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Panama Papers. Hackeraggio e ambiguità

Difficile sapere esattamente cosa ci sia in quegli undici milioni di files sottratti alla società panamense Mossack Fonseca. Tanti nomi, per ora, mentre l’interesse per le banche o le società multinazionali – assolutamente prevalenti per numero e importanza – sembrano interessare poco.

Tutto è in mano a un team di “giornalisti investigativi”, multinazionale come i finanziatori. Che selezionano il materiale e lo diffondono secondo uno schema che comincia ad esser chiaro. Pubblichiamo qui due articoli diversi per provenienza e angolo visuale. Uno è del (fino a poche settimane fa) vicedirettore di Famiglia Cristiana, Fulvio Scaglione; l’altro di Alfonso Tuor, redattore del giornale online svizzero Ticino News.

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Panama Papers: ottimi hacker

Fulvio Scaglione

Vogliamo dirlo? I Panama Papers sono un ottimo esempio di hackeraggio e un pessimo esempio di giornalismo. Fanno impallidire Edward Snowden, che pure nel 2013 rivelò al mondo la rete globale di spionaggio degli Usa, e Julian Assange con i suoi WikiLeaks del 2010. Ma fanno arrossire chiunque provi a fare questo mestiere seriamente. Al di là di aver convinto qualcuno a trafugare i dati (e sarebbe interessante sapere quanto sia costato), di investigativo c’è abbastanza poco.

La ragione per pensarlo sono molte e semplici. Come tutti ormai sanno, i Panama Papers sono 11 milioni e mezzo di file che coprono 38 anni di attività (1977-2015) della Mossack Fonseca, una società con sede a Panama City (660 dipendenti, filiali in 42 Paesi) la cui principale vocazione è mettere al riparo in adeguati paradisi fiscali i risparmi di personaggi danarosi.

Detto questo, ecco alcune di quelle ragioni.

La prima e meno rilevante, ma non ininfluente, è che avere conti off shore non è reato se il titolare è in regola con le leggi fiscali del proprio Paese. Questo viene in effetti detto ma tra le righe, in caratteri minuscoli, come i codicilli delle assicurazioni. Il lettore inesperto è portato a credere che un conto off shore sia un crimine in sé.

Secondo: i finanziatori dell’Investigative Consortium of Investigative Journalism che ha pubblicato i Panama Papers sono di varia estrazione. Si va dalla Open Society di George Soros (Usa, gran finanziatore della campagna elettorale di Hillary Clinton) al Sigrid  Rausing Trust (Gran Bretagna, un budget per il 2016 di 30 milioni di euro), dalla Adessium Foundation (Olanda, fondata nel 2005) al miliardario australiano Graeme Wood (noto per aver fatto, nel 2010, la più ingente donazione nella storia d’Australia: 1,6 milioni di dollari ai Verdi). Ora, sarà un caso ma in questi Panama Papers non figura alcun americano o australiano o olandese. Per la Gran Bretagna c’è solo il padre, ormai morto, del premier Cameron. Chiederci di credere che nessun riccone americano o australiano abbia mai provato a usufruire dei servizi di una società off shore è davvero un po’ troppo.

Terzo: tutta l’informazione raccolta con l’hackeraggio è presentata in modo tendenzioso, per non dire fazioso. La home page del sito che presenta i documenti (https://panamapapers.icij.org) è costruita in modo che l’attenzione sia attratta dall’immagine di un uomo portato a braccia da due soccorritori in una città distrutta. Siamo in Siria e sul tema c’è anche un video molto drammatico. In sostanza, il sito ci dice che nei file sottratti a Mossack Fonseca ci sono tracce delle attività di una serie di 33 compagnie che sarebbero sulla lista delle società finite sulla lista nera per rapporti con organizzazioni terroristiche.

L’unica compagnia identificata con nome e ragioni sociali, però, è la Pangates, società specializzata in petrolio e carburanti con sede negli Emirati Arabi Uniti. La Pangates avrebbe fornito carburante speciale per i caccia dell’aviazione del Governo siriano. Carburante che, dice il sito, è servito ad Assad per uccidere migliaia di civili. Ovviamente Isis, Al Nusra e altri soggetti qui non sono menzionati, nemmeno in ipotesi. Poi però salta fuori che la Pangates è parte dell’Abdulkarim Group, che è un’azienda siriana. Un’azienda siriana che procura carburante all’aviazione del proprio Paese. Potrà non farci piacere ma non è così strano. L’attenzione, semmai, dovrebbe essere puntata sulle autorità degli Emirati Arabi Uniti, Paese fedele alleato degli Ua ma a quanto pare renitente a seguirne le indicazioni.

Quarto: con un’abile operazione, tutto il peso delle rivelazioni è caricato su Vladimir Putin, il babau dell’Occidente, il bersaglio preferito dell’Open Society di Soros, che l’ha più volte definito un pericolo maggiore dell’Isis. Tra i tanti personaggi di spicco, Putin è l’unico che non può essere tirato in ballo personalmente. Però si sostiene che i suoi amici hanno portato una somma enorme nei paradisi fiscali (ripetiamo: non è detto che sia reato) e che lui “non poteva non sapere”.

È difficile non pensare che in questo caso, accanto al marketing, ci sia anche la direttiva politica. Per carità, nessuno è nato ieri: se i suoi amici si sono arricchiti, il potere e l’influenza di Putin avranno pur giocato la loro parte. Ma vogliamo fare il giochino del “non poteva non sapere” con gli altri grossi nomi? Re Salman dell’Arabia Saudita: in quel Paese fanno tutto i servizi segreti Usa, volete che non sapessero? Il presidente ucraino Poroshenko? Il ministro delle Finanze dell’Ucraina è un’americana che, prima di prendere alla svelta il passaporto e la poltrona, ha lavorato al Dipartimento di Stato e all’ambasciata Usa di Kiev. Potevano gli Usa non sapere di Poroshenko, una loro creatura? E così via, passando per la famiglia Cameron, per quella dell’autocrate Ilham Aliev dell’Azerbaigian e quella del premier del Pakistan Nawaz Sharif, tutti Paesi rigorosamente alleati degli Usa.

Insomma, è come si diceva: complimenti per il furto di dati ma non tiriamo in ballo il giornalismo investigativo.

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Panama Papers, l’obiettivo è Putin

Alfonso Tuor

La gestione giornalistica dei cosiddetti “Panama Papers” sta mettendo in luce che l’obiettivo principale dell’intera operazione è chiaramente il presidente russo Vladimir Putin. Si parla di giornalismo di inchiesta che ha tolto il velo sul ruolo delle società offshore di Panama e che ha messo in evidenza le magagne fiscali di migliaia di persone e la corruzione di molti capi di Stato. Eppure questo modo di nascondere capitali neri e spesso sporchi è in voga da decenni.

Ad esempio, quante società panamensi hanno costituito le banche svizzere per evitare che i loro clienti non residenti nel nostro Paese non pagassero l’euroritenuta sui redditi da interessi? Moltissime. E quanti trust, Anstalt del Liechtenstein e società nei paradisi fiscali sono state create nei decenni per celare gli aventi diritto economico di cospicui patrimoni? Moltissimi. Era ed è un segreto di Pulcinella che non è mai stato perseguito né dalle nostre autorità di sorveglianza (FINMA) né da quelle di altri Paesi.

Ora viene alla luce una lunga lista che risale fino a quaranta anni fa dei personaggi noti e meno noti che hanno fatto uso delle società panamensi. C’è quindi da domandarsi chi sia riuscito ad entrare nel sistema informatico dello studio legale panamense Mossack Fonseca per sottrarre 11 milioni di documenti per poi passarli ad un quotidiano tedesco. E’ legittimo sospettare che si sia trattato di un’operazione di servizi segreti molto probabilmente americani, che come ha rilevato Edward Snowden, riescono ad avere accesso a conversazioni telefoniche e files di chiunque. Se vi è ragione di dubitare che questo affare conduca a mettere alle corde l’evasione fiscale, la corruzione e il malaffare (lo si sarebbe potuto fare già da tempo), vi è da chiedersi quale è l’obiettivo dell’intera operazione. Il nome che emerge è quello di Putin e l’obiettivo è quello di metterlo in difficoltà dopo l’indubbio successo conseguito grazie all’intervento in Siria. E questo obiettivo sembra ancora più evidente dopo la decisione americana di trasferire una squadriglia aerea in Islanda per proteggere in Paesi baltici e dopo il prossimo dispiegamento nell’Europa orientale di un contingente di 2’500 soldati americani allo scopo di proteggere questi Paesi da un possibile intervento militare russo.

Queste mosse ufficiali di Washington mostrano che vi sono ambienti americani che vogliono ricreare un clima di guerra fredda. Non è escluso che nei corridoi dei centri di potere statunitensi sia in corso un confronto sulla politica estera (e quindi anche militare) americana. Vi è infatti, da una parte, il segretario di Stato John Kerry, che stringe accordi con Mosca sulla Siria, vi è, dall’altra, il capo delle forze NATO in Europa, che parla della minaccia russa. E vi è soprattutto un Presidente americano fortemente ostile a Putin.

Tutto ciò induce a ritenere che vi siano forti dissensi a Washington sia sulla politica da seguire in Vicino Oriente sia sull’atteggiamento da tenere nei confronti della Russia di Putin. Non è quindi da escludere che la diffusione dei Panama Papers faccia parte di questo confronto. E questa è probabilmente la chiave di lettura di quello che viene “venduto” come un grande successo del giornalismo d’inchiesta. Fanno inoltre sorridere le dichiarazioni di coloro che ritengono che questo scandalo permetterà progressi nella lotta contro il malaffare. In proposito basta ricordare che Panama è un protettorato americano. Gli Stati Uniti alcuni decenni orsono hanno invaso Panama per rimuovere il generale Noriega. Quindi, se Washington volesse veramente, non avrebbe alcuna difficoltà ad imporre la chiusura del paradiso fiscale che è Panama, così come di altri centri offshore. Se non lo fa, è perché anche agli Stati Uniti questi paradisi fiscali fanno comodo.

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