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La morte di Mohamed Morsi

La morte di Morsi il 17 giugno durante un’udienza a suo carico è un evento dal grande significato simbolico, in quanto la parabola dell’ex-Presidente dell’Egitto è esemplificativa dell’agire ipocrita e cinico da parte degli imperialismi occidentali.

I Fratelli Musulmani – di cui Morsi era esponente – vennero scelti nel 2011 dagli imperialismi, in occasione della stagione poi rivelatasi per lo più scellerata delle cosiddette “primavere arabe”, come carta di ricambio affidabile per sostituire i regimi laici dell’area mediorientale, oggetto di contestazioni popolari in alcuni casi ampie, in altri casi minori.

Si badi che nel caso egiziano, a differenza – ad esempio – di quello siriano, i rapporti fra il precedente regime di Mubarak e i poteri imperialisti erano di vassallaggio più o meno completo; tuttavia, ritenuta terminata la stagione del rais egiziano, i Fratelli Musulmani e l’Islamismo sunnita in generale si presentavano come affidabili in quanto in stretti rapporti con la Turchia e le petromonarchie del Golfo, con i quali all’epoca né gli USA, né l’UE avevano grandi divergenze.

Tutte le potenze, sia quelle regionali “sunnite” che quelle internazionali, infatti, immaginavano di procedere assieme in un’opera diabolica e criminale di destabilizzazione del quadro politico, unie dall’ostilità verso l’Iran, ma ciascuna con la presunzione di controllare i processi per volgerli a proprio vantaggio.

Sventolando, così, a vele mediatiche spiegate, la bandiera delle “prime elezioni democratiche mai tenute in Egitto” (anche da parte di monarchie assolute oscurantiste come l’Arabia Saudita!), si giunge alla Presidenziali del 2012, dove Morsi ottiene la vittoria al secondo turno superando di poco l’ultimo Primo Ministro di Mubarak; Morsi ottenne soprattutto il consenso delle aree rurali del paese, quelle che non avevano mai avuto praticamente nulla a che vedere con le famose proteste di Piazza Tahrir.

Come nella più classica delle situazioni in cui cambia tutto per non cambiare nulla, da Presidente Morsi segue i dettami delle istituzioni finanziarie imperialiste (parliamo del FMI) e viene persino meno alla promessa, agitata nella campagna elettorale, di rimuovere l’embargo sulla Striscia di Gaza.

Qui, il Governo di Hamas, anch’esso affiliato ai Fratelli Musulmani, era stato protagonista di un clamoroso voltafaccia nei confronti di Damasco, che da anni ne supportava l’ala militare e ne ospitava i vertici in esilio: passò, infatti, dalla parte delle fazioni jihadiste anti-governative proprio nella convinzione che una rapida ascesa al potere dei Fratelli Musulmani anche in Siria, in concomitanza con quanto stava accadendo in Egitto, ne avrebbe significato la legittimazione internazionale.

Tuttavia, non solo le previsioni sul crollo della Siria si rivelarono errate, ma dai “commilitoni” egiziani della Fratellanza Musulmana non giunse nemmeno l’apertura stabilizzata dei valichi di confine. In questo contesto Gaza continuò ad essere una prigione a cielo aperto e le preoccupazioni di Israele riguardo il ruolo giocato dal “nuovo” Egitto si rivelarono infondate.

Nonostante tali premesse, che avrebbero dovuto tradursi in un veleggiare tranquillo per Morsi, la realtà si deteriora immediatamente, già fra la fine del 2012 e l’inizio del 2013.

Gli interessi fra tutte le potenze internazionali che stavano destabilizzando l’area si divaricano rapidamente e in Egitto monta la rivolta delle fazioni militari sconfitte con la defenestrazione di Mubarak (che, nel frattempo era sotto processo in condizioni di salute quasi comatose).

Per sintetizzare, la Turchia e il Qatar appoggiano Morsi, mentre l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Francia appoggiano i militari; gli USA, invece, vengono colti un po’ come gli asini tra i suoni e non prendono posizione fino al precipitare degli eventi.

La precipitazione ha a inizio luglio 2013, quando le forze armate detronizzano Morsi e, dopo aver fatto strage di manifestanti affiliati o simpatizzanti alla Fratellanza Musulmana (si parla di migliaia di persone), riprendono il controllo del paese, con a capo il Generali Al-Sisi.

Ne seguirà una sostanziale restaurazione del vecchio regime (simboleggiata dall’assoluzione di Mubarak), che tuttora, forte della sua funzione di ago della bilancia nel complicato scacchiere dell’area, riesce di volta in volta ad ottenere l’appoggio delle potenze straniere, sia locali, sia Occidentali le quali, sostanzialmente, lo salvano dal collasso economico completo attraverso ingenti prestiti.

Da segnalare che le parti più progressiste della rivolta di Piazza Tahrir, dopo aver raccolto un buon seguito, in presenza dei Fratelli Musulmani hanno in maggioranza più o meno esplicitamente simpatizzato per il colpo di stato militare, salvo poi trovarsi oggetto della consueta repressione da parte dei militari.

A proposito di tali repressioni intendiamo ricordare la vicenda di Giulio Regeni, caduto vittima proprio mentre svolgeva un’attività di documentazione delle difficili condizioni del sindacalismo in Egittto.

Tornando a Morsi, dopo il luglio 2013, il suo destino è consistito nell’abbandono più totale da parte delle potenze imperialiste, che tanto ne avevano sbandierato la vittoria “nelle primi elezioni democratiche della storia dell’Egitto”.

La sua condanna a morte prima, e la morte poi, avvenuta nell’indifferenza generale, sono la rappresentazione più classica di come l’imperialismo tratta le fazioni dei paesi sotto il suo dominio (o che attende assoggettare al suo dominio): cerca di strumentalizzarle ed utilizzarle finché servono, per poi gettarle via non appena la loro utilità viene meno.

In questo caso, l’abbandono di Morsi è stato anche la conseguenza di una debolezza da parte degli USA, costretti ad accodarsi ai paesi che ne hanno appoggiato la detronizzazione, ma ciò cambia poco dal punto di vista dell’ipocrisia dei comportamenti culturali e politici dell’imperialismo.

Il destino di Morsi, ovviamente, costituisce un monito anche per tutti coloro, che, sui variegati scenari internazionali, cercano alleanze (a perdere) con gli imperialismi .

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