«Noi nei campi della Protezione Civile non ci vogliamo finire. Poi casa mia non la lascio incustodita, perciò noi stiamo qua e ci organizziamo da soli». È solo una delle tante testimonianze che in questi giorni, insieme ai compagni delle Brigate di Solidarietà Attiva e a tanti altri fratelli e sorelle, abbiamo ascoltato, mentre stiamo dando vita ad una bellissima esperienza di solidarietà dal basso, con la costruzione dello Spazio Solidale di Amatrice, uno spazio che funziona tanto da magazzino e spaccio di viveri e beni, quanto da spazio aperto alla popolazione. Questo incredibile slancio di coraggio e di dignità delle persone colpite dal terremoto lascia quasi stupefatti guardando il panorama di devastazione e contestualizzandolo in quel tessuto sociale ormai praticamente distrutto. Ma la lezione del terremoto de L’Aquila qui non è stata dimenticata, e la gran parte degli amatriciani è molto cosciente di come rischiano di andare le cose nei prossimi mesi.
La prima operazione “molto strana” è infatti già cominciata l’altro ieri: tutto il materiale raccolto in questi primi dieci giorni dal terremoto, e che era nei magazzini di Amatrice e dintorni gestiti dalla Protezione Civile, da un paio di giorni è in viaggio destinazione Avezzano. Nessuno ha saputo spiegarci il perché di questa operazione, fatto sta che da due giorni furgoncini di persone del luogo e associazioni di volontari si avvicendano alloSpazio Solidale Amatrice per portare viveri e beni che altrimenti finirebbero a circa 100 km dalle loro case e tende. Questa decisione fa il paio, come ci segnalano i compagni e le compagne del collettivo 3.32, con la gestione sempre più autoritaria dei campi dove gli sfollati sono accolti nelle tende: doppi controlli in entrata e uscita dai campi, presenza massiccia di forze dell’ordine, toni minacciosi e provocatori nei confronti di chi nei campi ci vive.
A fronte di questo, come scrivevamo in apertura, tante persone e famiglie, specialmente nelle frazioni, hanno scelto di non adeguarsi forzatamente al sistema di gestione della tragedia, che prevede una totale subordinazione della popolazione all’organizzazione della vita da parte di forze dell’ordine e protezione civile. Alla estromissione da ogni ruolo nel tessuto sociale hanno preferito opporre delle pratiche di (ri)organizzazione dal basso. Per cercare di far continuare e ricominciare la vita in binari che assomiglino il più possibile alla quotidianità, dove è possibile fare una pizzata tutti insieme il sabato sera, per passare qualche ora senza pensare al terremoto e le sue conseguenze; per non essere relegati al ruolo di persone in fila: in fila per mangiare, in fila per il bagno, in fila per la doccia, senza nessuna possibilità di ricostruire una comunità con la quale affrontare le giornate e la ricostruzione giorno per giorno.
Il tutto è perfettamente in linea con la cosiddetta “gestione Errani” dei campi e il tanto decantato modello Emilia, dove la militarizzazione dei campi è stata solo la prima mossa, arrivando in seguito a minacciare l’accettazione obbligata di soluzioni abitative inadeguate, pena l’estromissione forzata da ogni futuro diritto ad un alloggio garantito (qui). E dove, anche allora, anche se talvolta costretti da infame ricatto, in tanti si sono organizzati per ricostruire la propria comunità in campi autogestiti.
È proprio questa organizzazione dal basso che spaventa chi gestisce l’emergenza: una comunità unita, che affronta insieme le vicende che riguardano la ricostruzione, ha la capacità di mantenere un controllo popolare sulla gestione dei fondi e delle politiche per la ricostruzione. Una comunità che recupera la propria dimensione autonoma e non rimane a guardare lo sciacallaggio di imprenditori e politicanti, una comunità che rivendica unita il proprio ruolo nella ricostruzione, spaventa. Sciacallaggio semi-annunciato, d’altronde, anche durante lo squallido siparietto andato in onda il 25 agosto durante una puntata di Porta a porta, quando il ministro Delrio e Bruno Vespa erano in brodo di giuggiole raccontando di quanto un simile terremoto fosse «un volano dell’economia», e ricordando con gioia il fatto che a tutt’oggi L’Aquila sia «il più grande cantiere d’Europa».
Ma è proprio questa la sfida che noi dobbiamo raccogliere: avere la capacità di aiutare le persone a non dover per forza sottostare all’occupazione del proprio territorio, aiutarli a sostentare le loro esperienze di autogestione, parlarci perché non dimentichino mai la gestione de L’Aquila e dell’Emilia, dove in molti ancora sono sistemati negli alloggi provvisori e non vedono neanche l’ombra della fine della loro odissea. Utilizzare la nostra capacità organizzativa per permettere loro di avere uno spazio dove poter gestire loro stessi una cucina, uno spaccio, per fare una festa di compleanno o ancora una riunione del comitato con cui organizzavano la sagra della propria frazione.
Per essere efficaci in questo, è importante avere sotto controllo capillarmente la situazione di tutte le frazioni e agglomerati di case, dei campi ufficiali e di quelli autogestiti, in modo da poter intervenire celermente in sostegno di chi ne ha bisogno, altrimenti queste esperienze rischiano di esaurirsi per stenti e le persone, gioco forza, si ritrovano a dover andare nei campi della protezione civile. In chiusura, ringraziamo per l’aiuto in questo senso i tanti compagni da tutta Italia che si sono subito messi al lavoro per organizzare un sito ed una mappa su cui raccogliere tutte le segnalazioni dal territorio, segnalazioni che è possibile effettuare in maniera semplice e rapida tramite l’app di messaggistica Telegram. Per contribuire con le proprie segnalazioni basta cercareTerremotoCentroItalia bot tra i propri contatti Telegram.
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