Tutti, ora, si rendono conto che l’Unione Europea non è affatto uno “spazio comune” in cui chiunque può giocare, ma una gabbia triste dove vige la regola dell’austerità. Ne siamo ovviamente felici, perché rendersi conto della realtà è sempre meglio di negarla (basta guardare i presunti “europeisti di sinistra”…).
Ospitiamo quindi molto volentieri questo contributo, elaborato all’interno di un’area politico-culturale diversa dalla nostra da cui sono venute spesso interpretazioni e indicazioni apertamente contraddittorie. Senza alcuna intenzione polemica postuma, ricordiamo il Toni Negri che invitava i cittadini francesi e olandesi a votare “sì” al referendum sulla cosiddetta Costituzione Europea, oppure gli esponenti di movimento in piazza per accompagnare Fassina e Civati della costituzione di un “nuovo soggetto politico”.
Questo è il momento di far convergere il massimo delle forze e delle intelligenze contro quello che si è delineato nettamente – per tutti, anche e soprattutto fuori dei ristretti orticelli di movimento – come il nemico comune delle figure sociali sfruttate, impoverite, emarginate di tutta Europa: l’Unione Europea, uno Stato reazionario e imperialista in costruzione, non il paradiso della mobilità interna.
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Proviamo a partire ancora una volta dalla realtà. All’interno del negoziato fino a qualche giorno fa in corso, i rapporti di forza tra la Grecia e la Troika (Commissione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale) sono nettamente sfavorevoli alla prima. Diciamolo ancora meglio: all’interno di quel campo di gioco, non c’è partita. Pensare che sia una semplice questione di intelligenza, di furbizia o di abilità diplomatica, significa non avere chiari o ignorare appositamente i termini reali della situazione: non è una trattativa, ma un rapimento. C’è chi ha in mano una pistola e chi ha una pistola puntata alla tempia. Chi prendeva tempo nel 1918 lo faceva per mettere fine alla guerra mondiale, per difendere una rivoluzione e costruire l’armata rossa. In queste condizioni, prendere tempo significa rimandare di qualche istante la fine di una vita sempre meno degna di questo nome. Il tempo, cioè, lo si può prendere solo se lo si conquista; se è in mano dei nostri nemici, non facciamo altro che continuare a perderlo. Qui infatti la guerra dell’austerity continua, la rivoluzione non c’è e dell’armata rossa neanche a parlarne.
Ostinarsi a prefigurare una possibilità per la Grecia di vincere la partita su questo terreno, come è stato fatto fino all’altro ieri, significa imputare a Syriza la responsabilità della sicura sconfitta: in questo gli europeisti di sinistra, pur partendo da intenti opposti, convergono con gli europeisti della Troika. Gli uni perché non considerano i rapporti di forza, gli altri perché li hanno fin troppo chiari. Noi invece pensiamo che, all’interno di questo rettangolo di gioco, non vi sia alcuna possibilità e dunque nessuna responsabilità della sconfitta da parte di Syriza. Ciò non significa che Syriza stia facendo bene o male: significa che ciò che fa è ininfluente rispetto al risultato della partita, perché la partita è truccata.
Dunque, non c’è niente da fare? Al contrario. Il debitore ha un’unica minaccia seria da far valere contro il creditore: non ti ripago il debito. Questa minaccia è però decisiva, questa sì in grado di rovesciare i rapporti di forza. Agire seriamente questa minaccia vuol dire porre la questione della rottura con l’Europa reale, cioè l’Unione Europea della finanza e dell’austerity. Se su un campo non c’è partita, bisogna costringere il nemico a inseguirci su un altro campo, che scegliamo noi. Hirschman parlava dell’opzione exit, non come abbandono della lotta ma, al contrario, come pratica che combinata con la voice può trasformare il contesto. Altri lo chiamavano “diritto di fuga”. La questione è la capacità di determinare il campo di battaglia e una nuova temporalità, senza accettare quelli che il nemico tenta di imporre. Quando parlavamo di diritto all’insolvenza, non intendevamo forse questo?
Sarebbe una catastrofe!, urlano i sinistri europeisti. Ma avete idea di cosa da tempo sta capitando in Grecia? Disoccupazione e impoverimento di massa, scuole e ospedali chiudono, l’Organizzazione mondiale della sanità denuncia il crescente numero di persone che si fa inoculare il virus dell’Hiv per accedere ai sussidi sanitari. Cara Europa e cari europeisti, la catastrofe è già avvenuta.
È realistico per la popolazione greca pensare di sopravvivere a questa rottura? Lo è, anche dal punto di vista delle contraddizioni geopolitiche l’occasione è grossa. Non è un mistero l’interessamento con cui i Brics seguono la vicenda, innanzitutto Russia e Cina (che già tra l’altro, alla faccia della formale appartenenza alla Ue dello Stato ellenico, detengono parte delle isole greche e il porto di Atene). Russia, Cina e Brasile non sono per nulla meglio o più desiderabili di Unione Europea e Stati Uniti, per noi è evidente (lo è meno per chi in questi anni ha sostenuto posizioni di malinteso anti-imperialismo o si è lasciato abbagliare dall’esempio del laboratorio latinoamericano). Si tratta invece di contraddizioni all’interno del campo nemico, una volta si chiamavano inter-imperialiste e oggi chiamiamole come vogliamo. Il piccolo paese greco, sprovvisto di rapporti di forza nella partita dentro l’Unione Europea, li può acquisire in virtù del ruolo che ricopre rispetto alla Nato (non è un caso che l’amministrazione Obama, incalzata dai fautori di una nuova guerra fredda con la Russia, segua con apprensione e invochi cautela ai falchi della Troika) e della posizione che acquisirebbe ponendo all’ordine del giorno la rottura con la Ue, prefigurando quindi la possibilità di un effetto domino. La cosa certa è allora che quelle contraddizioni non vanno solo osservate ma agite – questo e non una decontestualizzata Brest-Litovsk è il grande esempio che ci viene dal ’17 e dintorni. Se lasciate passivamente nelle mani della controparte, le contraddizioni del default e della “Grexit” verranno gestite e risolte tecnicamente. Noi dobbiamo impedire che ciò accada, facendole esplodere.
Ciò vuol dire tornare agli Stati-nazione, come accusano livorosi gli europesiti? È una follia in malafede: su questo europeisti a prescindere e sovranisti ideologici la pensano allo stesso modo, perché sono preda della falsa alternativa offerta dal mercato dell’esistente. Lo avevamo già detto qualche mese fa: sarebbe come dire che la critica di Marx allo Stato-nazione equivaleva alla nostalgia per il regionalismo feudale! Da sempre i processi di lotta e rottura creano le proprie forme istituzionali, spiazzando radicalmente il campo di opzioni fornito dal nemico – o con lo Stato o con i feudi, o con il sovranismo o con l’Europa. Nel 1871 si disse Comune, nel 1917 soviet, e oggi? Questo è il punto.
Bisogna dunque porre la questione della rottura, abolita dal lessico e dalle forme di immaginazione politica a partire dagli anni ’80, dal pensiero molle in avanti. Ma dopo la rottura emergerà tanta merda!, continuano a ripetere imperterriti gli europeisti. Non c’è dubbio, e allora l’alternativa è difendere la merda che abbiamo adesso? Che poi è il modo migliore per consegnare a un altro tipo di merda la possibilità di sostituirla, cioè consegnare davvero nelle mani di una destra aggressiva e radicale il monopolio della critica del mostro europeo dell’austerity e fette consistenti della composizione di classe, di precari e ceti medi impoveriti.
Perché, a fronte di evidenti dati di realtà, anche all’interno dei movimenti continua a riprodursi l’ideologia dell’europeismo a prescindere? Citiamo di sfuggita due motivi, tra i tanti. In primo luogo, vi è un’accettazione – oltre che del campo di gioco imposto dalla mistificata possibilità di scelta democratica – della tecnicizzazione della politica. In questo quadro non ci sono rapporti di forza, ma solo supposta intelligenza nel fare le proposte migliori. Che si parli di reddito, commons o di uscita dall’austerity, il problema non è imporli con le lotte, ma di ottenerli attraverso la razionalità di proposte di legge o fondazioni. Come se la razionalità fosse un sapere neutrale universale e non invece determinato dalla materialità dei rapporti di forza e di scontro tra le parti. Perché mai i capitalisti dovrebbero redistribuire la ricchezza e mettere fine all’austerity se hanno la possibilità di continuare a far pagare la crisi a precari e poveri?
In secondo luogo, c’è un problema di collocazione sociale. L’ideologia dell’europeismo a prescindere viene innanzitutto dagli intellettuali e dal mondo accademico. Da un lato, esiste una consolidata tradizione di apologia dell’Europa, in quanto spazio di appartenenza culturale e superiorità intellettuale rispetto al resto del mondo. Dall’altro, questa postura accademica assume connotati specifici nella crisi. Nel restringimento dei fondi pubblici nazionali alle università, per molti accademici la riproduzione delle proprie fonti di reddito e prestigio dipende in misura crescente dall’Unione Europea. Negli ultimi anni proprio un paese come la Grecia e altri pigs sono stati tra i maggiori attrattori di fondi dei “programmi quadro” europei per la ricerca, che consistono nella partecipazione ad attività di lobbying, circolazione nelle reti di potere, elaborazione delle parole chiave e dei discorsi della governance europea. Ciò porta un ceto accademico e intellettuale a essere fedele alla Ue, denunciando come un incubo l’uscita dalle istituzioni da cui attinge soldi e status. Non si sputa nel piatto dove si mangia, anche a costo di difendere il nostro affamatore e accusare ideologicamente di sovranismo chi da mangiare non ne ha e rivendica cibo. E cosa consiglieranno adesso alla popolazione greca per il referendum? Di accettare gli accordi con la Troika per responsabilità europeista, come già fecero per il referendum francese del 2005? Di rifiutare, ma sperando che la Troika si commuova e cambi idea? Oppure di affermare il no e porre finalmente la questione della rottura? Hic Rhodus, hic salta.
D’altro canto questo ceto si colloca (o ambisce a collocarsi) – per usare i discutibili termini dell’“autonomia del politico 2.0” – su un asse “verticale” che non si cura affatto di quello che avviene sull’asse “orizzontale”. Se lo facesse, vedrebbe che nei giorni scorsi ad Atene a manifestare per l’Europa sono la destra e coloro che nella crisi si sono arricchiti, e che ora hanno una paura fottuta di perdere rendite e profitti. A manifestare per la rottura sono i movimenti (che da anni combattono una guerra civile contro l’austerity, senza cui la stessa Syriza sarebbe stata impensabile) e chi da perdere non ha niente, se non le catene dell’austerity. Purtroppo una parte consistente dei tentativi europei di movimento in questi anni, anche generosi ma certo insufficienti, sono stati preda di questa ipoteca ideologica dell’europeismo a prescindere – e dunque del suo gemello “sovranista”. Il punto è invece un’Europa dei movimenti contro l’Unione Europea. Da qui possiamo riprendere a tessere le fila di un nuovo internazionalismo. Il nostro compito – da esprimere nelle forme della pratica, della solidarietà attiva, dell’elaborazione, della discussione e del discorso politico – è di attaccare per dare giustificati motivi alla paura dei nostri nemici.
Una rottura di questo tipo rimescolerebbe le carte e aprirebbe uno squarcio nella realtà quanto meno in tutti i pigs dell’Europa mediterranea. È in questo squarcio che il possibile viene rimesso all’ordine del giorno, dentro e contro la realtà. Senza perdere tempo, per citare ancora una volta chi la rivoluzione l’ha fatta: all’attacco, e poi si vedrà.
* da commonwere.org
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