class, soprattutto nel nord post-industriale deluso dal Labour e privo di qualsivoglia alternativa a sinistra. Emblematico il caso del collegio di Morley and Outwood, nell’area metropolitana di Leeds, in cui la perdita di voti del Labour ai Danni di UKIP apre la strada al successo conservatore e alla non-rielezione di Ed Balls, ministro ombra dell’Economia, più volte pronto, in campagna elettorale, a fornire rassicurazioni sull’approccio amichevole che un eventuale governo laburista avrebbe tenuto nei confronti dei banchieri della City di Londra.
Crescono, in termini di consenso popolare, anche i Verdi (al 3.8%) che, tuttavia, non riescono ad andare oltre la conferma dell’unico seggio ottenuto nel 2010.
Male la sinistra radicale, presente a macchia di leopardo sul territorio nazionale: Respect non rielegge George Galloway; la Coalizione TUSC raccoglie appena 36,000 voti.
Tre leader di partito (Miliband, Clegg e Farage) presentano le proprie dimissioni all’indomani del risultato elettorale.
In Tabella 1, oltre ai risultati elettorali completi, è possibile apprezzare l’effetto distorsivo del sistema uninominale secco, confrontando, in termini percentuali, voti e seggi. I Conservatori, pur essendo minoranza nel paese (avendo ottenuto solo il 36.9% dei voti) ottengono il 50.9% dei seggi.
L’affluenza alle urne, attestata al 66.10%, è in linea con i valori tipici per il Regno Unito.
Figura 2: Risultati delle Elezioni del 7 Maggio 2015
(fonte: Wikipedia – Creative Commons License)
Partito |
Leader |
Candidati |
Voti Totali |
Seggi |
Seggi Guadagnati |
Seggi Persi |
Saldo |
Seggfi (%) |
Voti (%) |
Saldo (%) |
||||||||||||||||||||
|
Partito Conservatore |
David Cameron |
647 |
11,334,920 |
331 |
38 |
10 |
28 |
50.9 |
36.9 |
0.8 |
|||||||||||||||||||
|
Partito Laburista |
Ed Miliband |
631 |
9,344,328 |
232 |
22 |
46 |
−24 |
35.7 |
30.4 |
1.5 |
|||||||||||||||||||
|
UKIP |
Nigel Farage |
624 |
3,881,129 |
1 |
0 |
1 |
−1 |
0.2 |
12.6 |
9.5 |
|||||||||||||||||||
|
Liberal-Democratici |
Nick Clegg |
631 |
2,415,888 |
8 |
0 |
48 |
−48 |
1.2 |
7.9 |
−15.1 |
|||||||||||||||||||
|
Partito Nazionale Scozzese |
Nicola Sturgeon |
59 |
1,454,436 |
56 |
50 |
0 |
50 |
8.6 |
4.7 |
3.1 |
|||||||||||||||||||
|
Verdi |
Natalie Bennett |
575 |
1,157,613 |
1 |
0 |
0 |
0 |
0.2 |
3.8 |
2.8 |
|||||||||||||||||||
|
Partito Democratico Unionista dell’Ulster |
Peter Robinson |
16 |
184,260 |
8 |
1 |
1 |
0 |
1.2 |
0.6 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Partito del Galles (Plaid Cymru) |
Leanne Wood |
40 |
181,694 |
3 |
0 |
0 |
0 |
0.5 |
0.6 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Sinn Féin (Irlanda del Nord) |
Gerry Adams |
18 |
176,232 |
4 |
0 |
1 |
−1 |
0.6 |
0.6 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
UUP |
Mike Nesbitt |
15 |
114,935 |
2 |
2 |
0 |
2 |
0.3 |
0.4 |
N/A |
|||||||||||||||||||
|
Partito Social Democratico Laburista (Ulster) |
Alasdair McDonnell |
18 |
99,809 |
3 |
0 |
0 |
0 |
0.5 |
0.3 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Indipendenti |
N/D |
170 |
98,711 |
1 |
0 |
0 |
0 |
0.2 |
0.3 |
−0.2 |
|||||||||||||||||||
|
Alliance (Ulster) |
David Ford |
18 |
61,556 |
0 |
0 |
1 |
−1 |
0 |
0.2 |
0.1 |
|||||||||||||||||||
|
Trade Unionist and Socialist Coalition |
Dave Nellist |
128 |
36,327 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0.1 |
0.1 |
|||||||||||||||||||
|
Respect |
George Galloway |
4 |
9,989 |
0 |
0 |
1 |
−1 |
0 |
0 |
−0.1 |
|||||||||||||||||||
|
People Before Profit |
Collective |
1 |
7,854 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Socialist Labour |
Arthur Scargill |
8 |
3,481 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Workers’ Party |
John Lowry |
5 |
2,724 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
British National Party |
Adam Walker |
8 |
1,667 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
−1.9 |
|||||||||||||||||||
|
Communist |
Robert Griffiths |
9 |
1,229 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
New |
|||||||||||||||||||
|
Pirate |
Laurence Kaye |
6 |
1,130 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
National Front |
Kevin Bryan |
7 |
1,114 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Socialist (GB) |
Collective |
10 |
899 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
New |
|||||||||||||||||||
|
Scottish Socialist |
Executive Committee |
4 |
875 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Alliance for Green Socialism |
Mike Davies |
4 |
852 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Workers Revolutionary |
Sheila Torrance |
7 |
488 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
|||||||||||||||||||
|
Left Unity |
Kate Hudson |
3 |
455 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
New |
|||||||||||||||||||
|
Altri |
N/D |
240 |
117,085 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
0 |
– |
|||||||||||||||||||
Total |
3,921 |
30,691,680 |
650 |
– |
– |
– |
Affluenza |
66.10% |
– |
Tabella 1: Risultati delle Elezioni del 7 Maggio 2015
(fonti: Wikipedia, BBC – Elaborazione dell’autore)
Gli Scenari post-voto
Per quello che riguarda la classe operaia britannica, difficilmente queste elezioni avrebbero potuto segnare un miglioramento delle condizioni di vita. Come descritto in precedenza, nessuna delle principali parti politiche rappresentava gli interessi dei ceti popolari.
L’intera partita elettorale si è giocata all’interno di confini ben definiti: fornire un governo in grado di servire gli interessi del capitalismo britannico e della sua politica estera imperialista.
Il Labour, con il suo impegno a ridurre la spesa pubblica e il debito pubblico, ha messo in chiaro sin dal primo momento che non avrebbe potuto proporre altro, alle classi subalterne, che una sorta di austerità-light, appena mitigata rispetto a quella ispirata dall’odio di classe dei Tories verso i ceti popolari.
Le briciole, tuttavia, non sono bastate per mobilitare un elettorato sempre più stanco e deluso dal disinteresse della politica verso le grandi sacche di povertà e malessere della Gran Bretagna contemporanea: è questa la ragione principale della sconfitta del Labour, prima ancora degli attacchi mediatici e del condizionamento dei tabloid. Non è bastato, a Miliband, il supporto acritico fornito da molte Trade Unions (tra cui la principale organizzazione nel lavoro privato, UNITE, e la centrale del lavoro pubblico, UNISON), consce del ruolo distruttivo giocato dai governi di Tony Blair sul versante sindacale, ma ancora colpevolmente intruppate in un meccanismo, quello dell’affiliazione diretta al Labour, che impedisce, di fatto, la ripresa di una conflittualità operaia e la riproposizione di una rappresentanza sociale e politica autonoma della classe lavoratrice.
I monopoli capitalistici, le oligarchie finanziarie, i grandi media di regime, l’alta borghesia e l’aristocrazia hanno giocato la propria partita in maniera impeccabile, secondo le regole della lotta di classe. Una partita senza avversari, data la mancanza di risposta ed organizzazione nel campo della working class. Cinque anni di governo liberal-conservatore non hanno promosso alcun processo in questo senso; i Conservatori si sono anzi guadagnati una ulteriore stagione di governo, stavolta monocolore, nonostante la loro incapacità di risolvere la crisi economica della Gran Bretagna ed un feroce programma di austerità verso alle sezioni più deboli e vulnerabili società. I prossimi cinque anni saranno condotti secondo lo stesso copione: tagli selvaggi alla spesa sociale e ai servizi pubblici locali, abrogazione della legislazione sui diritti umani fondamentali, promozione di legislazioni antisindacali ancor più drastiche, attacchi massicci in materia di alloggi e condizioni di lavoro, ulteriori privatizzazioni nell’ambito del servizio sanitario nazionale.
La storia recente dell’Europa dimostra che non c’è una scorciatoia per sconfiggere l’austerità tramite le urne. L’austerità permanente è una condizione imposta dal capitalismo in una fase di aspra lotta di classe come quella che stiamo conoscendo. Una fase in cui i margini del riformismo sono esauriti.
La working class della Gran Bretagna ha bisogno di un serio movimento socialista; un movimento capace di farsi interprete dei bisogni dei ceti popolari e di riportare quest’ultimi, grazie ad un ritrovato protagonismo, sulla scena politica.
Un movimento che non puo’ essere costruito attraverso il Partito Laburista (la cui leadership potrebbe ora tornare, con ogni probabilità, alla corrente liberista dei blairisti), nè con esso.
Riferimenti Bibliografici
[1] The Guardian (2015). Recession rich: Britain’s wealthiest double net worth since crisis. Pubblicato il 26 Aprile 2015. consultabile online all’indirizzo: http://www.theguardian.com/business/2015/apr/26/recession-rich-britains-wealthiest-double-net-worth-since-crisis
[2] Jones, O. (2012). Chavs: The demonization of the working class. Verso Books.
[3] O’Hara, M. (2014). Austerity Bites: A Journey to the Sharp End of Cuts in the UK. Policy Press.
[4] The Guardian (2014). UK workers hit by sixth year of falling real pay. Pubblicato il 19 Novembre 2014. Consultabile online all’indirizzo: http://www.theguardian.com/business/datablog/2014/nov/19/uk-workers-suffer-sixth-year-of-falling-real-pay-in-2014
[5] Trades Union Council (2015). In parts of Britain half of jobs pay less than the living wage. Pubblicato il 23 Febbraio 2015. Disponibile online all’indirizzo: https://www.tuc.org.uk/economic-issues/labour-market-and-economic-reports/britain-needs-pay-rise/fair-pay-fortnight-2015
[6] Karl, A. G. (2015). The zero hour of the neoliberal novel. Textual Practice,29(2), 335-355.
[7] The Telegraph (2015). Zero-hours contracts ‘save UK from eurozone levels of unemployment’. Pubblicato il 25 Febbraio 2015. Consultabile online all’indirizzo: http://www.telegraph.co.uk/finance/jobs/11435789/Zero-hours-contracts-save-UK-from-eurozone-levels-of-unemployment.html.
[8] The Trussel Trust (2015). Below the Breadline. The Relentless Rise of Food Poverty in the UK. Disponibile online all’indirizzo: http://www.trusselltrust.org/resources/documents/foodbank/6323_Below_the_Breadline_web.pdf
[9] Koh, S.C.L., Marchand, R., Genovese, A., Brennan, A. (2012). Fuel Poverty: Perspectives from the Frontline. Rapporto del Centre for Energy, Environment and Sustainability of the University of Sheffield. Disponibile online all’indirizzo: http://www.shef.ac.uk/polopoly_fs/1.272226!/file/Fuel_Poverty-perspectives_from_the_front_line.pdf
[10] Yougov (2013). Nationalise energy and rail companies, say public. Disponibile online all’indirizzo: https://yougov.co.uk/news/2013/11/04/nationalise-energy-and-rail-companies-say-public/.
[11] The Mirror (2015). UKIP created a real Balls-up for Labour thanks to working class disillusionment across the North. Pubblicato il 14 Maggio. Disponibile online all’indirizzo: http://www.mirror.co.uk/news/uk-news/ukip-created-real-balls-up-labour-5699495
* da Londra
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