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Rivedere il Revisionismo

In questi giorni ricorre l’anniversario della cattura ed esecuzione di Benito Mussolini e dei gerarchi repubblichini. Si tratta di un episodio fra i più dibattuti e trattati nella storiografia recente, e non su questo ci soffermeremo in questa nota, rimandando eventualmente alle molte opere che trattano di quei giorni, ultima delle quali in ordine di merito anche la nostra [1].

Gli ultimi giorni di Mussolini sono una vicenda emblematica di come sia necessaria, a volte, una cronaca “momento per momento”, un dettaglio quasi pedante anche sui particolari, da inserire in un’operazione più ampia, che crediamo sia – in futuro – da estendere necessariamente anche ad altri episodi della Guerra di Liberazione. Abbiamo scelto di usare lo stesso approccio della memorialistica revisionista, ovvero l’insistenza sul dettaglio, con lo scopo – però – di superare il revisionismo, cioè di “Rivedere (o revisionare) il revisionismo“.

È infatti indubbio che alcune delle versioni di questi fatti che per prime uscirono – e vennero adottate come ufficiali nel dopoguerra e fino ai ’70 – fossero talvolta imprecise o romanzate: la lotta partigiana, d’altronde, si meritava un’epopea, e l’ebbe. Negli anni 60/70, tuttavia, vennero pubblicate ricostruzioni complete del periodo della lotta di Liberazione, adeguatamente integranti la memorialistica di dettaglio in precedenza uscita: si fa riferimento qui per semplicità ai testi in [2-5]. A questa si aggiunge l’ulteriore opera di Giorgio Bocca sulla Repubblica di Mussolini [6], che costituisce, già nel 1995, un esempio di storiografia che tenne anche in conto delle testimonianze di parte repubblichina.

Il luogo comune che “la storia la scrivono i vincitori” è qui fuori luogo. I partigiani furono dei vinti – anzi dei traditi – quando nel dopoguerra si ritrovarono in un’Italia democristiana, erede di quella dei notabili di inizio secolo, nella quale gli ex fascisti si trovavano a loro pieno agio, dimenticato il loro passato e pienamente accolti fra i moderati al potere; per i più estremisti, che al fascismo continuavano a richiamarsi esplicitamente, c’era il MSI, diretto erede della RSI, con una forte rappresentanza in Parlamento. Dopo tre anni dalla Liberazione, non vi era, fra i fascisti sopravvissuti alla Resa dei Conti, praticamente più nessuno in galera.

Non era quella l’Italia nuova sperata dai partigiani e per la quale essi avevano combattuto: tuttavia ebbero riconosciuta la loro eredità ideale nella Costituzione, sebbene essa sia stata in parte disattesa negli anni. I partigiani poterono perlomeno raccontare, e lo fecero ampiamente. A partire dagli anni ’80, però, le versioni ufficiali vennero pian piano erose e smentite da nuova memorialistica e storiografia, in parte revisionista, il cui contributo iniziale fu talvolta utile per far emergere particolari e fatti nuovi.

Purtroppo, queste rivelazioni non vennero fatte da chi aveva partecipato alla lotta di liberazione fra i partigiani ed era rimasto fedele agli ideali di allora, inquadrandole in un racconto corretto, come venne fatto ad esempio in [6], ma spesso da revisionisti di vario genere, mentre troppo raramente da storici professionisti e “non di parte”, ad esempio [7]; il risultato ultimo è stato di mescolare l’analisi di nuovi particolari e fatti utili con interpretazioni discutibili, fino ad arrivare ad un quasi capovolgimento delle versioni originali, in favore di un’altra – nuova – vulgata.

Quest’ultima nuova versione revisionista della guerra di Liberazione ha trovato un certo spazio specialmente fra i giovani, e non soltanto più fra i pochi neofascisti, anche per la popolarità di opere non appartenenti secondo noi alla storiografia, ma al romanzetto storico ed alla propaganda politica mal mascherata, ed alle quali non si concede qui neppure il riconoscimento di una citazione: ci Pansi qualcun altro, non noi. La vulgata che ne risultò si può riassumere così: “Quello che ci ha raccontato la storiografia ufficiale sulla lotta di liberazione è in buona parte falso, e ciò è stato fatto per coprire la realtà vera dei fatti. Fra partigiani e fascisti fu una guerra civile e gli uni non erano molto meglio degli altri. Ci sono poi molti misteri insoluti.”

Ebbene, è proprio questa nuova vulgata revisionista che va, appunto, smontata: ma non a parole, bensì con il lavoro sui fatti e anche sui particolari, proprio quello dal quale è partito il revisionismo, per arrivare però velocemente alla fantasia, fino ad una vera e propria distorsione della realtà, assai peggiore della precedente parziale “reticenza” della storiografia e memorialistica ufficiale.

Riesaminando invece i fatti, ci si accorge che il grosso delle versioni iniziali di parte alleata o partigiana era rispondente alla realtà, nella sostanza: farebbe specie che – uscendo dal ghetto delle fonti neofasciste – il revisionismo arrivasse a velare la realtà fattuale con una tal cortina fumogena di illazioni da ridurla a mitologia, nella quale partigiani e fascisti sono messi sullo stesso piano. Invece – pur nella realtà di un feroce fine guerra – il comportamento degli antifascisti fu lineare e del tutto spiegabile ed adatto alle circostanze. Con qualche punto nero, che non mancheremo mai di rimarcare: ma furono pochi, a fronte di un nero quasi totale che c’era stato dall’altra parte per oltre un ventennio.

Se è pur vero che i morti meritano, di qualunque parte siano, rispetto, non si può però astenersi dal diritto di critica e condanna delle loro scelte, azioni, crimini commessi da vivi. Da vivi, non si era tutti uguali, durante la guerra di Liberazione. E questo va detto e fermamente mantenuto.

Il tempo passa non invano. Se, per fare soltanto un esempio Walter Audisio (il “Colonnello Valerio”, l’esecutore “ufficiale” di Mussolini) non poté o non volle – 60 o 70 anni fa – raccontare certi dettagli riguardo quei giorni [8], ciò non vuol dire che Audisio abbia raccontato solo una bella favola. Riesaminata, la sua versione è molto aderente ai fatti. Dire questo, al giorno d’oggi, è così poco di moda, da esser ormai divenuto politically incorrect ed impopolare. Così come era vero il contrario sessant’anni fa: Giorgio Bocca [6] fece giustamente notare il fatto che – per almeno un trentennio – la storia della guerra di Liberazione sia stata scritta puntando l’attenzione su una parte sola. Certamente, perché l’altra parte faceva così ribrezzo che il suo ricordo voleva essere seppellito nella coscienza collettiva della nuova Italia. Ma quanto questa Italia “nuova” era davvero nuova?

Se consultiamo, nei secondi anni quaranta, i ruolini delle forze dell’ordine e degli amministratori dello Stato, vediamo come essi siano ripieni di ex-fascisti, riammessi in ruolo dopo un brevissimo oblio, silenziosamente. Anzi, ricercati – per quanto riguarda le forze dell’ordine – e preferiti agli altri. Mentre gli ex-partigiani che, finita la guerra di Liberazione, videro nell’esercito o nelle forze dell’ordine un possibile sbocco lavorativo, vennero – sempre silenziosamente – cacciati pian piano quasi totalmente.

Solo negli alti gradi della classe politica – ma dal 1948 all’opposizione – rimasero. Al Governo, ci andarono quelli che nella Resistenza avevano avuto una parte minima: i democristiani, i socialdemocratici, i liberali. L’ambiguità, l’attendismo, l’opportunismo trionfarono ancora una volta.

Il Governo Italiano, con sede a Roma, ebbe lo stesso spirito della cosiddetta “resistenza” romana, fatta di grandi stuoli di attendisti che fecero di Roma l’unica città italiana che non insorse contro il tedesco. Con l’eccezione di pochi eroi come i gappisti romani, che anzi dovettero, negli anni del dopoguerra, fronteggiare accuse e processi, cosa che capitò a molti protagonisti reali della Guerra di Liberazione. Il “vento del Nord” non prevalse, fu spazzato via dalla calma piatta degli eredi di Badoglio.

Resistenza tradita? Giorgio Bocca concluse con un salomonico ma giusto “Resistenza incompiuta” la sua analisi storiografica del periodo. Noi, si parva licet, ci permettiamo di proporre un più aderente ai fatti “Resistenza tollerata”. La tollerarono obtorto collo gli anglo-americani, la tollerò nel dopoguerra chi stava al Governo d’Italia, cioè in sostanza i democristiani, la tollerarono ancora gli Stati Uniti dopo il 1945. L’Italia democristiana è riuscita pian piano a dimenticare e far dimenticare la Resistenza, e successivamente l’ha appiattita ed annacquata in un abbraccio generale all’insegna del “siamo tutti fratelli”.

Proprio per questo è importante, anche a distanza di ormai oltre sette decenni, documentare. Insistere sui particolari e sull’insieme. Chiarire. Dirimere. Specialmente con i giovani, che sono le vittime di questa pluridecennale campagna di disinformazione strisciante. Ed è proprio per questo motivo che ora va fatta chiarezza: i “misteri” di quel periodo non sono poi così insolubili, e la loro persistenza, al giorno d’oggi, non fa più il comodo dei vincitori, ma dei revisionisti. Ai quali va ribadito quanto abbiamo già scritto: se pure i morti meritano rispetto, essi – da vivi – non erano tutti uguali. C’era chi – di ogni colore politico tranne il nero – lottava contro l’invasore e per la libertà, e c’era invece chi si schierava con una ideologia che – se predicava la “bella morte” per i propri adepti – procurò invece a milioni di vittime innocenti la “morte orribile”: quella dei campi di sterminio.

Riferimenti

1. Massimo Zucchetti, Mussolini ultimi giorni, Smashwords editore, ebook 2018.

2. Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Laterza, Bari 1966.

3. Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, Torino 1964.

4. Paolo Emilio Taviani, Breve storia della Resistenza italiana, Museo storico della Liberazione, Edizioni Civitas, Roma 1995.

5. Piero Calamandrei, Uomini e città della resistenza, Laterza, Bari 1955, 1977, 2006.

6. Giorgio Bocca, La Repubblica di Mussolini, Mondadori, Milano, 1995.

7. Gianni Oliva, I vinti e i liberati 8 settembre 1943-25 aprile 1945, Mondadori, Milano 1994.

8. Walter Audisio, In nome del popolo italiano, Teti, Milano, 1975.

9. Fonte iconografica: Plus Minus, articolo del 24.4.2015, http://www.rp.pl/galeria/1195863.html (aperto il 27/4/2018).

Pier Luigi Bellini delle Stelle “Pedro”, comandante della 52a Brigata Garibaldi, al centro con barba e baffi [9].

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