Il procedere dell’onda lunga dei processi di privatizzazioni dagli anni ’90 ad oggi, ci consente di individuare il percorso dell’intero processo di trasformazioni economico-sociale e, conseguentemente, del sistema di relazioni politiche, giuridiche e istituzionali, che ha coinvolto il nostro paese.
La privatizzazione, procedendo per sintesi, viene intesa come espressione della ricerca di nuovi ambiti di valorizzazione del capitale, alle prese con una generale crisi di sovrapproduzione di capitali, a partire dai paesi occidentali a più alto livello di sviluppo capitalistico, ovvero a più alta composizione organica del proprio capitale e investito dal declino dei tassi di profitto.
Allora, se la ricerca di nuovi ambiti di redditività per gli investimenti di capitale è il movente delle privatizzazioni, la sovrapproduzione di capitali in cerca di valorizzazione è la causa dei processi di finanziarizzazione dell’economia, che dalla fine degli accordi di Bretton Woods nel ’71, con lo sganciamento del dollaro dall’oro, si pone come tentativo di contrastare la caduta di redditività degli investimenti e al contempo come premessa ad un nuovo aggressivo ciclo di accumulazione, ideologicamente rappresentata dal neo-liberismo.
Il dominio mondiale del modello sociale capitalistico fondato sul primato statunitense, all’indomani del crollo dei paesi legati al sistema socialista, riapre con forza all’interno dei paesi capitalistici, fino a quel momento alleati contro il nemico sovietico, uno scenario di competizione inter-capitalistica e con il procedere del processo di integrazione economico e valutaria di costituzione dell’U.E. in competizione inter-imperialistica.
Recuperare il terreno sottratto dalle classi subalterne in termini di conquiste sociali, condizioni normative e salariali, redistribuzione del reddito, presenza del pubblico nell’economia, è il filo conduttore di una offensiva di sopravvivenza del modello capitalistico occidentale che affonda fino alle radici del patto sociale intorno a cui si sono modellate le “moderne economie sociali di mercato europee”.
Il movimento delle privatizzazioni nel nostro paese è naturalmente incardinato con il quadro a grandi linee rappresentato e con cui interagisce, contribuendo ad un risultato già tristemente evidente: tra i paesi aderenti alla U.E., l’Italia ci sembra quello in cui l’impatto con le modifiche strutturali imposte dal processo di costruzione dell’U.E. ha prodotto, sotto più profili, i cambiamenti strutturali regressivi maggiori.
Il trasferimento in mani private di stock di ricchezza sociale rappresentato da aziende, infrastrutture, ecc, equivale a ridefinire non solo i rapporti di proprietà quantitativi tra le classi ma anche a il peso sociale ed economico, di ciò che assume la denominazione di rapporti di forza. In questo senso i dati a disposizione sono inequivoci, il venir meno del ruolo pubblico nell’economia ha ridotto l’incidenza sul PIl delle aziende pubbliche centrali dal 20% circa del 1991 a meno del 5% attuale. L’incidenza delle privatizzazioni, per circa 114 operazioni censite, in termini di proventi ammonta a circa 140 miliardi, collocando il nostro paese al secondo posto dopo il Giappone nella non certo lusinghiera graduatoria dei paesi privatizzatori.
Si è già detto di come le privatizzazioni operino in relazione con i processi di finanziarizzazione tanto sul versante dell’assorbimento di capitali in cerca di valorizzazione ma anche come leva per nuovi e più intensi processi di finanziarizzazione attraverso la costituzione di SpA e le successive acrobazie della speculazione finanziaria. Significativa la contrazione dei livelli occupazionali legati alla privatizzazione circa 300.000 occupati in meno, in larghissima parte proveniente da aziende di servizio, funzionali, non al recupero di qualità ed efficienza dei servizi, bensì alla redditività dell’investimento, ovvero al trasferimento dal monte salari al profitto aziendale di quote della ricchezza prodotta dal paese. L’efficienza capitalistica nella gestione del patrimonio pubblico privatizzato è un aspetto non secondario del tentativo di arginare la progressiva erosione dei margini di profitto sistemici.
La conoscenza dei dati aggregati certamente contribuisce ad una visione generale del fenomeno privatizzazioni, tuttavia il processo privatistico si è dipanato attraverso fasi distinte, investendo soggetti economici diversi in ogni fase fino a far emergere il profilo delle nuove classi dominanti, legate al capitale finanziario e ai processi di costruzione del polo imperialistico della borghesia europea, a partire dalla funzione fondamentale dell’euro come attore della competizione globale.
Le privatizzazioni nel nostro paese partono dagli anni ’90, come risultato della liberalizzazione al movimento di capitali definito nell’impianto del Trattato di Maastricht e dall’ancora precedente divorzio tra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro con la fine dell’acquisizione da parte della banca centrale dei titoli del debito pubblico, consegnandoli alla libera contrattazione dei mercati, innescando la crescita del debito pubblico e favorendo la costituzione di un diffuso “ceto” di piccoli e medi risparmiatori, interpreti dell’italica virtù del risparmio, i cosiddetti Bot People, destinati ad assumere un ruolo di sostegno economico ed ideologico importante nei processi di privatizzazione.
La prima fase della privatizzazione che possiamo collocare nel decennio ’90-2000, trova una forte connotazione ideologica a impronta” modernista e progressista”, non tralasciando di considerare il fatto che il ’92 e l’anno di “tangentopoli” che mette a nudo un sistema di finanziamento illecito alla politica che si muove a partire proprio dal rapporto con l’economia pubblica. La sconfitta del malaffare e dell’inefficienza delle aziende di servizio si considera possibile solo attraverso una sana cura privatizzatrice affidando al mercato, non inquinato dalla politica, la gestione delle aziende, diversamente preda del clientelismo e dell’affarismo.
Vengono così privatizzate le BIN (Banche di Interesse Nazionale) come la Commerciale, il Credito Italiano, Bnl e poi Telecom, Enel, Ilva etc. Naturalmente le vicende degli anni o meglio del decennio seguente hanno dimostrato la natura ingannevole di un simile approccio, totalmente abbracciato dalla sinistra.
Di questa prima fase della privatizzazione ci sembra utile sottolineare due conseguenze: la prima politica, che può suggerire analogie con gli scenari politici attuali, il referendum del 18/19 aprile del ’93 nel quale a stragrande maggioranza si scelse il sistema elettorale maggioritario, come risposta alla corruzione della politica(?); la seconda economica-gestionale, l’affacciarsi sulla scena economica del paese, fino a quel momento centralizzata nel “capitalismo di relazione” di Mediobanca sotto la guida di Cuccia, dei capitani d’industria, apertamente sostenuti dal centro-sinistra, e inseriti a guida delle aziende privatizzate. Una schiera di imprenditori che della condizione di monopolio delle aziende e della loro imprescindibile necessità sociale hanno ampiamente approfittato, in senso letterale, con rischi d’impresa sostanzialmente nulli.
Il riferimento centrale delle privatizzazioni degli anni ’90, è certamente rappresentato dal patrimonio del sistema di holding pubbliche costruito intorno all’IRI. La politica industriale pubblica è stata innegabilmente il fulcro dello sviluppo economico post-bellico e del cosiddetto boom economico del paese. L’apporto del capitale privato all’industrializzazione del paese, oltre che quantitativamente al di sotto dell’impegno economico pubblico, si è realizzato grazie al riparo garantito dalla funzione di indirizzo centralizzato della componente del capitalismo a controllo pubblico, impegnato nella costruzione di un sistema infrastrutturale adeguato ai tassi di crescita incalzanti imposti dall’accumulazione capitalistica.
Il patrimonio pubblico alla vigilia della “grande stagione della privatizzazione”, proprio in ragione del ruolo svolto dal pubblico nell’industrializzazione del paese, era obiettivamente ragguardevole: rete infrastrutturale energetica; industria petrolifera, chimica, siderurgica, sistema bancario, assicurazioni, telecomunicazioni, autostrade, aeroporti, impiantistica, tabacchi, e molto altro. Un patrimonio mai effettivamente stimato, forse impossibile da stimare, il cui valore irrisorio definito dagli introiti di (s)vendita confligge con la crescita di ben sette volte, dal ’92 al 2007,del mercato borsistico nazionale soprattutto per la quotazione delle aziende privatizzate.
L’impiego degli introiti delle privatizzazioni per operazioni di rientro dal debito pubblico appare, alla luce delle dimensioni del debito, cialtronesca e nel medio periodo la fine degli utili per le casse pubbliche provenienti dalle aziende e attività privatizzate decisamente dannosa proprio per il finanziamento del debito, a testimonianza della vitalità economica dei settori dismessi.
Allora il senso economico e politico della stagione della privatizzazione va individuato nel cambio di paradigma dell’accumulazione con il primato assunto dal grande capitale finanziario, che nel processo di liberalizzazione dei suoi movimenti nell’acquisizioni di asset produttivi e infrastrutturali, trova non solo una condizione di impiego profittevole ma proietta le nostre classi dominanti nella dimensione della competizione globale, di cui la finanziarizzazione è il volano.
E’ evidente che nel vortice di acquisizioni, fusioni che accompagna la privatizzazione di parti considerevoli dell’apparato produttivo si ridefiniscono le gerarchie economiche della divisione internazionale del lavoro. Il consistente ridimensionamento o addirittura la scomparsa di interi settori produttivi, informatico e chimico ad esempio, rendono perspicua la natura competitiva dei movimenti di capitale nei processi di privatizzazione.
L’impatto delle privatizzazioni nel decennio ’90-2000 si è velocemente diramato dalla sfera sociale e produttiva a quella politica e normativa: la controriforma del diritto societario, basta menzionare la cessione del ramo d’azienda e l’incidenza nelle ristrutturazioni aziendali, la liberalizzazione dei servizi di pubblica utilità, l’avvio della deregolamentazione del mercato del lavoro, sono tutte componenti di quello che abbiamo definito il movimento della privatizzazione e tutte con un diverso grado di relazione riconducibili alla scelta di partecipare alla moneta unica e l’adesione al trattato costitutivo di Maastricht.
In definitiva, il lascito della “grande stagione della privatizzazione”, nel contesto di una micidiale offensiva alle condizioni di vita e lavoro delle classi subalterne, è la trasformazione del tessuto produttivo nazionale integrato nell’economia globalizzata a trazione finanziaria e la formazione nelle classi dirigenti del paese di una componente dominante della borghesia organicamente legata al processo di costruzione europea nello scenario della competizione globale.
Continua…
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