L’occupazione ha mille facce, mille sfumature, che si incuneano nella quotidianità della vita rendendola disumana. L’occupazione non è mai un qualcosa di astratto, di indefinito, ma si sostanzia con soprusi e privazioni, con l’obiettivo di spezzare la resistenza e la volontà del popolo che la subisce. Ed è precisamente questo che sta accadendo in Palestina, dove Israele impone a uomini e donne, colpevoli solo di rivendicare la propria dignità, una segregazione razziale intollerabile. E lo fa con la complicità di stati e governi che ora con aiuti diretti e ora con silenzi colpevoli sostengono nei fatti l’Occupazione.
L’Occupazione è quindi negazione della vita: impossibilità di lavorare, curarsi, studiare, avere affetti e l’elenco potrebbe continuare, lunghissimo. L’Occupazione è anche pulizia etnica, volontà deliberata di sradicare un popolo dalla sua terra per renderlo altro, un qualcosa di indefinito, un nulla. Il sionismo questo lo ha messo in pratica da sempre, fin dai quei drammatici giorni dopo la seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di palestinesi furono cacciati dalle loro case attraverso il terrore e la devastazione. Da lì inizio la diaspora di questo popolo, campi profughi senza diritti ospitati malvolentieri dagli stati limitrofi, ignorati da un Occidente opulento e egoista, condannati a non poter ritornare nelle loro case da una comunità internazionale sorda, cieca e muta. In poche parole: complice del crimine che si stava perpetuando.
Il diritto al ritorno diventa quindi uno degli elementi che sostanziano l’idea di popolo e di autodeterminazione della Palestina. Un elemento che unifica tutto il popolo palestinese, che supera le barriere e le divisioni di schieramenti e di partiti che oggi indeboliscono la resistenza contro l’occupante israeliano.
E’ stata questa iniziale costatazione, nello stesso tempo elementare e sconvolgente, che ha portato donne e uomini che ritengono che il diritto al ritorno sia un punto irremovibile e centrale per il futuro del popolo di Palestina a mettere in campo per questa estate una proposta che si concretizza con l’invio di missioni nei luoghi della diaspora palestinese. Le missioni all’inizio dovevano essere cinque: Libano, Cisgiordania, Gaza, Siria e Giordania, ma la ferocia del conflitto che da anni insanguina la Siria ha da subito reso impraticabile questa ipotesi. Nei giorni scorsi un altro pezzo della missione ha dovuto subire una dolorosissima amputazione: Gaza. Dal Cairo la striscia di terra al sud della Palestina è irraggiungibile e il valico di Rafah è chiuso. Il Sinai, sempre più teatro di guerra fra il governo egiziano e le varie milizie presenti sul territorio, è diventato terra di nessuno, una sorta di “campo minato” insuperabile che giustifica agli occhi di una comunità internazionale miope l’ingiustizia criminale contro Gaza, sempre più prigione a cielo aperto per oltre un milione e mezzo di donne e uomini.
Durante i bombardamenti di un anno fa emerse la condizione impossibile in cui viveva Gaza, si era parlato di apertura di valichi, di possibili porti e di aeroporti. Finito l’ennesimo massacro e abbassate le telecamere però nulla è cambiato, anzi se possibile tutto è cambiato in peggio e questo meriterebbe una seria riflessione da parte del movimento di solidarietà con la Palestina per non rimandare una mobilitazione efficace alla prossima guerra o al prossimo massacro, mettendo in campo fin da settembre una iniziativa in grado di superare tutti i nostri particolarismi e personalismi che chieda l’immediata fine dell’embargo e l’apertura di un corridoio che consenta ai palestinesi di Gaza di poter entrare e uscire senza dover sottostare alle angherie e alle prepotenze del governo di Tel Aviv.
La missione per non dimenticare il Diritto al ritorno comunque non si ferma e partirà per le tre destinazioni alla fine della prossima settimana (13-15 agosto), forte della consapevolezza che nessun risarcimento potrà mai ripagare le sofferenze e le privazioni di decenni di diaspora. Il riconoscimento di questo diritto è l’unico modo per dare una soluzione all’occupazione delle terre palestinesi.
Il 18 agosto da tre luoghi simbolo, tre campi palestinesi, ricorderemo al mondo che l’occupazione ha generato un esodo forzato del popolo di Palestina e che oggi ci sono palestinesi in Libano, come in Giordania, Siria, Iraq e altri Paesi – non ultimo il nostro Occidente – ma che ci sono palestinesi rifugiati nella stessa Palestina.
L’ebraicizzazione di Israele – punta più alta del programma neocoloniale del sionismo – esclude il diritto al ritorno dei non ebrei, e dunque dei palestinesi nati in quelle stesse terre e dei loro discendenti. La nostra presenza in quei paesi vuole denunciare questo trattamento intollerabile e razzista.
Il tema del diritto al ritorno per il popolo di Palestina, ignorato da troppi, dentro e fuori il mondo arabo-mediorientale, non può più essere eluso o messo da parte in nome di altre e pretestuose compatibilità. Le tre delegazioni ricorderanno le vittime delle stragi e porteranno ai palestinesi solidarietà politica e sostegno umano.
Vogliamo che l’iniziativa che ci accingiamo ad intraprendere, in collaborazione con i nostri amici palestinesi, con i quali da anni lavoriamo insieme nel Comitato internazionale Per non dimenticare Sabra e Chatila e con il quotidiano libanese Assafir, sia un momento, centrale, di un percorso che deve prevedere iniziative su tutto il territorio italiano – tanti incontri si sono svolti in tutta Italia nelle scorse settimane – con al centro “il diritto al ritorno”. La nostra presenza in Libano, come in Cisgiordania, Giordania è finalizzata a denunciare una realtà inaccettabile e drammatica che ha origine, appunto, dall‘occupazione della Palestina.
* Comitato Per non dimenticare il diritto al ritorno
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