In un giornale, la rubrica “Interventi” serve a presentare punti di vista e opinioni diverse da quella redazionale, purché utili al ragionamento collettivo. In seguito al nostro editoriale, un po’ di discussione si è aperta. Illustra una situazione preoccupante, ma proprio per questo bisogna lavorarci sopra.
Si parte da questa fotografia..
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Le mobilitazioni contro il «green pass» ci hanno fatto guardare alla Francia[1] con un misto di ammirazione e ispirazione per intavolare una discussione al di qua (e a sinistra) delle Alpi. Badiamo bene, anche lì c’è chi, mettendo le mani avanti, sente di dover precisare[2] che «essere vaccinati/e non significa sostenere il governo, non essere vaccinati/e non significa essere no vax».
Ma forse nello stallo in cui siamo quelle mani in avanti possono servirci da slancio per muoverci. Sì, perché tra le poche eccezioni nostrane, nemmeno la filosofia politica[3] pare aiutare fino in fondo a uscire dalla prigione mentale delle dualità dominanti – vaccino/non-vaccino, pass/no-pass, no-pass/no-vax – oltre ad avventurarsi in discutibili giochi di numeri che rischiano di oscurarne le ragioni.
Ecco, filosofia a parte, è su qualche passo falso e su qualche ambiguità che potremmo leggere quell’impaccio compagno ancora così diffuso dalle nostre parti. Cercando di costruire un dibattito fruttuoso verso cui c’è chi ha già proposto che il pass va oltre il tema dei vaccini, che il vaccino da solo non è risolutivo e che il pass non è di certo la soluzione.
Diciamocela tutta: ci viene bene stigmatizzare chi si conforma; è nel nostro DNA radicale, lo stesso che al contrario ci fa provare simpatia per chi ha gli anticorpi per reagire a un’imposizione. In genere è un patrimonio comune. Solo che in questa fase non ci troviamo d’accordo su come distinguere tra le due categorie. E andiamo in tilt.
Qualcuno ci suggerisce[4] che non siamo abituati a un “rapporto a tre”: oltre al “capitale/stato”, ora tocca relazionarci anche col virus. Qualcun altro contesterà che il virus non è un attore, ma non prendiamola come scusa per non considerarlo almeno come un fattore.
Se il “capitale/stato” affronta in parte[5] la questione-pandemia, e lo fa anche con metodi non condivisibili e/o funzionali ad affrontarla, rifiutare in toto o in parte la sua “ricetta” senza avere però una ricetta nostra per il problema sanitario ci pone in una condizione di marginalità che può assumere sfumature grottesche: se già l’uomo solo al comando infonde, ahinoi, fiducia in tempi di confusione e paura, contrastare le sue già non infallibili misure senza metterne in gioco delle altre rischia di rafforzare lui e mettere in imbarazzo noi.
La via d’uscita non è assolutamente ovvia. E qui nessuno sta proponendo una “larga intesa” col “capitale/stato”. Né quell’analisi sul “rapporto a tre” ha necessariamente come sintesi un obbligo vaccinale universale che – senza entrare nel merito della proposta lì avanzata – può suonare quantomeno più coercitivo e quindi più divisivo del già controverso «lasciapassare verde». Facciamo però qualche passo indietro.
Tornando al nostro DNA, potremmo iniziare ad analizzare quella simpatia per chi da un anno e mezzo mostra una certa allergia per quella caterva di norme promulgate spesso nottetempo coi vari dippiccièmme.
Operiamo però qualche distinzione. A nessunə di noi piacciono le decisioni d’urgenza e l’emergenza infinita: su questo siamo d’accordo, allergia condivisa.
Forse è condivisa anche la preoccupazione per un pass digitale che promette di aggiungersi alla lista di tracciamento dei nostri dati personali: telefoni, posta elettronica, motori di ricerca, siti web, social network, conti in banca, carte di pagamento, tessere dei trasporti locali e via dicendo. Una lista lunga e spesso poco problematizzata che ci impone di domandarci quanto ci sia inviso il mezzo (la tecnologia tracciante che è già progressivamente entrata nelle nostre vite, lavoro compreso) e quanto invece la sua funzione.
Facciamo finta di condividere un’avversione per il green pass. Passiamo a operare delle distinzioni su tutto il resto. Fino a che punto abbiamo controllato il nostro istinto ribelle per mettere in pratica con coerenza, coesione e costanza quelle poche precauzioni di base che abbiamo scoperto utili a frenare il contagio e le misure discutibili che questo induce e giustifica?
Fino a che punto non abbiamo confuso consigli medici, epidemiologici – mascherine a parte, non sempre realmente normati – con imposizioni cui “ribellarsi è giusto”? Non termoscanner e gel, ovvio, non coprifuoco e confinamenti vari, ma quella metrata di distanza, la finestra aperta, gli starnuti e i colpi di tosse parati.
Fino a che punto mettiamo in pratica quell’autogestione che diciamo farci fare a meno delle coercizioni? Dove si colloca il pass e dove ci collochiamo noi nell’affrontare e non eludere il problema della pandemia?
Ecco che arriva un altro passaggio antipatico (vogliamoci bene: almeno di politica non scriviamo solo per il nostro ego, per… piacere). Antipatico, sì, tanto quanto in apparenza secondario. Perché in qualche circostanza può pure aver prevalso una dinamica da branco, cameratesca. Della serie: mi abbasso la mascherina per non perdere punti sul compagnometro. Automatismi, estetica punk, debolezze umane, chissà.
Oppure ci abbiamo fatto attenzione, nei nostri spazi. Magari però non troppo convinta – non siamo mica guardie – quindi attenzione metà sì e metà no, attenzione chi vuole. Un cortocircuito di libertà in cui per non invitarti a “limitare” la tua finisco per limitare quella di chi col nostro atteggiamento ambiguo o semplicemente sciallo non si sente a suo agio e quindi abbozza, scappa o… si vaccina controvoglia.
Nessuna colpa, sarà una cosa strutturale. Anche se lo sappiamo bene che la libertà è una faccenda plurale. Poi non è che una parola o uno sguardo ti rendono per forza stalinista. O magari c’entra quel DNA radicale.
Sia quel che sia, forse nasce proprio lì la nostra confusione. In quel non chiederci come organizzarci in questa pandemia se non vogliamo farci imporre nulla dall’alto. O come affrontare quel nostro distratto o complice laissez faire che di fatto caccia chi non crede che autogestione rimi davvero con disattenzione. E magari lo trasforma in un acritico sostenitore del green pass o del vaccino obbligatorio.
E allora il passaggio antipatico non è poi tanto secondario, perché ci può aiutare a comprendere posizioni sempre più estremizzate e – se ci dice bene – suggerirci una sintesi inesplorata che dia dignità, non solo sulla carta, all’autodisciplina, all’attenzione alla libertà altrui insieme alla nostra.
E che permette di non spacciare per libertà quel germe egoista che è requisito e conseguenza di una vita permeata dal capitalismo; che adesso troviamo in piazza ma che forse non ci appartiene – fosse pure un compagno che sbaglia – e che forse ci dà da pensare su cosa sia davvero in questa pandemia quel conformismo da cui il nostro DNA tende a farci rifuggire.
Va bene la simpatia per chi non dice sissignore ogni giorno, ma se qualcosa non lo facciamo per rispettare la legge o l’appello accorato di qualche burocrate possiamo almeno farlo per rispettarci tra noi? Possiamo smettere di dividerci nel demonizzare o santificare il vaccino e piuttosto unirci in una giusta critica al tracciamento del pass ma pure nella prevenzione?
Con quel “principio di precauzione” che ci guida in tante lotte. Con l’astuzia di non finire sul terreno viziato dell’emergenza, del farmaco, del biotech; di populisti e complottisti, di martiri e guru. E col motivo in più di poter gridare più forte la nostra ragione.
Possiamo pensare che la prima cura è quella da prenderci verso chi ha accortezze non corrisposte, verso noi stesse? Perché imporre, lasciar imporre o adottare una linea ostinatamente contraria non-si-sa-bene-a-cosa può essere vissuta come atto violento o perlomeno ingiusto. O perché i compagni che ci perdiamo oggi per strada non li ritroviamo così facilmente domani in piazza.
Vale la pena, allora, rimanere neutrali, ignavi, lasciandoci etichettare a torto o meno come no mask? Basta davvero denunciare che domani ci daranno degli untori se oggi al duello spettacolare tra chi si vaccina e chi no non riusciamo a contrapporre un chiaro e convinto “ci proteggiamo – e davvero – da noi”? Possiamo dire (e fare) che no pass non significa no mask, no vax né scarsattenzione? (anche se scarsattenzione ha il volto rassicurante di un vecchio compagno che è già in prima linea contro il green pass). Possiamo non indebolirci? Possiamo capire come provare a uscirne, da questa storia?
Perché non esiste solo la pandemia, ma per parlare d’altro non possiamo fingere che non esista. E che non finirà domani e che non amplifichi e distorca tremendamente le percezioni di ognunə. Non possiamo rischiare di soffiare sul fuoco dell’emergenza e non poter parlare a testa alta delle sue cause e delle criticità nella sua gestione.
Di miseria, ingiustizie, lavoro. Rischiare che tornando a parlare di ambiente e salute ci si dica di tacere perché ce ne fregavamo del contagio da virus. Che tornando a parlare di controllo sociale ci troviamo davanti un esercito di “crumiri” che ormai difende ogni tipo di schedatura perché non vedeva più alternative. Che i nostri spazi, fisici o d’azione, diventino sempre più dei ghetti (stigmatizzati di rimando) in cui stordire frustrazioni. Per non perdere terreno dove serve piuttosto riguadagnarne (insomma, non è che prima del covid fossimo proprio egemoni…).
Affrontare il tema «green pass» rifiutando schedature e logiche divisorie si può, si deve. Ma perché non gridiamo senza ambiguità che non è una battaglia contro il vaccino? Che chi non se la sente di vaccinarsi presta e presterà almeno tanta attenzione di base di quanta ne presta chi si vaccina? Perché non dimostriamo che la pandemia si può approcciare bene, anzi meglio, anche senza controllori e strumenti-spia?
La possiamo vedere come una questione etica, di coerenza, o come una questione pratica, di efficacia e credibilità. Ma vediamola! Per gridare le nostre ragioni senza passi falsi. E tornare a parlare d’altro.
[1] www.wumingfoundation.com/giap/2021/07/come-rapportarsi-alle-grandi-mobilitazioni-contro-green-pass-et-similia-alcune-indicazioni-dalla-francia/#comments
[2] mars-infos.org/vaccin-pass-sanitaire-complotisme-5858
[3] www.iisf.it/index.php/progetti/diario-della-crisi/massimo-cacciari-giorgio-agamben-a-proposito-del-decreto-sul-green-pass.html
[4] contropiano.org/editoriale/2021/08/03/il-delirio-sul-green-pass-0141172
[5] www.carmillaonline.com/2021/07/29/greenpass-nuovi-confini-e-le-frontiere-della-paura-contributo-per-un-ragionamento-che-auspico-collettivo/
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Camillo
Premessa sono vaccinato con due dosi, ho il green pass. Ma sono anche biologo con abbastanza esperienza lavorativa in epidemiologia e microbiologia.
Nonostante questi vaccini siano ancora in fase sperimentale ho sempre consigliato a tutti di vaccinarsi perché è normale che a fronte di un virus nuovo per il quale non abbiamo anticorpi un nuovo vaccino sarà sempre sperimentale per almeno 3 anni. Quando da piccolo mi vaccinarono contro la Poliomelite, il vaccino Sabin era ancora in sperimetazione e l’epidemia era in corso e questo per smentire chi dice che durante un’epidemia non si deve vaccinare; questo vale solo per gli allevamenti da animali da reddito e si capisce perché.
Ma per quanto riguarda il Green Pass sono contrario soprattutto per ragioni opposte di chi scende in piazza. Il Green Pass, infatti, deresponsabilizza chi lo ha, illude sulla propria incapcità di infettare e infettarsi, in breve fa correre il rischio di diffondere varianti del virus.
Non è uno strumento di profilassi, è solo uno strumento per non compromettere la stagione turistica.
Se non fosse che questi vaccini sono veramente troppo precoci (ma è giustificata la fretta) sarei per l’obbligo vaccinale.
Circa la compressione delle libertà, ce ne sono di compressioni molto più evidenti, una delle quali è che il diritto di sciopero che sta diventando sempre più difficile esercitare. Però, anche il Green Pass contribuisce a discriminare tra “buoni e cattivi” tra chi accetta tutto e chi si pone dubbi. Se i compagni di France Insoummise si sono posti il problema ce lo dobbiamo porre anche noi. Perché oggi il green pass passa per salvaguardia della salutecollettiva, ma domani chi mi dice che non venga fuori un Blue Pass per la sicurezza nazionale collettiva? E state sicuri che questo Blue Pass a noi comunisti o anarchici non celo daranno. E non mi venite a dire che ci penseremo quando succederà, perché se succederà sarà troppo tardi.
gudo
premessa: sono un sopravvissuto, probabilmente alla variante delta, non vaccinato (come il 99% dei “casi”).
Per me la questione della carta di obbedienza, che per motivi di puro marketing politico e’ chiamata “green pass” non dovrebbe neanche essere discussa; la pretesa che un’individuo non sia libero di decidere cosa vuole o non vuole iniettarsi e’ ai limiti della criminalita’ (come, nel passato, lo sono state altre terapie imposte forzosamente), e il fatto di voler imporre la vaccinazione con altri mezzi, cioe’ sostanzialmente un ostracizzazione dal consesso sociale, e’, come nota anche il commento precedente, assai rischioso. Perche’ una carta dell’ortodossia e della genuflessione al pensiero dominante potrebbe essere (cioe’ sara’) presto estesa, non solo alle questioni relative alla salute collettiva, che, non me ne voglia Camillo, e i pasdaran della “scienza”, in questo caso sono tutt’altro che certe, ma a qualsiasi forma di resistenza eterodossa
WALTER+GAGGERO
Non vi è alternativa finchè non prendiamo il potere ad una sanità gestita dal basso, solidale mutualistica ma pure conflittuale.
La tendenza generale e inarrestabile istituzionalmente è quella di una sanità Amerikana.
Il lasciapassare è solo controllo politico, è la sanità che non funziona per i cittadini comuni la responsabile della macelleria sociale, il Covid è trascurabile rispetto a tutte le altre cause di morte evitabili.